Alla scuola del cantore cieco. Per un ritratto confidenziale di Omero

Ritornare ai classici. Una figura mitica, attorno alla quale hanno sempre gravitato notizie spesso in contrasto tra di loro. Le leggende hanno preso il sopravvento sui dati storici lasciando spazio, ancora oggi, a dubbi e possibili interpretazioni di uno dei più grandi e importanti poeti della letteratura greca

Anna Ferrari

Alla scuola del cantore cieco. Per un ritratto confidenziale di Omero

Omero, si sa, è il padre del mito greco; ma è anche, a sua volta, un personaggio mitico. Se esaminiamo con attenzione le tradizioni che lo riguardano ci accorgiamo che esse ci dicono molte cose sulla mitologia in generale: l’incredibile quantità di notizie che nell’antichità si divulgarono sul suo conto, spesso in contraddizione l’una con l’altra, dimostra che ben poco di certo era noto sulla sua biografia e che il versante leggendario assunse presto la prevalenza su quello storico. Per vie traverse, però, anche le leggende che fiorirono su di lui contribuiscono a ricostruire il quadro storico nel quale si inseriscono l’Iliade e l’Odissea. E gli innumerevoli interrogativi rimasti insoluti intorno a questo straordinario personaggio continuano ad alimentare anche oggi non solo supposizioni erudite ma anche suggestive interpretazioni letterarie e poetiche.

Il nome e la città natale. – Tutto comincia dal nome, che sembra alludere, nelle fantasiose ricostruzioni etimologiche degli antichi, a una biografia avventurosa. Ignoriamo in realtà il significato preciso del nome di Omero, che compare per la prima volta nel fr. 357 (dubbio) di Esiodo: l’incertezza era già degli antichi, per alcuni dei quali voleva dire ‘cieco’, nel dialetto eolico di Cuma, per altri ‘ostaggio’ (entrambe queste interpretazioni, come vedremo, secondo un procedimento tipico del formarsi dei miti, generano una serie di racconti che arricchiscono la sua biografia). Più spesso, però, per antonomasia era chiamato “il Poeta”. Sul suo luogo d’origine le tradizioni leggendarie non erano meno complicate: almeno sette città si contendevano l’onore di avergli dato i natali. Tra queste l’isola di Chios, menzionata anche da Pindaro come patria del poeta e sede di una corporazione di aedi, gli Omeridi, che si vantavano di essere i discendenti del grande capostipite.

La confraternita degli Omeridi. – In realtà, secondo gli orientamenti più recenti della critica, potrebbe darsi che gli Omeridi si fossero inventati di sana pianta il proprio illustre antenato: essi erano una confraternita di poeti che mescolavano alla loro attività creativa quella di cantastorie nelle pubbliche piazze (o più anticamente nelle corti), e questa loro performance, espletata con arte consumatissima e raffinata, in una specie di maratona poetica, si traduceva nel ‘cucire insieme’ (il verbo greco omerein, da cui deriva il loro nome, avrebbe appunto questo significato) pezzi poetici che costituivano nel loro complesso un tutto omogeneo ma erano affidati alla recitazione e al canto di più esecutori. Per conferire autorevolezza alla propria confraternita e assicurarsi l’egemonia nella narrazione pubblica dei poemi che noi chiamiamo omerici, essi si sarebbero poi inventati un poeta capostipite, chiamandolo Omero in modo da dare una legittimazione più solenne anche al loro stesso nome. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto, nel campo della scultura, con la figura mitica di Dedalo, capostipite di una stirpe di scultori che si facevano chiamare Dedalidi in suo onore; sembra che l’etimologia originaria del nome Dedalo fosse da mettere in relazione con il verbo greco daidallein, ossia ‘eseguire a regola d’arte’: i maestri scultori si sarebbero quindi inventati anch’essi un capostipite ad hoc, il cui nome giustificava il loro. I poeti che recitavano il mito e gli artisti che lo rappresentavano, dunque, affondavano proprio nel mito le loro origini: una mise en abîme che dischiude prospettive e profondità insondabili, un vertiginoso gioco di rimandi e di riflettersi di specchi.

