Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

«Ai giovani di oggi manca la spinta rivoluzionaria»

Oltre le quinte… Intervista con Alessandra Vanzi. Un’attrice, una donna che ha attraversato con coraggio e determinazione una stagione complicata in cui nulla era acquisito. Le lotte femministe, i mutamenti della condizione femminile, gli anni di piombo, la “droga di stato”, l’impegno politico, il teatro, il cinema. «Senza ironia – afferma - non si fa nulla, non si sopravvive»

Mariapia Frigerio

«Ai giovani di oggi manca la spinta rivoluzionaria»

Ripercorrere una parte di storia d’Italia attraverso la vita di un’attrice, vissuta in un ambiente di cultura e di artisti. Una donna che la vita ha portato a scelte coraggiose, che ha dovuto confrontarsi e, quasi per reazione, amare famiglie conformiste molto diverse dalla sua. Seguirne la difficoltà di vivere uno stato di “diversità”, in anni in cui non era ancora cambiato il diritto di famiglia. Poi attraversare con lei, vissuta in un mondo prevalentemente di donne, le lotte femministe, con i mutamenti della condizione femminile, gli anni di piombo, la “droga di stato”, l’impegno politico che non le viene mai meno e una sinistra che, nonostante tutto, rimane maschilista. E ancora condividerne l’entusiasmo per le innovazioni del teatro degli anni ’70, per la bellezza di quegli anni, con spettacoli, registi e attori unici, e con la partecipazione alla formazione della mitica compagnia La Gaia Scienza, di cui è stata attrice e co-autrice. Infine lasciarci guidare nel mondo del cinema: dal curioso incontro con la Campion, alla lunga amicizia con Bernardo Bertolucci. Tutto questo in una narrazione fatta di grande umiltà e umanità da Alessandra Vanzi, all’insegna di un impegno sociale e civile che accompagna anche i suoi ultimi progetti.

Forse per un’alchimia, che solo tra donne può nascere, un’intervista “a tempo” si è trasformata così in una lunghissima chiacchierata.

Sei diventata madre giovanissima e non ancora attrice. Come si è conciliato questo essere madre così giovane col fare poi l’attrice?

Si è conciliato casualmente, vista la mia età. Devo dire, però, che sono cresciuta in una famiglia di “artisti”, nel senso che mia madre era pittrice, poetessa, poi gallerista. Mio padre è stato un regista di cinema e mio nonno (il padre di mia madre) era uno scrittore. Sono nata in una casa il cui bene maggiore erano i libri, una casa di donne, perché i miei genitori si erano separati fin da quando ero piccola e quindi sono cresciuta con mia madre e, vicine di casa, mia nonna, mia zia vedova e le mie due cugine. Tutte donne vissute nell’alone di quello che era stato il nonno scrittore.

Che si chiamava…

Giovan Battista Angioletti, co-fondatore della Comunità europea degli scrittori, poi tra coloro che hanno fatto il terzo programma radiofonico, il programma culturale della radio e, infine, direttore dei programmi culturali della RAI. Mio nonno era stato inoltre direttore di vari istituti di cultura, prima a Praga, poi in Francia, per cui mia madre e mia zia avevano fatto le scuole in paesi fuori dall’Italia.

La cultura a portata di mano, si potrebbe dire.

Certo, una famiglia con un’impronta culturale forte, di cui da bambina non m’importava o, soprattutto, ne ero poco cosciente. Poi divenni una ragazza difficile, molto ribelle e il mondo dello spettacolo mi stava particolarmente odioso.

Perché?

Forse perché avevo dei rapporti difficili con mio padre, lui era “il cinema”.

Mia madre, quando ero quattordicenne, proprio per questo mio essere “difficile” aveva provato a convincermi a seguire la scuola di teatro di Alessandro Fersen [drammaturgo, attore, regista teatrale, amico di Emanuele Luzzati e di Aldo Trionfo, NdC]. Ma la scuola prendeva solo ragazzi che avessero finito il liceo e non quattordicenni. Così non se ne fece di nulla. Mia madre, a sua volta, aveva fatto il Centro Sperimentale come attrice, perché, alla fine della guerra, il direttore del Centro Sperimentale l’aveva convinta ad iscriversi. Lei raccontava sempre che la sgridava dicendo: «Chi vol non pol, chi pol non vol», frase rimasta sempre nelle nostre teste.

«No, non posso, sono fidanzata e il mio fidanzato non vuole».

«Allora io iscrivo anche il suo fidanzato!»

I miei si sposarono poi nel ’49.

Come si conobbero i tuoi genitori?

Si erano conosciuti in Versilia, ai Ronchi, località frequentata dalla famiglia di mia madre: zona di scrittori, pittori, degli amici di mio nonno. D’altra parte pure mio padre veniva da lì, perché mio nonno paterno, un colonnello di cavalleria, era toscano, e mio padre aveva tanti amici in Lucchesia come i Bertolli e Cesare Garboli. Mi pare che i miei genitori si conobbero proprio perché mio padre e Cesare Garboli avevano deciso, subito dopo la guerra, di andare a conoscere lo scrittore che era mio nonno. Quando arrivarono ai Ronchi, si accorsero che lo scrittore aveva due belle figlie e lì cominciò la storia dei miei genitori.

