Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Banchetti mitici tra delizia e disgusto
Ritornare ai classici. Come è cambiato il nostro gusto nel tempo? Quali punti di contatto tra le abitudini alimentari degli antichi e i nostri consumi sono sopravvissuti? I preziosi testi greci e latini ci restituiscono curiosi dettagli, descrivendo in modo accurato inviti a cena tra amici e simposi. Da sempre un marcatore culturale, il cibo unisce, segna le epoche e la storia di intere popolazioni

Quando, alcuni anni fa, pubblicai un libro sulla cucina dell’antichità greca e romana (La cucina degli dèi. Miti e ricette dall’antica Grecia alla Roma imperiale, Blu edizioni, Torino 2014) non avevo ancora sentito parlare del “Museum of the disgusting food” di Malmö, in Svezia: una singolare istituzione che parte dal presupposto secondo il quale il cibo può separare e creare frontiere, differenziandosi tra una cultura e l’altra, ma è anche un potente mezzo per unire. Condividere un pasto è infatti il modo migliore per trasformare degli estranei in amici.
E per conquistare i palati altrui è fondamentale evitare di suscitare ripulsa e disgusto per cibi ai quali essi non sono assuefatti.
Non conoscendo il museo di Malmö, ignoravo anche che tra i cibi considerati disgustosi figura in quelle sale uno dei manicaretti per i Romani più prelibati, il garum: non una vera e propria pietanza, bensì un condimento usato sovente nella cucina romana antica, considerato una autentica prelibatezza e molto costoso, anche se ne esistevano dei surrogati più a buon mercato (tra i quali quello, di seconda scelta, che aveva il significativo nome di liquamen).
Il garum doc era, per definirlo in modo immediatamente comprensibile anche se un po’ sommario, salsa di pesce marcio ottenuta facendo fermentare (o forse sarebbe meglio dire imputridire) al sole i pesci in grandi vasche all’aperto; se l’idea ci fa storcere il naso, faremmo bene a considerare che ne è un discendente diretto un prodotto ancor oggi in commercio e apprezzatissimo dai buongustai, la colatura di alici di Cetara.
Nel museo di Malmö, a quanto pare, distribuiscono all’ingresso dei sacchetti per quanti temono di non reggere a causa del loro stomaco delicato; e il cibo che fa vomitare di più balza in vetta alle classifiche dei pezzi più apprezzati del museo (quest’estate pare che il garum abbia raggiunto la ragguardevole vetta degli otto sacchetti riempiti, superando altre delizie come lo squalo putrefatto di produzione islandese o il formaggio farcito di vermi che cammina da solo).
Ho poi scoperto che un altro museo dei cibi disgustosi si trova a Berlino (e forse ce ne saranno altri ancora); e anche qui, come a Malmö, si ha l’impressione di trovarsi, più che in una esposizione tradizionalmente intesa, in una specie di luna park dove si possono sperimentare emozioni forti.
Al di là del desiderio di stupire e attirare il pubblico, questi musei mettono in risalto variazioni e costanti del gusto attraverso i tempi e i luoghi più disparati.
Se è vero che la cucina mediterranea ha alle sue spalle un’antichissima e lunghissima tradizione che affonda le sue radici nell’antichità classica, può essere interessante scoprire allora i punti di contatto tra le abitudini gastronomiche degli antichi e quelle sopravvissute fino ad oggi, cogliendone le persistenze ma anche le differenze; e per farlo nulla è più prezioso dei testi letterari greci e latini, che descrivono spesso banchetti, simposi e inviti a cena tra amici, con i relativi menù.
Da alcuni di tali testi apprendiamo non pochi dettagli curiosi, come, per esempio, in che cosa consistessero i cibi divini, che allietavano i conviti degli dèi del mito. Nel mondo antico i riti sacri sono offerte di cibo e il banchetto degli uomini segue al sacrificio di derrate alimentari agli dèi.
Le divinità non si nutrivano direttamente delle porzioni delle vittime sacrificate per loro, ma si limitavano ad annusarne il profumo e a deliziarsi col fumo dei sacrifici.
A rimarcare la differenza tra le creature soprannaturali e la stirpe umana, infatti, il cibo che gli dèi consumavano non era di solito di questo mondo: le fonti parlano di nettare e ambrosia, qualunque cosa questi due termini indicassero (e non è facile darne una definizione univoca e accettabile).