Le mille patrie di Omero. – Ma torniamo al nostro cantore cieco. Secondo altre leggende Omero era nativo di Smirne, di Ios o di Colofone; troncando perentoriamente la discussione, nel II secolo d.C. lo scrittore greco Luciano sentenzia che “in realtà era babilonese e presso i suoi concittadini non si chiamava Omero, bensì Tigrane; poi, essendo stato come ostaggio in Grecia, aveva mutato nome” (Storia vera, 27 [14], 20: in questa ricostruzione omeros significherebbe precisamente ‘ostaggio’). Ciò non impediva tuttavia agli abitanti di Chios di ribadire l’origine locale del più illustre poeta della Grecia, e di mostrare lungo la costa orientale dell’isola, a nord del capoluogo, una pietra rotonda in forma di tavola, chiamata Daskalopetra (‘la pietra del maestro’) dove secondo la tradizione Omero impartiva i suoi insegnamenti. La pietra, tuttora visibile, è stata ritenuta dagli archeologi, più probabilmente, un altare dedicato alla dea Cibele. Quanto alla tradizione che faceva di Omero un nativo di Smirne, secondo la versione locale del mito il poeta era nato da Criteide, una Ninfa dell’Asia Minore, e dal dio fluviale Meles, fiume che scorre presso la città, mentre una versione più articolata raccontava che Criteide era figlia di un uomo mortale, Apelle, il quale, in punto di morte, la affidò alla tutela del proprio fratello Meone; liberatasi dalla custodia dello zio, Criteide si unì a un abitante di Smirne di nome Femio e generò un bambino, Omero, che diede alla luce sulle rive del fiume, un giorno che era andata a lavare i panni in quelle acque. Chi volesse soffermarsi ad esaminare i nomi dei personaggi che entrano in questa leggenda non potrebbe fare a meno di trovare significativi ritorni onomastici nella figura di Femio, nome ricorrente per indicare gli aedi, a partire dal Femio dello stesso Omero nell’Odissea. Una versione ancora diversa, sempre legata a Smirne, raccontava che Criteide, figlia di Io, fu amata da un personaggio soprannaturale che faceva parte del corteggio delle Muse; venne poi rapita dai pirati e trasferita a Smirne, dove fu liberata dal re della città, Meone, che la sposò. Ne ebbe un bambino, Omero, che diede alla luce sulla riva del Meles, morendo subito dopo di parto (le notizie sono raccolte nel lessico Suida e in Plutarco, Vita di Omero, 3 e La vita e la poesia di Omero, 2). Presso le sorgenti del Meles, poi, “c’è la grotta dove dicono che Omero compose i suoi poemi” (Pausania, VII, 5, 12). Da queste tradizioni si traeva la spiegazione dell’epiteto di Melesigene, ‘nato in riva al Meles’, con cui Omero veniva talvolta indicato. Anche la piccola isola di Ios, situata a sud di Paro e di Nasso, era entrata nel mito perché contendeva ad altre località l’onore di aver dato i natali a Omero (cfr. Plutarco, Sertorio, 1, 7; Gellio, III, 11, 6; Antologia Palatina, VII, 2). Plinio la ricorda invece come “degna di riverenza per la sepoltura di Omero” (Nat. Hist., IV, 69). Insomma: come luogo della nascita, della morte o della sepoltura del più antico poeta della cultura occidentale, molte località rivendicavano diritti su un pezzettino della gloria di Omero.

Le incertezze cronologiche. – Se campanilismi e localismi di ogni tipo contribuirono nel tempo a moltiplicare i luoghi di nascita di un poeta che probabilmente non nacque mai, altrettanto discordanti e scarsamente ancorate a dati storici concreti erano le tradizioni relative alla sua cronologia, che lo collocavano all’epoca della presa di Troia da lui cantata nell’Iliade (e che secondo la datazione seguita dagli antichi sulla base di Eratostene si poneva nel 1184 a.C.), ma anche sessanta, cento, addirittura quattrocento anni più tardi. Né è di molto aiuto un rapporto cronologico con Esiodo, perché le tradizioni lo fanno ora suo contemporaneo, ora suo predecessore, ora più recente. Erodoto (II, 53) considera contemporanei Omero ed Esiodo e li colloca entrambi quattrocento anni prima di sé: quindi intorno alla metà del sec. IX a.C. Il rapporto con Esiodo è sottolineato da una leggenda popolare che confluì nel componimento noto come Certame di Omero ed Esiodo, secondo la quale i due poeti gareggiarono in una competizione poetica indetta sull’isola di Eubea per celebrare Anfidamante, re dell’isola. Omero, in quell’occasione, sarebbe stato sconfitto da Esiodo, non tanto per la forma poetica, quanto per i contenuti del suo canto: Omero inneggiava infatti a imprese guerresche, mentre Esiodo concentrava la sua arte sui temi del lavoro e della pace. Il verdetto venne formulato dal fratello di Anfidamante, Panide, e da allora l’espressione “giudizio di Panide” divenne sinonimo di valutazione affrettata e scarsamente fondata.