 

E la tua storia con il padre della tua prima figlia?

Sono cresciuta, come già dicevo, in un ambiente di artisti, figlia unica di genitori separati e la mia massima aspirazione erano, proprio per questo, le famiglie tradizionali.

Famiglie con tre figli, perché tutti i miei amici avevano fratelli. Venivo, inoltre, da una famiglia non cattolica: ero sempre un po’ diversa dagli altri. Volevo a tutti i costi essere normale. Non ci sono riuscita. Casualmente sono rimasta incinta. Il padre di mia figlia veniva proprio da una di quelle famiglie che io ammiravo, nel senso che erano padre e madre, uniti da sempre, felicemente sposati, con tre figli, con padre ingegnere: tutto borghese, tutto perfetto.

 

Nell’immediato post-sessantotto, in anni di lotte politiche…

Io e il padre di mia figlia ci siamo conosciuti in un momento in cui tutti facevano politica: lui in un gruppo extraparlamentare, io pure e, come lui, anche i suoi fratelli. Così quella solida famiglia, molto cattolica e borghese, si rivelò poi non tanto solida e anche tutti loro finirono nel marasma di quegli anni, secondo le contraddizioni di queste situazioni.

 

Continuiamo con la tua storia privata.

Alla fine della scuola andai con Massimo in campeggio e rimasi puntualmente incinta. Accadde la prima estate in cui ero riuscita, dopo battaglie furibonde, a strappare il permesso a mia madre, che tentava di ricoprire il ruolo di padre e di madre, cercando di essere inutilmente severa, magari più delle madri delle mie amiche.

 

Come reagirono alla notizia i tuoi genitori?

Mio padre mi fece una “capoccia” dicendomi che mi stavo rovinando la vita, e che avevo tre soluzioni: abortire, non abortire, ma non sposarmi, la terza, quella che lui vedeva come la peggiore, era che mi sposassi e tenessi il bambino. Lo disse con grande veemenza. Io sapevo di volere Flavia, anche se non avevo idea di cosa fosse un neonato. Quello che non volevo era il matrimonio.

 

Hai detto di tuo padre. E tua madre?

Mia madre invece fu ferrea su quest’ultimo punto, sul matrimonio, e io l’ho odiata per anni. Ovvio che mia madre lo fece per proteggermi. Aveva già vissuto sulla sua pelle il giudizio negativo di donna separata con gli amici “comuni” che scelgono di rimanere dalla parte del marito.

Bisogna ricordare che eravamo in anni di pre-femminismo: io mi sono sposata nel novembre del ’71, in un’Italia completamente diversa da quella di oggi, dove ancora non era cambiato il diritto di famiglia.

 

Quindi ti sposasti: come fu il tuo matrimonio?

Un matrimonio che non resse, anche perché mio marito veniva da una famiglia tradizionale, dove si mangiava, si cucinava, mentre a casa mia no. Io sono cresciuta in trattoria: mia madre non sapeva cucinare niente.

Ero la persona meno adatta a fare la moglie. Io ho due figlie, ma non sono mai riuscita a fare la moglie. È andata così.

Per stringere, il matrimonio è durato un anno, poi mi sono separata, poi sono scappata, rinunciando a tutto, e sono andata a vivere a Milano, l’unica città “possibile” per una ragazza che non aveva finito la scuola.

 

Con la bambina?

I primi quindici giorni da sola: tutti pensavano che fosse un atto di follia e che sarei tornata a testa bassa o a fare la moglie o a casa di mia mamma. Dopo un litigio furibondo alla Stazione Termini, mio marito mi disse: «Ti do quindici giorni: se tu in quindici giorni ti trovi una casa, un lavoro, un asilo per Flavia, te la puoi prendere».

 

Una sorta di ultimatum…

Io in quindici giorni, facendo salti mortali, addirittura pazzeschi, dormendo in una 500, firmai il contratto per una brutta casetta a pianoterra, da cui non si vedeva mai il cielo, un monocamera affittato dal padre di un mio amico, dal momento che ero ancora minorenne.

Ma alla fine… ce la feci.

 

Che lavoro facevi?

Era un lavoro da segretaria, quelle cose tremende dove lavori un sacco di ore al nero, sabato compreso. Per me però fu importante, perché era una scommessa con me stessa. Ce la dovevo fare da sola, volevo a tutti i costi l’affidamento di Flavia, non volevo nient’altro. Ero minorenne e i miei suoceri avrebbero potuto… Venivo inoltre da una famiglia di separati, di artisti, di persone – rispetto ai borghesi – “strane”. Su quel punto, nonostante la giovane età, fui veramente determinata.

