Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Alcesti e Narciso «senza stagioni né ore»

Elio Pecora, la cui alta caratura poetica ha segneto il Novecento e fino ad oggi, dà alle stampe Specchi nel labirinto, dove la mano di ferro del destino, l'inevitabile Necessità, dispiega le sue verità attraverso le indissolubili figure del mito greco, che sempre respirano nella realtà, nella coesistenza dei tempi che è la sola contemporaneità della poesia

David Fiesoli

Alcesti e Narciso «senza stagioni né ore»

Matilde Manzoni, l’ultima e la più bistrattata dei nove figli di Alessandro Manzoni, fu folgorata dai Canti di Leopardi. Fece del poeta di Recanati il privilegiato interlocutore del suo Journal, confessando di dover leggerne i versi con parsimonia, perché ogni volta le pareva che una mano di ferro le stringesse il cuore e le mozzasse il respiro[1].

Leopardi era certo incline a miti e “favole antiche”. Ma  ammoniva che gli antichi miti, se portati di peso nel mondo moderno come una collezione di gessi, non possono produrre che finzione, falsità e aridità, perché «manca la tal quale persuasione»[2], ovvero l’intreccio inestricabile delle “favole antiche” con la realtà. Ne risulta quel “goffo atteggiarsi” che era imperdonabile per Leopardi e tale è rimasto. Le affinità, interminabili nel cerchio del tempo, non sono nostalgia, imitazione, epigonia soffocante: il mito e le “favole antiche”, servono a dare respiro al mondo. Proprio perché mozzano  il respiro ai mortali.

Elio Pecora, la cui caratura poetica ha attraversato il Novecento e giunge alta fino ad oggi, alla soglia dei novant’anni dà alle stampe Specchi nel labirinto, dove la mano di ferro del destino, l’inevitabile Necessità, dispiega le sue verità attraverso le eterne, indissolubili figure del mito greco, che sempre respirano nella realtà, fuori dal tempo e dallo spazio, oltre i disordini e i mutamenti, poiché la poesia è «quadrato della verità: la potenza, se la natura è già una potenza, di una potenza»[3].

Avendo ben presente la lezione di Leopardi, Elio Pecora evoca la figura di Alcesti, levandole di dosso la polvere di gesso delle interpretazioni aride, spicciole, finte. E, attraverso di lei, affonda la sua lama.

 

«Me ne stavo impietrita. Vedevo

Admeto terreo, disfatto: caduta

la maschera del guerriero e del padrone,

gemeva per la sentenza

che lo rendeva pari all’ultimo della casa».

 

In Euripide, Apollo – il dio che non impara mai dai suoi errori –  riesce a ubriacare le Moire, figlie della Necessità, per evitare al re di Fere la morte, e come sappiamo, ne fece le spese Alcesti, che si offrì al posto di Admeto. Ma il Coro ricorda che cercare uno scampo qualsiasi è solo una pericolosa illusione, perché niente è più forte della Necessità, la dea più potente, e non c’è alcun rimedio, né negli antidoti di Asclepio, né nelle tavole orfiche[4]. Infatti, nessuno si salva: siamo morti tutti, non solo Alcesti, dice Admeto.

La Alcesti dipinta da Elio Pecora compie il gesto che le appartiene fin da allora: «Mi vendico di quella che sono stata / uscendo dal mondo». Così facendo, toglie il velo ad ogni finzione, e svela Admeto per quello che è ed è sempre stato: «lo conosco fiacco, bugiardo, / incapace di far valere le leggi / da lui stesso inventate». Come un’Ofelia greca, disossa le illusioni dei potenti, i favori e i denari, le guerre, l’odio tramandato dai padri ai figli, che si rendono schiavi della stessa vigliaccheria che li ha generati. Esce. E lascia la guerra, l’invidia, l’inutile speranza, la stolida pazienza, le parole confuse, i sogni ingannevoli. È una donna casta nella mente, come dev’essere la poesia. Capace di guardare in faccia la Morte che la accoglie, benevola.

I regni della Vita e della Morte sono come le due facce della Luna, una delle quali è sempre invisibile. Non c’è contrasto: c’è contiguità, come ben sapeva Rainer Maria Rilke. Per il poeta, il consenso all’esistenza passa dalla contemplazione della Morte. Ed ecco che nel poemetto che apre il libro di Elio Pecora, Il vecchio e il bambino, si incontrano i due sé che si confrontano, in un dialogo interrotto e frammentato eppure unito in un cammino che non li vedrà più antagonisti, proprio perché la nascita al mondo e l’uscita da mondo sono in fondo lo stesso mistero, Necessità senza rimedio alcuno, «un castigo, una festa» che il poeta assume in sé abitato dalla voce degli dèi, «in un tempo senza stagioni né ore» dove non c’è più un prima né un dopo.

Il poeta autentico è il solitario attraversatore del tempo, «il testimone solo di ciò che immobilmente perdura: un guerriero, una stella, una morte, un cespuglio di sorbo»[5]. Achille, Orione, Ettore, il sorbo insanguinato che Anna Achmatova descrisse quando tornò nella città della sua infanzia, e la trovò irriconoscibile.

Dopo Alcesti, l’altra figura del mito che Elio Pecora riporta attraversando il tempo è Narciso: ma che cosa restituisce, adesso, lo specchio? Narciso – come i poeti –  non è in condizione di cambiare sé stesso né il mondo. E allora da dove viene tutta la sua rabbia?

 

«Quando è che mi sono promesso

di mutare la mia stessa esistenza e l’altrui?

Chimere, da lasciarmi senza fiato,

senza braccia! Parole,

da cacciarmi nella disperazione,

mai ravvedimenti, mai verità».

 

Cristina Campo diceva di sentirsi come un cervo sempre in fuga nella foresta: non appena si avvicina a uno stagno, ha tanta sete che subito lo intorbida[6]. In quella sete inestinguibile perdura la poesia, poiché impedisce al poeta di specchiarsi, di guardare solo sé stesso, e perdere quella concentrazione, precisione, castità mentale, necessarie ad «avanzare / nel grande mare delle cose e degli eventi», eppure restando intatto, per scoprire la verità «confusa e intorbidata nel giro dei fatti e degli avvenimenti. Come ci si arriva? Con un’attenzione insieme docile e ardente»[7].

Specchi nel labirinto si chiude con una riflessione di Pecora sulla poesia, attraverso le infinite corrispondenze che legano – e lo legano – a Omero e Leopardi, Eliot e Lucrezio, Rilke e Kafka, Montale e Borges, affondando nella coesistenza dei tempi che è la sola contemporaneità della poesia. Così quell’attenzione che giunge all’uguale distanza sia dalla speranza di cambiare il mondo che dalla disperazione per non poterlo cambiare, si accende nel distacco, per diventare, come dice Ecuba nelle Troiane di Euripide, «canto eterno in bocca agli uomini».

 

Elio Pecora, Specchi nel labirinto, Firenze, Vallecchi, 2025

 

 

[1] Matilde Manzoni, Journal, a cura di C. Garboli, Milano, Adelphi, 1992.

[2]Giacomo Leopardi, Zibaldone, 286 – 287.

[3] Giorgio Caproni, in  «La Fiera Letteraria» del  27 febbraio 1947.

[4]Euripide, Alcesti, 965 – 970.

[5]Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, p.77.

[6]Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 203, p. 31.

[7]Gianna Manzini, Album di ritratti, Milano, Mondadori, 1964, p. 237.

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