Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Antonia Pozzi: l’anima delle cose
«L’artista [non] è colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita». È a questa frase della poetessa milanese che lo studioso di letteratura Vecchio dà un particolare rilievo. Il filo conduttore dei saggi raccolti nel volume di Matteo Mario Vecchio è il rapporto tra Arte e Vita (ma anche tra il manniano Geist e Leben, e tra «filosofia» e «realtà», come evidenziato dall’analisi della poesia Filosofia), tema centrale nel lavoro critico, filosofico e letterario dell’autore, insieme al concetto di soglia, limite, frontiera
Matteo M. Vecchio mi parlò del progetto di questo libro nel pomeriggio limpido di una primavera in cui la malattia, dopo ripetuti cicli di chemioterapia in regime di ricovero, pareva in una fase di remissione completa. Alla luce d’oro del sole che si avvicinava all’orizzonte e a un fervore di rinascita è saldato nella mia memoria l’annuncio del prossimo concretizzarsi di due progetti editoriali su Antonia Pozzi: la raccolta di studi L’anima delle cose e la Biografia.
Poiché vita e opera sono inscindibili, secondo Vecchio, nell’itinerario esistenziale e creativo degli autori di cui egli si è occupato con una accuratezza forse senza uguali, non credo sia sbagliato rivelare frammenti del vissuto in cui maturava una delle sue innumerevoli opere, in larga parte inedite.
Del resto, filo conduttore dei saggi raccolti in questo volume è il rapporto tra Arte e Vita (ma anche tra il manniano Geist e Leben1, e tra «filosofia» e «realtà», come evidenziato dall’analisi della poesia Filosofia), tema centrale nel lavoro critico, filosofico e letterario di Vecchio, insieme al concetto di soglia, limite, frontiera.
Il titolo L’anima delle cose attinge a una lettera scritta da Antonia Pozzi a Tullio Gadenz (nelle lettere indirizzate al quale, nonostante la tendenza a modulare la scrittura epistolare sulle attese del destinatario, ella «definisce il valore vitale e il significato etico che la poesia assume per lei»): «Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore». E più avanti: «Eppure, creda: se un raggio di sole, fra la nebbia, può ancora farsi strada, esso nasce soltanto là dove io sento che il mio cuore ha toccato un altro cuore, che l’ora greve è stata alleviata da me ad un’altra vita. Ed anche nasce – come Le dicevo – là dove riesco ad evocare con occhi intenti l’anima delle cose ed a far sì che le cose versino il loro pianto intorno e sopra al mio stesso dolore».2
Evocare l’anima delle cose, berla con occhi intenti, assetati, significa saper vedere – sentire – che tutte le cose sono abitate da un soffio di infinito, ma significa allo stesso tempo patire la lacerazione di volerlo afferrare – attraverso la scrittura come esercizio di chiarificazione – e frangersi contro la sua natura irraggiungibile e inconoscibile.
«Squarciarmi gli occhi per vedere, spezzarmi il cervello per comprendere, morire, morire per sapere»3, parole in cui si manifesta una estrema tensione vitale («Per troppa vita che ho nel sangue»4), messa in luce in diversi punti del libro. È proprio la tensione della «troppa vita» che, secondo l’autore, fa dell’atto creativo una necessità assoluta.
Il titolo scelto da Vecchio rimanda quindi anche alla concezione dell’«anima del mondo» presente in tutte le cose espressa da Giordano Bruno (in particolare nel De la causa, principio et uno), pensatore sul quale Antonia Pozzi desiderava scrivere un saggio.
Come rileva Mascia Cardelli nella nota editoriale: «Le trascrizioni degli Appunti di filosofia e dell’Abbozzo [di saggio su Giordano Bruno], compiute da Vecchio, sono un contributo imprescindibile al recupero di un versante ancora in parte sommerso dell’opera di Antonia Pozzi».
Un contributo corredato da un ampio apparato di note, che si apre così: «Dato che sieno innumerabili individui, ogni cosa è uno; e il conoscere questa unità è il scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali».5
L’anima delle cose è l’anima presente in tutte le cose a sancire la loro unità. E il conoscere l’unità di tutte le cose è lo scopo dell’artista nel suo andare sempre oltre.