 

Hai avuto la tua bambina prima della rivoluzione femminista, ma hai vissuto anche gli anni del femminismo. Che cosa hanno lasciato secondo te?

Di sicuro hanno lasciato molto e lo posso dire proprio io che ho vissuto sulla mia pelle quello che è stato il cambiamento del diritto di famiglia e tutte le grandi conquiste che ci sono state. Perché io mi ricordo bene il “prima” e il “dopo”. Quando lasciai Massimo, mio marito, la reazione fu univoca: ero diventata una “paria”, anche per gli stessi amici, per i compagni di sinistra. Donne e uomini mi avevano tolto il saluto. Eppure, nonostante fossimo due ragazzini (io avevo 16 anni, lui 20), i giudizi erano ancora molto pesanti. Molte cose oggi sono cambiate. Le nuove generazioni però le danno come diritti acquisiti, non sanno che sono invece il frutto di lotte pazzesche.

 

Ci sono ambiti in cui il femminismo non è entrato?

Nel teatro, ad esempio, è entrato poco, a parte il Teatro della Maddalena e quello più specificatamente femminista. In tutto il resto dell’ambiente teatrale, avanguardia compresa, per le donne è stata comunque più che dura.

 

Cosa mi dici del ’68 e degli anni a seguire?

In quegli anni e negli anni ’70, tutti erano sul crinale della scelta tra clandestinità e non clandestinità. Parlo di tutta quella parte che era la sinistra del Partito Comunista che si è ritrovata di colpo a fare delle scelte anche pesantemente condizionate da quello che succedeva.

Dopo Moro, invece, c’è stata una regressione pazzesca: non ti potevi fermare a chiacchierare all’uscita di un cinema in più di tre persone se no ti fermava la polizia con l’accusa di assembramento. Roma era diventata blindata e viverci era molto pesante. In seguito a questo una parte ha fatto la scelta della clandestinità, mentre una grande massa di persone (io seguito a dirlo e a ridirlo) è stata stroncata da quella che chiamo la “droga di stato”, perché è successo questo: hanno buttato per le strade fiumi e fiumi di eroina, che hanno annichilito completamente tutti quelli che erano più giovani, non ancora strutturati. È stato un massacro. Dopodiché il grande riflusso in tutti i sensi, soprattutto durante il governo Berlusconi in cui non si poteva neppure dire che eri stata femminista.

 

Come entra nella tua vita lavorativa e sentimentale Marco Solari?

Io vivevo in un marasma, mentre i miei amici frequentavano ancora il liceo, ma restavano pur sempre miei amici. Così, dopo un anno che stavo a Milano, nei tre giorni liberi dal lavoro per Pasqua, fui invitata da uno di loro con casa in campagna vicino a Firenze, ad andare da lui insieme alla mia bambina.

Fu uno di quei viaggi pazzeschi da Milano, quando ancora si dava l’assalto ai treni per trovare un posto nei vagoni stracolmi.

Arrivai a Firenze a notte fonda, con Flavia di un anno e mezzo in braccio. Seduti su una panchina, mezzo addormentati, che mi aspettavano, c’erano Franco Paolinelli, il mio amico, un altro ragazzo e in mezzo…

 

Marco Solari…

Che io conoscevo di vista in quanto amico di mia cugina, ma finché ero stata a Roma, incinta, poi sposata, poi con Flavia appena nata, con loro non mi trovavo più.

Invece lì ci siamo rincontrati e la notte prima di ripartire – lui timidissimo, io ancor di più – finalmente ci siamo parlati, dopo tre giorni di totale mutismo.

 

L’attesa e poi la nascita della tua bambina cambiò, mi sembra di capire, anche il rapporto con i tuoi amici.

I miei coetanei maschi mi guardavano come se fossi un mostro, perché avevo una bambina, quindi volenti o nolenti, coscienti o incoscienti, erano tutti terrorizzati da me.

L’unico umano, che però non si esprimeva, perché era troppo timido, con i capelli lunghi che gli coprivano mezza faccia, era Solari. Che trovò il coraggio di esprimersi la sera prima del mio rientro a Milano.

 

E il coraggio di Solari, il suo dichiararsi, vi portò…

Beh, dopodiché telefonate continue e un andirivieni, fino a quando scoprii che, non avendo ancora 18 anni, o avendoli appena compiuti, e con Flavia non ancora di due, l’aereo per Roma mi costava meno di un treno. Così, con Flavia che non pagava nulla, in aereo scappavo da Milano, venivo a trovare Marco e tornavo indietro. Ho fatto questo per un po’, finché ci fu una giornata in cui fu troppo lancinante lasciarci. Il biglietto dell’aereo rimase lì e io rimasi a Roma, senza più tornare a Milano, dove lasciai tutte le mie cose.

Noi siamo stati in giro sette mesi, senza casa, dormendo dappertutto.

 

E la bambina con voi?