Alcune caratteristiche della biografia di Omero (per esempio la nota leggenda della sua cecità, che si ripercuote anche nei ritratti che di lui ci sono pervenuti) si rifanno, più che a notizie precise che lo riguardano, alle consuetudini secondo le quali si rappresentavano nell’antichità aedi e rapsodi, considerati appunto ciechi sulla base della stessa narrazione omerica relativa a Demodoco, il cantore ricordato nell’Odissea (VIII, 62 ss.); l’idea della cecità di Omero risale all’epoca dell’Inno omerico ad Apollo (v. 172), ossia circa al VI secolo a.C. Alla sua attività di poeta gli antichi attribuivano l’Iliade, l’Odissea, gli Inni convenzionalmente definiti appunto omerici, il Margite, la Batracomiomachia e alcuni componimenti poetici minori.

Dubbi, incertezze, dibattiti: la “questione omerica”. – Queste e altre notizie si leggevano, tra le innumerevoli biografie di Omero, soprattutto in quella attribuita falsamente a Erodoto, in un’altra pseudo-plutarchea e in diverse opere minori. Accenni a Omero si trovavano poi in tutte le opere di storici, poeti, compilatori e mitografi dell’antichità.

E non solo: la figura di Omero è al centro di uno dei più grandi dibattiti che la filologia abbia mai conosciuto, quello relativo alla paternità dell’Iliade e dell’Odissea e alla veridicità storica di un poeta di nome Omero, dibattito che va sotto la generica etichetta di “questione omerica” e che si è snodato nel corso dei secoli con alterne posizioni, ora a favore, ora contro l’esistenza del personaggio storico Omero. La critica contemporanea ha concentrato la sua attenzione su altri temi e la “questione omerica” ha negli ultimi decenni perso la sua centralità nella considerazione dei filologi, ma la figura del poeta cieco non ha cessato di affascinare e di suscitare interesse. Tra le innumerevoli menzioni che nella letteratura di ogni tempo e di ogni paese vengono fatte di Omero e dei suoi poemi, val la pena di ricordare almeno l’interpretazione che della figura del poeta offrì il Vico, e soprattutto la citazione che gli riserva Dante, incontrandolo nel primo cerchio dell’Inferno, il Limbo, e presentandolo come “Omero, poeta sovrano”, “signor de l’altissimo canto, che sovra gli altri com’aquila vola”, a capo della “bella scola” dei poeti più grandi (Inf. IV, 88, 95-96, 94). Tra le interpretazioni più curiose e singolari della figura dell’autore dell’Iliade e dell’Odissea si possono ricordare almeno quelle, in chiave poetica, di Luigi Malerba (che in Itaca per sempre immagina che l’Odissea sia un poema autobiografico scritto dallo stesso Ulisse), e di Samuel Butler, che scrisse L’autrice dell’Odissea e Sull’origine trapanese dell’Odissea, attribuendo la composizione del poema a una donna; un poema narrativo dedicato a Omeros si deve inoltre a Derek Walcott, il celebre poeta e drammaturgo caraibico.

Anche l’arte figurativa antica si è sforzata di interpretare la figura di Omero e ci ha tramandato numerosi ritratti del poeta, quasi tutti giunti fino a noi in copie di età romana risalenti a originali greci più antichi databili intorno alla metà del V secolo a.C. Sono tutti ritratti di ricostruzione, che fanno proprie le caratteristiche della figura di Omero tramandate dalla tradizione: lo raffigurano come un vecchio dalla lunga barba, con il volto concentrato e pensoso e la profonda cavità orbitale che indica chiaramente la sua cecità. Le rughe che solitamente gli solcano la fronte nei ritratti non indicano genericamente l’età avanzata, ma sono una rappresentazione convenzionale della concentrazione e della profonda capacità di memoria che caratterizza il poeta. Celebri ritratti di Omero si trovano a Monaco, al Museum of Fine Arts di Boston, al Museo Barracco e ai Musei Capitolini di Roma. La scena dell’apoteosi di Omero compare su un rilievo votivo rinvenuto già nel XVII secolo lungo la via Appia e realizzato dallo scultore greco Archelao di Priene: qui il poeta è circondato da raffigurazioni simboliche e dall’immagine delle nove Muse.