«L’artista [non] è colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita»6, scrive la Pozzi e questa frase, alla quale Vecchio dà un particolare rilievo, non a caso è stata scelta dall’editrice per promuovere il libro che, peraltro, ha curato splendidamente e in ogni dettaglio.
Lo sguardo interrogante della poesia, inarrestabile nel suo movimento verso una verità sempre ulteriore, procede in direzione di un oltre che in realtà coincide con il più profondo dentro – mi viene da pensare al luminoso «fondo dell’anima»7 di cui parlano alcuni mistici.
Oltre la vita significa allora verso il cuore più intimo della vita e delle cose, scrigno del Tutto, di quella «grande Fiamma» cui la «scintilla divina»8 dell’essere un giorno farà ritorno. Ma questa «dimensione di pienezza» non è raggiungibile se non attraverso il «transito epifanico e apocalittico, potenzialmente distruttivo e pur sempre rivelatorio» del travaglio creativo, spiega Matteo Vecchio nel capitolo Scrittura come opzione «morale», scrittura come «labor».
Transito apocalittico, distruzione intesa come spoliazione di sé – altro concetto portante della mistica, dove la «morte dell’anima» è vista come condizione propedeutica all’incontro con il divino. «[…] le parole del Cristo − le uniche che hanno una risonanza sulla moralità del mio vivere: [sono] Chi perderà l’anima sua per me, la ritroverà», scrive la Pozzi in una lettera a Dino Formaggio, sebbene lei l’anima non l’abbia mai persa, ma l’abbia sempre «tenuta saldamente nelle mani», come fa notare il suo studioso.
«Di una carnalità quasi mistica» è la scrittura della Pozzi, ammette Vecchio, riferendosi in modo specifico alla tesi su Flaubert, «benché Antonia Pozzi non sia una mistica», in primo luogo perché, a differenza dei mistici, «in lei – così come, anche, in Cristina Campo – c’è un tenace controllo interno alla scrittura, sia essa poetica o saggistica».
Un laico desiderio di spoliazione, si rileva nell’introduzione, è già presente in poesie dai «precoci e forti aneliti vitali» come Canto della mia nudità e Canto selvaggio.
La spoliazione dagli intenti mondani, dai precetti delle mode dell’epoca, dall’aderenza ai modelli omologati, è uno degli argomenti su cui Vecchio ha sempre riflettuto con viva lucidità, insistendo sulla nudità come caratteristica primaria dell’artista: «Ed è nudissimo, l’artista, quando crea; è assolutamente nudo, assolutamente sprovveduto rispetto al mondo, è assolutamente originale, nel senso di primigenio, di tornato alla terra».
Il libro – ricco e rigoroso – è diviso in tre sezioni, comprendendo inoltre una sezione denominata Marginalia e una Appendice documentaria.
Ogni cosa per me è una ferita si intitola la terza parte del libro, riprendendo un frammento di diario della poetessa. È la ferita il luogo dello scavo; è la sofferenza, in molti casi, il motore della ricerca.
Il pensiero matura nei fossi, nei baratri, attraverso lo scontro con la roccia, con il peso, con l’incapacità di risalire. Cerca il soccorso delle parole per prendere forma e superare sé stesso. Senza prendere forma – senza il corpo delle parole – non può muoversi, resta inchiodato all’insolubile (o all’«irrimediabile»). La scrittura è, dunque, una necessità. Per Antonia, per Vecchio, per molti. «Furiosamente» le parole battono «alla porta dell’anima» che «spietatamente / si chiude».9
«Porsi al centro delle contraddizioni e delle ferite tentando di fissarne il senso (Simone Weil), comporta, nell’attraversamento dell’esperienza, la duplice necessità, etica e creativa (po-etica), di calarsi nel magma, rivelando più o meno implicitamente il carattere di “resistenzialità” […] interno alla scrittura.»
Calarsi nel magma, traversare lacerazioni e giganteschi silenzi con una «resistenzialità» intesa come «tensione comprensiva, attenzione, ascolto», qualunque sia il mezzo di navigazione (l’esercizio della scrittura o di altre forme d’arte, la preghiera, la meditazione, il prendersi cura degli altri viventi), è incontrare un’inconcepibile salvezza, che però non è mai definitiva: non può essere conquistata, anzi, va sempre cercata di nuovo – o, sarebbe meglio dire, attesa, richiamandosi a Simone Weil.