La bambina con me e con mia madre, severissima, che mi disse: «Va bene, la bambina può dormire da me, però tu la metti a dormire la sera e la mattina devi essere qui prima che si svegli». Ed era quello che io facevo. Poi, quando Flavia si addormentava, io e Marco andavamo in giro a cercare ospitalità nella cantina di Guidarello [Guidarello Pontani, NdC], insomma abbiamo dormito un po’ dappertutto, fino a che non abbiamo avuto questa casa, una casa degli anni ’70.

Guidarello Pontani con Alessandra Vanzi e Marco Solari – foto cortesia di Carlo Causati

Spiega cosa intendi con “una casa degli anni ‘70”.

Una casa aperta, dove sono passati tutti, non solo gli amici italiani, ma tutto il mondo. Ogni tanto qualcuno telefonava e diceva: «Mi ha dato il tuo numero di telefono un mio amico dal Brasile, mi ospiti stasera?». E uno rispondeva costantemente di sì. Questo è stato anche la bellezza di quegli anni, perché era il modo di conoscere e di avere tantissimi amici in tutto il mondo.

 

Parliamo del teatro che hai fatto con Marco Solari.

Marco aveva una passione per il teatro già al tempo del liceo.

Abbiamo cominciato a fare delle cose noi due.

Marco mi chiese di fare Formiche rosse di Ferlinghetti a casa, con un gruppetto di amici ospiti e da lì siamo sempre andati avanti con il teatro.

 

Mi sembra che per il vostro “far teatro” sia stata molto importante la Biennale del ’75.

Fu una meravigliosa Biennale, con Ronconi, con Grotowski, con tutti gli altri grandi, con il Living Theatre, con Peter Brook. C’erano tutti e lì abbiamo conosciuto in treno Giorgio [Barberio Corsetti, NdC], con cui fondammo la Compagnia La Gaia Scienza. Ma di questo hai già parlato nell’intervista fatta a Marco [v. QUI, NdC]

 

Tu hai lavorato anche nel cinema. Penso a Ritratto di signora della Campion.

Ho lavorato benissimo con la Campion. La Campion con me è stata fantastica, perché ero arrivata all’improvviso, quasi per caso. Avevo fatto una piccola performance, ed ero andata da un amico fonico per finire di lavorare su questa. Mentre stavamo registrando lui mi chiede se sapessi l’inglese. Gli risposi che me la potevo cavare. Mi disse che faceva il fonico per la troupe romana del film Ritratto di signora e visto che la Campion avrebbe fatto i provini l’indomani, mi propose di presentarmi. Fece una telefonata a Shaila Rubin, che non finirò mai di rimpiangere e che fu la mia salvezza per anni, la quale mi propose di presentarmi l’indomani mattina nell’albergo di fronte allo zoo.

 

Chi era Shaila Rubin?

Un’americana che era venuta qui come attrice (aveva perfino lavorato con Fellini nella Dolce vita) poi si era fermata in Italia ed era diventata una casting, una dei più importanti direttori del casting internazionali che ha operato in Italia.

Così ti presenti…

Il mattino vado. C’erano tante attrici, tutte sedute su sofà e poltrone. Arriva la Campion che, non so come, mi guarda e mi dice: «Tu ti metti vicino a me». E io mi sono seduta vicino a lei, in mezzo a tutte le altre, che avevano le lines, ovvero le battute, il testo del provino. Io no. Nessuno, per il poco tempo, si era preoccupato di darmele. Così le altre dicono le battute, e quando arriva il mio turno guardo la Campion e le dico di non avere le lines, perché era stato deciso che mi dovessi presentare solo la sera prima. Lei mi ha guardata in faccia e mi ha detto: «Non importa tu sei bravissima». E mi ha preso…

 

Com’è, sempre in quanto donna, lavorare con le donne?

Io ho avuto delle buone esperienze nel lavoro con le donne, anche con le mie compagne attrici.

Ho fatto di Lidia Ravera un suo pezzettino, Totale, alla Filarmonica, anni fa. Poi ho lavorato con Anna Bonaiuto nel Woyzeck di Mario Martone. Ho lavorato tantissimi anni con la mia amica, nonché complice, Patrizia Bettini, non solo attrice, ma anche cantante in spettacoli d’avanguardia. Prima ne La cura di Victor, poi in Complici entrambi scritti da noi due. Complici divenne anche un cortometraggio. Anche Marco ha lavorato con noi come compagnia. Insomma ho lavorato con tante attrici e mi piace.

 

Tornando al cinema hai lavorato anche con Bernardo Bertolucci.

Ho lavorato con lui due volte. Sono tristissima perché è morta Clare [Clare Peploe, regista e moglie di Bernardo Bertolucci, NdC]. Ero amica di entrambi, ma soprattutto di Bernardo che era venuto a vedere un mio spettacolo e mi avrebbe voluto per La luna, addirittura, per il ruolo della fidanzatina.

Mi chiamò, mi chiese quanti anni avessi. Io avevo un po’ di più dell’attrice che poi ha interpretato quel ruolo, mi sentivo insicura sull’inglese, per cui m’impappinai e me ne andai.