Il personaggio e la sua leggenda. – La molteplicità (per non dire la confusione) di tutte queste notizie che complicano, anziché chiarire la storia delle origini di Omero si spiega con la popolarità enorme di cui i suoi poemi godettero nei tempi antichi e contribuisce a creare intorno alla sua figura un’aura di leggenda e a costruire il suo personaggio meglio di quanto avrebbe saputo fare, consapevolmente, qualsiasi scrittore. E in effetti pochi poeti al mondo sono più seducenti di Omero. Anche se (o forse proprio perché) probabilmente non è mai esistito; e quindi la sua biografia non fa che socchiudere porte su ambienti misteriosi, destinati a incuriosire ma a rimanere insondati.

Nella sua leggenda, che è essa stessa diventata una sorta di mito, confluiscono elementi che vale la pena di sottolineare:

  1. la sua origine divina, che lo pone in una dimensione particolare e diversa da quella in cui si muovono i comuni mortali (il poeta ispirato, che tanto successo avrà in età romantica, trova qui un antesignano illustre);
  2. la sua cecità, che ne fa colui che, incapace di vedere le cose del mondo, sa però scorgere ciò che agli altri è precluso, la vita degli dèi e i soprannaturali disegni divini del mondo;
  3. i risvolti avventurosi della sua vita, secondo alcune delle biografie che abbiamo citato, che peraltro ben si confanno al suo ruolo di poeta di corte, perennemente in viaggio da un paese all’altro, con tutti i rischi e i contrattempi che il viaggio a quei tempi comportava;
  4. il suo ruolo di maestro, a capo di una confraternita di poeti che da lui avevano imparato l’arte di raccontare e che verosimilmente costituiscono, di tutto questo grumo di leggende inverificabili, l’aggancio più autentico con la realtà storica. Perché effettivamente la leggenda di Omero, e insieme quella della confraternita degli Omeridi, ricalca le condizioni reali in cui si muovevano e recitavano i poeti della Grecia di età micenea ed arcaica, al servizio delle corti e basandosi esclusivamente sulla propria memoria (in mancanza di scrittura, che per l’epoca non è attestata) e sulla recitazione. E sulla recitazione vale la pena di spendere qualche parola in più, perché è anch’essa strettamente legata al tema del mito, della sua cristallizzazione letteraria e della sua fruizione.

Le modalità di trasmissione dell’epica arcaica. – Per noi, abituati a sederci comodamente in poltrona per leggere un libro, e a considerare la letteratura, poesia compresa, come un piacere squisitamente privato, può risultare abbastanza difficile comprendere la vera natura della performance degli antichi poeti (chiamiamoli Omeridi, in onore del loro capostipite, oppure aedi o rapsodi, con il nome comune con cui erano solitamente indicati mettendo in risalto rispettivamente il loro ruolo di cantori – aedi – e di ‘cucitori’ di favole – rapsodi). Uno dei contributi più interessanti che la citata “questione omerica” abbia dato alla filologia è proprio rappresentato dall’approfondimento sulle modalità di trasmissione orale dell’epica, reso possibile a partire dalle celebri indagini sul campo condotte da alcuni antropologi e filologi nel territorio della penisola balcanica dove, ancora intorno alla metà del secolo scorso, esistevano cantori di un’epica locale che si tramandavano a memoria lunghi componimenti e li eseguivano in pubblico ricorrendo a una mnemotecnica verosimilmente molto simile a quella dei tempi omerici.

Riassumendo molto sinteticamente – in questa sede possiamo permetterci qualche semplificazione: ma per chi volesse approfondire la bibliografia è sterminata, e una sintesi, non recente ma molto limpida, è rappresentata dall’Introduzione a Omero di Fausto Codino (Einaudi, 1965) – riassumendo, dunque, è possibile immaginare che i poemi che noi continuiamo per comodità a chiamare omerici non fossero stati composti realmente ex novo da una sola persona di nome Omero (né, in verità, da alcuna altra persona chiamata con un nome diverso): semplicemente, non sarebbero stati opera di un singolo poeta. Essi dovevano verosimilmente essere, invece, la sistemazione, operata da una confraternita di poeti, che poi ne tramandarono a memoria la forma, di un ricchissimo patrimonio mitologico radicato nella cultura della Grecia a partire dall’età micenea (dal secolo XII, per intenderci, ossia dall’epoca in cui la cronologia tradizionale collocava la distruzione di Troia): un patrimonio che circolava oralmente sotto forma di credenze e favole popolari, e che a un certo punto gli Omeridi cominciarono a riorganizzare e a rendere sistematico per l’uso pratico che ne veniva fatto; e questo uso pratico consisteva nel viaggiare di città in città, alla corte aristocratica dei signori dell’epoca, cantando nei loro salotti, durante i loro banchetti, con l’accompagnamento di musica, le gesta degli eroi e degli dèi (perché nei poemi omerici, se ci fate caso, si parla soltanto di eroi e di dèi: la gente comune, i poveracci, non ci sono mai. L’unico poveraccio è Ulisse, ma è un eroe travestito da poveraccio, che si finge mendicante ma non lo è affatto; e c’è un altro mendicante, a Itaca, oppure c’è il pastore di porci Eumeo, o ci sono i servi, o le ancelle di Penelope, ma sono tutti gravitanti nell’orbita dei signori, della corte, degli eroi; e sono comprimari, se non semplicemente sfondo).