Doveva trattarsi di alimenti di una indescrivibile delizia, ignoti ai mortali; ma non esaurivano il campionario dei cibi divini. Ad essi si potevano aggiungere, per esempio, le carni bollite, che Zeus, il re degli dèi, consuma presso il popolo a lui caro degi Etiopi Longevi secondo l’Iliade.
E l’abitudine divina di mangiare carne cotta può essere alla radice di un increscioso episodio del mito, quello di Tantalo, che allestisce per le divinità invitate al suo desco, per metterne alla prova la chiaroveggenza, un bel calderone pieno di spezzatino ottenuto dalle carni di suo figlio Pelope.
Gli dèi si accorgono della natura umana del cibo cucinato in quel recipiente e si astengono dal toccarlo, distolti, più che dal disgusto, dall’orrore; solo Demetra, soprappensiero, assapora una spalla bollita prima di accorgersi del tragico equivoco (a Pelope non andrà poi così male perché, quando le sue membra saranno ricomposte, la spalla mancante gli verrà sostituita con una di purissimo avorio).
Disgusto e antropofagia vanno a braccetto in più di un racconto, come quando viene descritto il rituale del santuario di Lykosoura, in Arcadia, che apre spiragli inquietanti (e discussi) sulla presenza di sacrifici umani e addirittura di consuetudini antropofaghe nella Grecia arcaica.
A Lykosoura, dice il mito, il re Licaone istituì il culto di Zeus Liceo e gli sacrificò un bambino (si diceva che fosse il suo stesso figlio Nittimo), versandone il sangue sull’altare; «subito dopo il sacrificio, a quanto si dice, fu trasformato da uomo in lupo» (Pausania, VIII, 2, 3), e da allora «uno verrebbe sempre trasformato da uomo in lupo in occasione del sacrificio offerto a Zeus Liceo, ma non per tutta la vita: una volta diventato lupo, dicono, dopo nove anni si trasforma di nuovo da lupo in uomo, se si astiene dalle carni umane; se si ciba, invece, di carni umane, rimane per sempre una fiera» (Ibid., VIII, 2, 6).
In modo piuttosto inquietante, la storia di Licaone lascia intendere che in determinate circostanze, epoche e aree geografiche l’antropofagia avesse un suo spazio nella Grecia antica.
Antropofaghe, del resto, sono anche le abitudini gastronomiche di Polifemo, il ciclope-pastore che non mangia pane come gli uomini ma si nutre per lo più di latte e formaggi, fino a quando i compagni di Ulisse, penetrati nella sua caverna, non offrono una insperata integrazione proteica alla sua dieta, venendo divorati in modo raccapricciante (di nuovo, più l’orrore che il disgusto caratterizza la descrizione del pasto di Polifemo).
Indipendentemente dai problemi legati all’antropofagia, e a prescindere dai cibi divini, che sono decisamente speciali, lo svolgimento del banchetto degli dèi nell’Olimpo non è molto diverso da quello che ha per protagonisti gli uomini mortali.
Seduti comodamente e immersi in piacevoli conversazioni, girati l’uno verso l’altro, li rappresentò nel V secolo a.C. il sommo scultore Fidia sul fregio del monumento più celebre della grecità, il Partenone di Atene.
Ecco invece la prima descrizione letteraria di un banchetto divino, tratta dall’Iliade, dove il dio Efesto, signore del fuoco, fabbro onnipotente, ma anche storpio e malformato, facendo ridere i convitati con la sua andatura zoppicante si affanna a servire da bere ai divini commensali e per prima a sua madre, Era:
«Era dalle bianche braccia sorrise e sorridendo prese dalle mani del figlio la coppa; dal cratere egli attingeva il nettare dolce e lo versava anche agli altri dèi, procedendo da sinistra a destra; risero senza frenarsi gli dèi beati, quando videro Efesto che si affannava lungo la sala. Per tutto il giorno, fino al tramonto del sole, mangiarono, e per tutti vi fu la giusta porzione di cibo, e il suono della cetra di Apollo, meravigliosa, e il canto delle Muse che alternavano le voci bellissime». (Iliade, I, 595-604)
Con l’accompagnamento immancabile della musica e del canto, i convitati bevono il meraviglioso nettare riservato a loro soltanto. In altri casi li vediamo serviti da Ebe, coppiera degli dèi, o altrove dal bellissimo giovinetto Ganimede, ma la bevanda è sempre la stessa.
Il nettare evoca l’idea di una bevanda dolce, e forse proprio per sottolineare la somiglianza con la bibita degli dèi in tutti i passi dell’Iliade in cui si parla del vino il termine è accompagnato dall’aggettivo “dolce”, se non addirittura “dolcissimo”.