Arrivata a casa, mi squillò il telefono. Era Clare che voleva a tutti i costi che facessi quella parte: «Ti prego torna, anche domani. Di’ una bugia, di’ che sei più giovane». Io sono tornata, ma non ce l’ho fatta a dire la bugia: Bernardo m’intimidiva troppo.

 

T’intimidiva, ma com’era come uomo?

È stato un grande amico, un amico per tutta la vita, mi manca molto perché, al di là delle volte che ho lavorato con lui (ho lavorato in Io ballo da sola e poi una cosa piccolissima, Io e te), è stato per me proprio un punto di riferimento. Quando si andava a cena da lui, nel dopocena ti faceva sempre vedere un film. Io ho visto un sacco di film, a volte addormentandomi persino sul divano. Era una persona curiosa, che aveva sempre un gran piacere a conoscere i giovani sia che fossero autori, donne, uomini, registi, attori, attrici: era sempre interessante andare da lui.

 

Conoscevi anche Giuseppe, il fratello?

Sì. Poi ho conosciuto anche Attilio, il padre, e tutti loro sono stati un vero punto di riferimento, compresa Clare, l’ultima che ci ha lasciato…

 

Giuseppe Bertolucci regista: ti piace?

Sì, molto. Bernardo e Giuseppe erano fratelli legatissimi e molto disponibili l’uno con l’altro, fratelli e amici.

 

In Io ballo da sola c’è Carlo Cecchi. Cosa mi dici di lui?

Carlo è un grande, un grandissimo. È stato un piacere lavorare con lui. Come succede spesso nel cinema, noi abbiamo girato molte più scene di quelle che poi sono state effettivamente montate. In ogni caso: un gran signore del teatro.

 

Io l’ho visto l’ultima volta a Lucca, alla commemorazione di Garboli.

Garboli, come ti ho detto, è stato un grande amico di mio papà.

 

Visto che vieni da una famiglia di grande cultura, hai mai pensato di scriverne, di lasciare una testimonianza scritta o di altro tipo?

Rimpiango di non aver intervistato mia nonna, la moglie del nonno scrittore, che avrei voluto anche filmare, ma non ci sono mai riuscita. Lei aveva dei racconti fantastici. I miei nonni avevano ospitato, quando il nonno era a Parigi all’Istituto di cultura italiana, durante il fascismo, Umberto Saba. Saba scrisse a casa di mio nonno il suo ultimo libriccino di poesie, Ultime cose. Io ho l’originale scritto a macchina su dei foglietti. Era molto depresso, e diceva a mia nonna:

«Pia, ma quanto è alta la tour Eiffel?» e lei: «È alta, è alta: buttati, Umberto». [ride] C’erano tutti questi racconti a casa mia.

Pensa che il testimone di nozze di mia mamma fu Ungaretti, perché era amico di mio nonno.

 

Intorno all’88 tu dici: «Ho paura che la mia generazione sia ormai immobilizzata». Lo confermeresti oggi?

La mia generazione purtroppo sì. Certamente non tutto si è immobilizzato, si è immobilizzato soprattutto quell’aspetto utopico e antiborghese. I protagonisti di quegli anni o sono finiti in galera o si sono imborghesiti tutti, artisti compresi.

 

Come vedi il teatro di oggi?

Lo vedo costretto in una serie di “gabbie” che noi non avevamo, alcune necessarie come quelle che riguardano la sicurezza. Poi c’è una burocrazia tale che soffoca tutto. I finanziamenti ai teatri non vengono più dati sulle voci artistiche, che risultano quasi opzionali. Per avere i finanziamenti devi rispondere a tutta una serie di regole burocratiche, i soldi arrivano in ritardo e alla fine sei quasi sempre in debito.

 

Quindi è un problema per i giovani di oggi.

I giovani riescono a lavorare con molta difficoltà e solo quelli che escono dalle scuole. Il teatro che facevamo noi (un misto di performance, arti visive, musica, poesia) non era assolutamente istituzionale, anzi noi combattevamo vivamente il teatro tradizionale, a volte anche sbagliando, naturalmente. Non ci interessava in quel momento il teatro di messa in scena, il teatro di regia. Il teatro era il luogo di tutte la arti. Adesso mi accorgo che tutto questo non c’è più, o è molto difficile da realizzare. Ma ugualmente ho speranza nei giovani, e spero che anche loro si scrolleranno tutte queste limitazioni dalle spalle riuscendo a sbloccarsi.

Foto di Mariapia Frigerio

Potremmo dire che noi eravamo più giovani?

Ai giovani di oggi manca la spinta rivoluzionaria (strano dire questa parola), che noi avevamo, insieme alla necessità preponderante di cambiare lo stato delle cose. L’altra spinta fortissima che avevamo era quella di rifiutare le classi sociali. Mio padre, giurista e storico, s’imbestialiva quando gli nominavo un amico col solo nome di battesimo senza conoscerne il cognome. Non sapere il cognome era un delitto, invece noi non li volevamo proprio sapere i cognomi.