Il processo di formazione dei poemi sarebbe stato, secondo alcuni studiosi, qualcosa di simile a ciò che avvenne in età romantica con la raccolta delle fiabe popolari ad opera, per esempio, dei fratelli Grimm, o di Perrault, o di Lafontaine; o un’operazione paragonabile in tempi molto più recenti a quella di Calvino (Italo) con le fiabe italiane: a un certo punto un paziente estensore raccoglie le varie versioni di una storia popolare famosa, amata e raccontata in mille modi diversi da mille persone diverse, a memoria, con tante varianti, e dal momento in cui il paziente estensore dà a quella storia una forma organica dotata di prestigio (che sia scritta o orale, non importa, anche se evidentemente la scrittura aiuta), la storia in questione diventa quella e le varianti via via si perdono. La scrittura, nel nostro caso, viene molto dopo: quando, nel VI secolo a.C., Pisistrato, signore di Atene, fa redigere per iscritto la più antica stesura dei poemi omerici che sia giunta fino a noi. Che però ha già, come si vede, una lunghissima storia alle sue spalle.

La dimensione orale dell’epica: parola, recitazione, memoria. – Questa lunghissima storia è interessante proprio per l’elemento dell’oralità che la caratterizza. E per le modalità della sua trasmissione, e della performance, ossia del contesto in cui viene fruita. Il contesto aristocratico, valido per l’età più antica, viene progressivamente sostituito da quello delle comunità di cittadini in occasione di feste religiose e ricorrenze pubbliche: in quelle occasioni i cantori, in vere e proprie maratone poetiche e musicali, si susseguivano nell’arco della giornata di festa recitando un canto dopo l’altro, partendo, a richiesta, dal punto che al pubblico o agli organizzatori sembrava più adatto, e premettendo di solito alla recitazione un inno a una divinità (i cosiddetti Inni omerici, che si sono conservati fino a noi).

Questo tipo di performance spiega molte cose: innanzitutto, il fatto che la materia immensa e magmatica del mito doveva essere organizzata in sequenze temporali di una certa ragionevolezza (sono quelli che noi chiamiamo libri, ma che sarebbe più corretto definire canti, di una lunghezza limitata e atta a una memorizzazione e un’esecuzione affidata a un singolo rapsodo; anche se va detto che l’articolazione in libri quale noi la conosciamo è opera dei bibliotecari ellenistici di Alessandria d’Egitto e segue la suddivisione del testo in rotuli); inoltre il fatto che il linguaggio si presentasse ricco di formule ricorrenti, ben collaudate sul piano della metrica, adatte quindi a sopperire ai vuoti di memoria con il giusto numero e la giusta lunghezza delle sillabe e a semplificare la memorizzazione dei versi.

La parola, il discorso, la recitazione: il mito si caratterizza, nel momento stesso della sua codificazione, per la sua forma orale. Se ci pensiamo, in quest’ottica anche la cecità di Omero assume un valore simbolico profondo: non vuol dire soltanto che il poeta, nel suo racconto, ha gli occhi fissi su un mondo che è popolato di dèi ed eroi, e quindi non vede la dimensione umana comune ai più, né, quindi, ha occhi nel senso comune del termine; la cecità vuol dire, simbolicamente, che non è quella visiva la dimensione che qui interessa. L’occhio non è chiamato in causa: chi lavora è la parola, e l’orecchio che l’accoglie. L’occhio si svuota e, inutile, diventa la cavità immobile di uno sguardo cieco. Bisogna ricordarsi di questa cecità, di questo occhio assente, perché il ritorno prepotente dell’occhio, in letteratura, sarà protagonista di una rivoluzione nella ricezione del mito: quella operata dal teatro. Ma con il teatro per il mito comincia un’altra storia.

In apertura, foto di Olio Officina

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