Un pregio importante, non soltanto perché lo avvicina al nettare divino, ma anche perché lo rende particolarmente desiderabile a fronte del vino di solito in uso nella Grecia antica, che doveva essere aspro e francamente imbevibile se non generosamente diluito con l’acqua e spesso mescolato con il miele.
La differenza radicale che distingue il cibo delle creature divine da quello degli umani emerge nella descrizione del pasto che la ninfa Calipso prepara per Ulisse nella propria grotta:
«La ninfa gli servì ogni sorta di cibi perché mangiasse e bevesse ciò di cui si cibano i mortali; poi sedette anch’ella di fronte a Odisseo divino; le ancelle ambrosia e nettare le servirono». (Odissea, V, 196-99)
Dove è evidente che, nonostante l’amore che li lega, Ulisse il mortale e la ninfa immortale vivono in due dimensioni diverse e non possono condividere lo stesso cibo: troppo profonda è la differenza fra l’alimentazione umana e quella divina.
Altrettanto diversa, e profondamente inquietante, è l’alimentazione dei defunti. Siamo ancora nell’Odissea: Ulisse deve recarsi nel regno dei morti per interrogare l’indovino Tiresia e farsi rivelare che cosa lo aspetta, e come farà a tornare alla sua Itaca.
Mettersi in contatto con le anime dei defunti comporta un preciso rituale, che la maga Circe ha rivelato all’eroe; un elemento non secondario di questo rituale consiste proprio nel nutrire le anime dei defunti, offrendo un sacrificio che le attiri e che, facendole riemergere dalle profondità in cui risiedono, permetta di comunicare con loro.
Ecco come Ulisse descrive, parlando in prima persona, il suo incontro con i morti e ciò che offre loro da mangiare:
«Scavai una fossa di un cubito per lungo e per largo e attorno all’orlo libavo a tutti i defunti, prima con latte e miele, poi con dolce vino, infine con acqua, e ci spargevo sopra candida farina d’orzo. Supplicavo a lungo le teste esangui dei morti promettendo di sacrificare nella mia casa, giunto a Itaca, la più bella vacca che non avesse figliato e di colmare il rogo di offerte, poi di immolare a parte, al solo Tiresia, il montone tutto nero che spiccasse tra i nostri armenti. […]; allora fuori dall’Erebo si adunarono le anime dei morti …». (Odissea, XI, 23-50)
Ogni categoria, dunque, ha le sue abitudini alimentari: quelle degli dèi differiscono da quelle degli uomini, e ancora diverse sono quelle dei defunti.
Differenze non da poco si riscontrano anche, nei racconti del mito, tra gli alimenti dei Greci e quelli degli altri popoli. Per definire la diversità, nulla è più efficace dell’elenco dei piatti preferiti dagli stranieri.
In Africa ci sono, per esempio, gli Etiopi Trogloditi, che “si nutrono di serpenti, di lucertole e di altri rettili del genere” (Erodoto, IV, 183, 4; anche Plinio, Nat. Hist., V, 45).
Diversi sono i Trogloditi Ittiofagi, che si nutrono di pesce (Diodoro Siculo, III, 7), o i Chelonofagi (id., III, 9), che prediligono conchiglie e testuggini marine; i Rizofagi, gli Ilofagi e gli Spermatofagi, che si alimentano rispettivamente di radici, alberi e semi (id., III, 11); gli Struzzofagi, che si nutrono di struzzi (id., III, 13), e gli Acridofagi, che mangiano locuste (id., III, 14).
Ancora in Africa, secondo Plinio il Vecchio, vivono bizzarre popolazioni con un solo orifizio nel viso attraverso il quale respirano e si nutrono succhiando liquidi da cannucce di avena o ingoiando chicchi della stessa pianta; né meno singolari sono i Menismini, che fanno parte delle popolazioni nomadi delle rive del Fiume Astrago, i quali si nutrono dell’enigmatico latte di cinocefali (Nat. Hist., VII, 31).
In India si conosce il popolo dei Cirni, che vivono fino a centoquarant’anni (Plinio, Nat. Hist., VII, 27); il segreto di tale longevità, secondo Ateneo (Deipnosofisti, II, 47 a), risiede nel fatto che si nutrono di miele.
Agli estremi confini dell’India, poi, vive “una popolazione dal corpo ispido, coperto di piume come quello degli uccelli: non si nutre di nessun cibo e vive aspirando con le narici l’effluvio dei fiori” (Aulo Gellio, Notti Attiche, IX, 4, 9-10), una variante della consuetudine degli dèi di nutrirsi annusando gli aromi dei sacrifici.