 

Se tu dovessi, pistola alla nuca, scegliere tra cinema o teatro?

Da attrice o da regista?

 

Pensavo da attrice.

Da attrice il teatro, perché il teatro è un’altra storia per un’attrice: col teatro tu puoi attraversare un percorso, attraversi ogni sera una storia dall’inizio alla fine, entri ed esci. Nel cinema è tutto spezzettato. Per un attore il teatro è proprio un’altra musica.

 

E da regista?

Beh, io ho sempre fatto molto di più il teatro, ho fatto quasi esclusivamente il teatro, però devo dire che mi attrae il cinema. Forse conosco meglio il cinema del teatro, ho, tra virgolette, una cultura più cinematografica che teatrale. Però il teatro è la mia storia.

 

Hai lavorato anche per la televisione. Mi interesserebbe sapere il tuo pensiero sulle fiction, partendo dal fatto che nelle fiction con trame inesistenti, lavorano grandissimi attori di teatro.

Sono tra i pochi lavori pagati. Non voglio sputare nel piatto in cui ho mangiato e che spesso e volentieri ha salvato le penne a me e alle mie figlie, però tanti attori di teatro lavorano in televisione perché non si riesce a lavorare in teatro. È questa la realtà.

Non esiste più l’ETI, l’Ente Teatrale Italiano, che era quello che mandava in tournée gli spettacoli e, al di là degli Stabili, era quello che si occupava delle compagnie normali. Morto questo meccanismo, le tournée avvengono soltanto tra gli Stabili e quindi tutto quel giro di piccole compagnie si trovano in grandissime difficoltà.

 

Mi ricordo Paolo Poli che, quando ero ragazza, stava un mese a Torino, poi 15 giorni, poi 1 settimana…

Lo so. Adesso quando scopri qualcosa di interessante in un teatro e vorresti vederlo devi sbrigarti, perché magari sta solo tre giorni. È diventato così, perché gli attori muoiono di fame in questo paese, a parte quelli famosi, naturalmente.

Questo accade anche nel cinema, che pure è al risparmio perché in crisi. Il grande cinema di un tempo aveva tanti caratteristi che erano tutti grandissimi attori di teatro. Adesso non ci sono più. Oggi ci sono solo protagonisti, pochi della mia età e generalmente maschi. Per le mie coetanee ci può essere al massimo il ruolo di nonna. Alla fine non lavori. Io mi sono messa a scrivere per «Il Manifesto». Adesso sto facendo un documentario. Ho cercato di fare tutte le cose che potevo fare per non rimanere nel limbo.

 

Il lavoro dell’attore come divertimento. L’ho sentito dire tantissimi anni fa, per la prima volta, da Mastroianni. Poi mi sono accorta che lo dicono tutti, compreso Solari. È vero anche per te?

Verissimo, una goduria, un gioco, un grandissimo gioco, ma è un gioco serio e una gran fatica. Gli attori soffrono anche. Certo che essere in scena è il massimo della felicità per un attore.

 

Un’altra tua frase: «Senza ironia non si fa nulla, non si sopravvive».

La confermo a occhi chiusi. Anche nelle tragedie bisogna ridere. Anche ai funerali, perché l’unica cosa che si può fare durante un funerale è cercare di ridere, che è come piangere, però è come restituire alla memoria di chi non c’è più una parte più allegra, una parte più ironica.

 

Penso di averti rubato troppo tempo e ti faccio ora delle domande rapide. Qual è lo spettacolo che ti ha emozionato di più come attrice?

Come attrice, oddio, tanti, forse quelli con testi miei, perché mi appartengono maggiormente. Però come attrice, al di là dei miei testi, devo dire di aver provato una grande emozione ne L’accalappiatopi di Marina Cvetaeva, uno spettacolo con la regia di Marco, in cui ero proprio la “sua” attrice. Nell’Accalappiatopi Marco mi aveva dato la parte dell’autrice. Recitavo così i suoi testi bellissimi ed è stata una vera emozione, perché era poesia dentro il teatro.

 

Eravate già voi due soli?

Sì, eravamo già compagnia Solari-Vanzi, poi saremmo diventati l’associazione culturale Temperamenti di cui siamo entrambi direttori artistici. Noi continuiamo ancora oggi a lavorare insieme.

 

E lo spettacolo che ti ha emozionato di più come spettatrice?