Se oltre la vita significa, per Antonia Pozzi, con riferimento a Tonio Kröger, oltre la tempesta («Io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole»10), è tuttavia necessario tornare sempre nuovamente a smarrirsi nella tempesta, tornare alla nudità della terra, al silenzio, se si vuole creare. In una lettera a Vittorio Sereni, scrive:
«guai […] anche per la poesia, se questa facoltà di valicare di quando in quando il distacco, di riaffondare e perdersi nella vita, venisse a mancare! Cristallizzarsi in una posizione statica è rinunciare per sempre alla vita, al moto: questo nasce solo dall’oscillìo fra due poli contrari».11
Nell’introduzione, ma anche in altri saggi contenuti nel volume (come ad esempio nel bellissimo Expertise per Antonia), Vecchio riflette sul «valore di salvazione»12 del lavoro creativo. «Lavoro come movente di comprensione del mondo, come tentativo di “riconciliazione” con la realtà e con sé stessi» egli scrive riferendosi al lavoro di scrittura della tesi su Flaubert.
Il Flaubert, che per Antonia «assume la fisionomia […] di “progetto di vita”» è oggetto di approfondite considerazioni in due saggi del libro. Affiorano, nella tesi flaubertiana, «sostanziosi snodi concettuali – la totalità esistenziale richiesta dall’arte alla vita, la necessità etica del labor costruttivo e di una fondante esperienza sottesa a quest’ultimo, l’assolutezza sacrale dell’atto creativo».
«Che cosa crea,» si chiede la Pozzi nella tesi «all’interno dell’opera stessa, quell’incessante tensione trattenuta che la colloca come in un’atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale? È che qui tutto è impegnato e la stesura di una pagina non implica soltanto la risoluzione di un problema letterario, ma rappresenta di per sé stessa la risoluzione vivente di un problema di vita».13
«L’orizzonte simbolico delle vette alpestri» innerva l’opera della Pozzi, ed è interessante l’assonanza con la metaforica nietzschiana. «Nietzsche» annota lei (particolare su cui Vecchio si sofferma) a margine di una frase tratta da una lettera di Flaubert: «j’aurais voulu être dans l’âme de ces grands pins qui se tenaient tout suspendus et couverts de neige au bord des abîmes.»14
Il bordo, la soglia, il limite. Significativa la scelta vecchiana della poesia di Milo De Angelis per il frontespizio del libro, che si apre con questi versi: «Ho saputo, amica mia / che sei stata in un limite.» Il limite, la «notte oscura»15, l’abisso.
Impegno che coinvolge l’interezza di una vita e che di quella vita diventa il senso era il lavoro dello scrivere anche per Vecchio che, allo stremo del corpo, in uno degli ultimi momenti in cui aveva ancora le forze per compiere un’azione, ha cercato online un tavolino su cui poter continuare a scrivere dal letto in cui era costretto a stare senza più riuscire ad alzarsi; un tavolino per poter scrivere ancora, lavorare fino all’ultimo. E, se quel tavolino lo avesse trovato o avesse avuto il tempo di cercarne un altro, avrebbe lavorato con la consueta serietà e con la stessa amorosa severità con cui si è occupato per quasi due decenni dell’opera di Antonia Pozzi.
Se concludo con questo frammento tagliente (per chi lo ha amato) di vita è perché esso mi pare testimonianza della verità carnale del pensiero che si snoda nelle pagine di questo libro.