Nella Scizia invece risiedono gli Ippemolghi, che si alimentano esclusivamente con il latte; nella stessa regione il popolo dei Budini ha consuetudini piuttosto selvagge, cibandosi di pinoli (o di pidocchi, secondo una diversa, più disgustosa ma filologicamente non inattendibile lettura del relativo passo di Erodoto che ci fornisce la notizia).
Ai confini nordici del mondo, non lontano dalle contrade indefinite dove risiedono gli Iperborei, alcune fonti antiche situano gli Arinfei, che vivono nutrendosi semplicemente di bacche (Plinio, Nat. Hist., VI, 35); mentre sulle rive del Mar Caspio abitano gli Ircani, alcuni dei quali vivono normalmente, coltivando i campi, mentre altri, “mostruosi e truculenti, vivono cibandosi di sangue e carne umani” (Isidoro di Siviglia, Etimologie, XIV, iii, 32).
Se la diversità dei popoli più remoti del mondo si misura anche dalle loro insolite abitudini culinarie, non si può dimenticare che profonde differenze nelle consuetudini alimentari si riscontrano mettendo a confronto epoche diverse: e nulla differisce dal cibo consueto più di quello in uso nei tempi remoti dell’età dell’oro, quando la terra offriva da sola e spontaneamente i suoi frutti.
Con una peculiarità: non si limitava a generare con generosità i raccolti più succulenti e abbondanti, senza bisogno dell’intervento umano, ma metteva a disposizione cibi già cucinati, che i fortunati uomini del tempo non dovevano far altro che prendere e consumare.
Era una sorta di Paese di Cuccagna o di Bengodi dove il sogno sempre vivo di riempirsi la pancia senza fatica veniva prontamente esaudito: c’era, per esempio, una commedia perduta di Cratete comico intitolata Le bestie, dove a proposito di questo luogo di delizie si leggeva:
«Ogni oggetto verrà da solo, non appena lo chiami: “Qui, tavolo! Sì, tu, imbandisciti! Impasta, mio panierino! Mesci, mestolo! Dov’è il calice? Va’ dunque a lavarti! Vieni su, focaccia! È ora che la pentola scoli le bietole”. “Pesce, datti una mossa!” “Ma non sono ancora cotto sull’altro lato!” “Rivoltati dunque e cospargiti di sale e ungiti d’olio”». (Ateneo, Deipnosofisti, VI, 267)
Ancora, Nicofonte, nelle Sirene, scrive:
«Nevichi farina d’orzo, piovano pani, venga giù del purè, che la zuppa faccia rotolare per la strada la carne, che la focaccia ordini di essere mangiata».
E Metagene:
«Per noi il fiume Crati spinge a valle enormi focacce che si sono impastate da sole, mentre l’altro fiume [il Sibari: sono due fiumi della Calabria] trascina un flusso di focacce e di carni e di razze bollite che vi si rotolano. Qui scorrono piccoli ruscelli di calamaretti arrostiti con aragoste, là di salsicce e carni tritate, qui con bianchetti, lì con frittelle. E dall’alto tranci di pesce, cottisi da soli, si lanciano nella nostra bocca […] inoltre ci nuotano intorno focacce di farina fina». (Ateneo, Deipnosofisti, VI, 269 e-f e 270 a)
Un tripudio di cibi che non aspettano altro che di venir divorati.
La società antica sapeva bene che cosa fosse la fame, e la magrezza, lungi dall’apparire un segno di buona salute e di prestanza fisica, come per noi oggi, era sinonimo di quella carenza di cibo che troppi conoscevano così bene: primo fra tutti, stando al dotto Ateneo (Deipnosofisti, XII, 552 b), un certo Fileta di Cos, personaggio estremamente magro, che “a causa della sua gracilità teneva delle sferette di piombo attorno ai piedi per non farsi rovesciare dal vento”.
L’ombra della fame che costantemente aleggiava all’orizzonte della gente comune doveva sicuramente contribuire, nel mondo antico, ad abbassare la soglia del disgusto; e un greco o un romano dei tempi classici, al museo di Malmö, avrebbe probabilmente ridotto di molto la media dei sacchetti riempiti…
In apertura, “Allegory of Grammar”, 1650 di Laurent de La Hyre (1606 – 1656) esposta al National Gallery di Londra. Foto di Olio Officina©
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