Come spettatrice di spettacoli “grandi” ho amato l’Orestea di Peter Stein, vista al Teatro di Ostia antica, tutta la notte, dal tramonto all’alba. Non me la posso dimenticare, con quei cambi di scena meravigliosi. Quello che mi ricordo è, nonostante fosse in tedesco, nonostante durasse tutta la notte, di non aver avere mai chiuso gli occhi. Poi ci sono il Mahabharata e la Carmen di Peter Brook, quest’ultima fatta al Teatro Argentina con tutta la sabbia in platea. Per non parlare di Apocalypsis cum figuris di Grotowski. A ripensarci bene è questo che mi ha colpito più di tutti, perché è stato la rivelazione di un teatro completamente diverso: un vero colpo in testa! Non dimentico inoltre una performance di Benedetto Simonelli [attore, scrittore, regista legato al teatro sperimentale degli anni ’70, NdC] con sua moglie Esmeralda in Festival Italia-America a Pistoia, in cui, in uno spazio sterrato, avveniva una sorta di combattimento tra uomo e macchina. Una cosa mai più vista nella vita, con lei, la moglie, alla guida della macchina e lui che ci si scontrava fisicamente, in una sorta di carosello. Emozionantissima. Era teatro? No, quella era performance, non c’era un testo, però aveva un impatto fortissimo.

 

Un po’ come quando Marco raccontava che lui era rimasto emozionato dalla ballerina marocchina.

L’abbiamo vista insieme. Bellissima.

 

Due attori per te imprescindibili.

Aiuto! È molto difficile. Se devo pensare al teatro Ryszard Cieslak [attore polacco considerato l’attore modello di Grotowski, NdC] era il massimo: era tutto. Era corpo, era voce, era sensualità, era vero.
Di attrici ce ne sono tante, ma Perla Peragallo [attrice formatasi alla scuola di Fersen, protagonista del teatro degli anni ’70, celebre anche per il lungo sodalizio con Leo de Berardinis, NdC] aveva una grande forza. L’ho molto amata.

 

Adesso di cinema…

In quanto italiana mi è sempre piaciuto molto Mastroianni, ma, se dovessi parlare da donna, anche Marlon Brando [ride]. Trovo Marlon Brando in Ultimo tango uno dei più begli uomini del mondo.
Per quanto riguarda le attrici, quando ero giovane mi piacevano attrici come Anna Karina, Louise Brooks. Con gli anni ho rivalutato la grande Anna Magnani, soprattutto la Magnani di Mamma Roma, particolarmente nella scena in cui passeggia, perché è costretta a tornare a prostituirsi. Una scena bellissima, girata da Pasolini. C’è lei di notte che cammina chiacchierando con un’aria strafottente, mentre viene affiancata da prostitute, da femminielli, da vari tipi della strada e c’è questa sua passeggiata, con un suo monologo, con lei che chiacchiera da sola, tra gli altri che passano: una lunga carrellata. Qui è imbattibile.
Devo dire che da quando ho visto (durante il lockdown) il film tratto da quel bellissimo libro di Romain Gary che è La vita davanti a sé e ho visto Sofia Loren, che un tempo snobbavo, vecchissima, recitare in quei momenti di perdita di lucidità che mi hanno ricordato tanto mia madre, l’ho trovata bravissima.

 

Penso alla versione cinematografica dello stesso libro con Simone Signoret.

Eccone un’altra, altro genio, penso a Adua e le sue sorelle: è chiaro che è un gigante…
Però la mia attrice preferita, il mio faro era, è stata Jeanne Moreau.

 

Due domande. Te le dico in fila, poi tu rispondi come vuoi: i tuoi luoghi e i tuoi maestri

I miei luoghi sono qui, Roma, dove sono nata, dove vivo, dove c’è questa mia tana che ho conquistato con grande fatica e a cui tengo molto. Poi la Grecia che ho amato molto e dove sono stata più volte.

 

Quale posto della Grecia ami in particolare?

Le isole, ma anche tutto il resto, l’ho girata tutta. Due delle tre dita son bellissime. Poi mi piace l’Africa, l’Africa vera. Io sono stata in Mozambico dove ho seguito le elezioni del 2014, poi in Tanzania, in Kenia e penso che tutti dovrebbero farsi un viaggetto in Africa, per capire quanto è piccolo un uomo rispetto alla natura.

Foto di Mariapia Frigerio

Tu hai anche girato un film in Grecia?

L’unica volta in cui sono stata protagonista assoluta di un film fu proprio un film greco, una versione moderna de Le baccanti, si chiamava Mania, del 1985, di Giorgos Panousopoulos, ed è stato dopo la caduta dei colonnelli che avevano ridotto in pezzi il cinema. È stato il primo film con Melina Merkouri al Ministero della Cultura. È stato di nuovo il primo film importante della cinematografia greca. Era un film anche molto fisico, perché si svolgeva tutto quanto nel Parco Nazionale di Atene che è un parco nazionale dentro la città, dove Agave/Zoi impazzisce. È stata una lavorazione difficile, ma mi ha permesso di vivere in Grecia quattro mesi e di farmi molti amici.
Inoltre il film è andato al Festival di Berlino. Io però rappresentavo la Grecia e, naturalmente, vinse Nanni Moretti con La messa è finita.