[novembre 2024]
Matteo Mario Vecchio (Milano 1981 – Alessandria 2021), già dottore di ricerca in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea presso l’Università degli Studi di Firenze, si è occupato di poesia e di estetica del Novecento. Ha studiato violino al Conservatorio Cantelli di Novara e frequentato un corso di composizione; e si è occupato anche di liturgia e di musica gregoriana. Ha collaborato con «L’immaginazione», «Paragone Letteratura», «Materiali di Estetica», «Otto/Novecento», «Rivista di Storia della Filosofia», «Fronesis»; e ha partecipato a numerosi convegni a Milano, Lecco, Lugano,Varese ecc. Cospicue le sue pubblicazioni scientifiche. Qui, in particolare, segnaliamo che di Antonia Pozzi Vecchio ha curato l’edizione della tesi di laurea dedicata a Gustave Flaubert (Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, Torino, Ananke, 2013) e una antologia di testi tradotti in francese da Camilla M. Cederna (Une vie irrémédiable, Lille, Editions Laborintus, 2018); oltre a vari contributi editi in rivista, ha dedicato alla poetessa un volume di studi, Perché la poesia ha questo compito sublime (Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2013), tradotto in lingua portoghese (Porque a poesia tem esta missão sublime. Antonia Pozzi, Lisboa, Averno, 2016). Insieme con Fabio Guidali ha curato il volume di studi Chi mi parla non sa che io ho vissuto un’altra vita. Antonia Pozzi e la «singolare generazione» (Forlimpopoli, L’Arcolaio, 2018). Nonostante la malattia che lo ha portato alla morte, Vecchio non ha mai smesso di studiare e scrivere con passione, di allestire progetti, fra i quali la cura dell’importante Carteggio Antonio Banfi-Vittorio Sereni, di imminente pubblicazione nella rivista Kamen’; e quella del Carteggio Sereni-Giancarlo Vigorelli, che sarà pubblicato invece alla fine del 2025.
Note:
- «[…] è da notare come l’opposizione tra Geist e Leben, nelle sue varie accezioni, dipende dal concetto dello spirito come valore, mera positività di fronte a cui la vita è essenzialmente problematica.»: A. Banfi, cit. in F. Papi, Vita e filosofia. La Scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Milano, Guerini & Associati, 1990, p. 117.
- A. Pozzi, lettera a Tullio Gadenz, 29 gennaio 1933, in Antonia Pozzi. Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Luca Sossella Editore, 2010, pp. 454-455.
- A. Pozzi, lettera ad Antonio M. Cervi, Milano, 13 aprile 1930, in L’età delle parole è finita. Lettere 1923-1938, a cura di A. Cenni e O. Dino, Milano, Archinto, 2002.
- A. Pozzi, Sgorgo (1935) in Parole, a cura di A. Cenni e O. Dino, Milano, Garzanti, 2001, p. 215.
- «TEOFILO. – […] Possete quindi montar al concetto, non dico del summo et ottimo principio, escluso della nostra considerazione, ma de l’anima del mondo, come è atto di tutto e potenza di tutto, et è tutta in tutto: onde al fine (dato che sieno innumerabili individui) ogni cosa è uno; et il conoscere questa unità è il scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali», G. Bruno, Dialogo Quarto, in De la causa, principio et uno, in Opere italiane, Torino, UTET, 2002, p. 717.
- A. Pozzi, 12 marzo 1935, in Diari e altri scritti, nuova edizione a cura di O. Dino, note ai testi e postfazione di M.M. Vecchio, Milano, Viennepierre, 2008 pp.44-45.
- «Dal latino fundus, già usato da Agostino a proposito delle profondità della memoria, “fondo dell’anima” è il sintagma preferito da Eckhart (profundum in latino, Grund in tedesco) per indicare ciò che di più essenziale v’è nell’anima umana», M. Vannini, Fondo dell’anima, in Introduzione alla mistica, Firenze, Le Lettere, 2021, p. 27.
- A. Pozzi, lettera a Tullio Gadenz, 29 gennaio 1933, in Ead., Antonia Pozzi. Poesia che mi guardi, cit., p. 454-455.
- A. Pozzi, La porta che si chiude (1931), in Ead., Parole, cit., p. 41.
- A. Pozzi, lettera a Vittorio Sereni, Pasturo, 13 agosto 1935, in Ead., L’età delle parole è finita, cit., p. 197.
- A. Pozzi, lettera a Vittorio Sereni, Pasturo, 16 agosto 1935, ivi, p. 199.
- A. Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, a cura di M. M. Vecchio, Torino, Ananke, 2013, p. 243.
- A. Pozzi, ivi, p. 98.
- A. Pozzi, ivi, p. 246, nt. 161.
- G. Della Croce, Notte oscura, OCD, Roma, 2020.
[Matteo M. Vecchio, Antonia Pozzi: l’anima delle cose, Firenze, Le Cáriti Editore, 2024, pp. 234]
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