 

Adesso i maestri…

Riguardo ai maestri posso dire il mio ultimo compagno, Alberto Grifi. Da lui ho imparato molto, perché noi, più che essere una coppia di fidanzati, eravamo una coppia di lavoro, nel senso che lui non smetteva mai di lavorare, giorno e notte. Per me è stato importante il suo modo di pensare, di affrontare le situazioni.
Poi Grotowski, naturalmente, e Peter Brook. Bernardo Bertolucci è stato un “maestro di vita”. Mi ha aiutato in momenti difficili. L’ho considerato un fratello più grande.
Io non ho fatto una carriera tradizionale, non sono così inserita negli ambienti ufficiali, sono stata un outsider, anche per scelta.
Avere l’amicizia di qualcuno che ti capisce e a cui vai bene così come sei, come Bernardo, dà un po’ di sicurezza.
Poi c’è stato Simone Carella [regista e animatore di quella che fu la stagione delle “cantine romane”, NdC], ma era più un cattivo maestro, importante comunque pure lui. Ma, a differenza di Marco, io sono una donna e Simone era misogino.

 

Vuoi dire che per una donna è più difficile fare teatro.

Il teatro è patriarcale, te lo posso assicurare, il teatro per le donne è veramente difficile. Non c’è una donna che decide, non c’è una donna di vero potere, non esiste.

 

E Andrée Ruth Shammah?

Certo, come c’è anche Emma Dante, c’è Mariangela Gualtieri. Però se le conti non si arriva alle dita di due mani. E in ogni caso non hanno grande potere. La Shammah forse un po’ di più.

 

C’è qualcosa che non ti ho chiesto e di cui ti sarebbe piaciuto parlarmi?

Ti posso però dire quello che sto facendo. Da gennaio ho iniziato un’impresa del tutto nuova per me. Sto cercando di fare un documentario su Mauro Palma, che è il Presidente del Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà. Si tratta di istituto nazionale in Italia soltanto dal 2016 e di cui si sa poco. Quello che si sa maggiormente è il fatto che si occupa delle carceri. Conosco Mauro da quando avevo quindici anni, perché fu il mio testimone di nozze. È un matematico e giurista: io ho cercato di farmi raccontare tutta la sua storia. Esperto a livello internazionale in tema di lotta alla tortura, è stato inviato anche in Cecenia. Per tutta una serie di motivi io ho molto materiale, in cui lui mi racconta la sua storia. Nella sede del Garante, ho girato con le sue due collaboratrici, poi ho girato delle conversazioni che lui ha fatto, tra cui una con don Matteo Zuppi, che è l’arcivescovo di Bologna, diventato cardinale, che conoscevo da tanti anni, perché era il parroco di S. Maria in Trastevere e nonostante io non sia né cattolica né credente in assoluto, lui ha fatto tutti i funerali dei nostri amici. Era veramente un prete di strada, per cui è stato capace di diventare anche mio amico. Ho tutta una lunga conversazione sulle carceri, come dovrebbero essere. Ne ho un’altra con lo psichiatra di Regina Coeli, e un’altra ancora con un giudice consulente della Corte di Cassazione. Girerò a Castelfranco Emilia in una REMS (le REMS sono quelle che hanno sostituito le OPG, quando le hanno chiuse, cioè i manicomi criminali) perché sono riuscita a ottenere un permesso per andare a vedere cosa sono diventate queste “residenze”.  Ho fatto tutto questo esclusivamente con le mie forze, perché sentivo – lo sento sempre – un bisogno di approfondire questioni importanti. Credo che la questione dei diritti sia una delle questioni di cui nessuno sa abbastanza. Il Garante Nazionale si occupa anche delle RSA, le residenze per anziani, dei TSO, trattamenti salutari obbligatori, dei migranti che vengono trattenuti alle frontiere senza motivo. Un discorso molto ampio, ma tra finirlo, montarlo, trovare i soldi non so come andrà a finire.

 

Mi sembra molto interessante.

Lo è. Infatti sto cercando di andare avanti, di finirlo. Le idee le ho, riesco a scrivere, son riuscita pure a girare senza soldi. La mia difficoltà è la parte organizzativa: cercare i soldi, cercare le produzioni. Non so mai come pormi. Chi sono? Cosa faccio? Sono un’attrice, sono una regista, sono un’autrice, non sono niente?
Di certo il lavoro che ho fatto più continuativamente di tutti è la madre. E anche la nonna. Lavori non pagati.
Però a quest’ultimo impegno tengo molto, perché, secondo me, ho un materiale in cui si dicono cose importanti, che sarebbe bene far sapere.

 

A questo punto ti saluto e ti ringrazio di avermi concesso questa intervista, si dice così, no?

Concesso mi sembra troppo. Ci siamo fatte una bella chiacchierata.

Lascio così Alessandra Vanzi che rimane nel mio cuore l’indimenticabile Mrs Thrale di Un caos di roba, spettacolo di Marco Solari dedicato a Giuseppe Baretti con Guidarello Pontani, nel ruolo del protagonista.

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