Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Bellezza e arte nel mito classico

Ritornare ai classici. Il mondo classico ha lasciato la sua impronta indelebile sul concetto di bellezza che l’Occidente ha elaborato nel corso della sua storia. Quella che i Greci chiamavano kalokagathia, letteralmente “bellezza e bontà”, e che fondeva armonia esteriore ed equilibrio interiore, qualità estetiche ed etiche, ha influito in modo determinante, nei secoli successivi, sulla definizione di ciò che è bello e di ciò che non lo è. Il tema della bellezza, sul quale si sono soffermati a lungo gli antichi filosofi, ma anche i poeti e naturalmente gli artisti, presenta un particolare interesse se lo si indaga attraverso il filtro del mito. Che è ciò che vorrei provare a fare qui

Anna Ferrari

Bellezza e arte nel mito classico

Gli dèi e la bellezza. – Nella mitologia la bellezza è una caratteristica costante di molte divinità e un attributo immancabile di eroi ed eroine. Apollo per esempio è tra le divinità maschili il più bello in assoluto: appare infatti caratterizzato da alta statura, membra ben proporzionate e bellissimi riccioli neri dai riflessi violacei che gli scendono sulle spalle. Tra le divinità femminili la palma della bellezza spetta ad Afrodite, che al fascino del suo corpo unisce, diventando irresistibile, gli effetti del portentoso cinto che indossa, colmo di ogni grazia e capace di rendere affascinante chi lo possiede (Iliade XIV, 214 ss.), quasi a sottolineare che accanto alle doti fornite da madre natura un briciolo di artificio non guasta e anzi può fare la differenza. Con un singolare contrasto, la dea in assoluto più bella dell’Olimpo ha per compagno il dio più sgraziato e fisicamente infelice, Efesto; il quale tuttavia – altro elemento apparentemente paradossale – pur così deforme è il dio artista per eccellenza, capace di raggiungere nelle sue realizzazioni una bellezza sublime.

Le bianche braccia, le caviglie sottili, l’alta cintura (ossia la vita snella), gli occhi grandi e splendenti e i capelli profumati e lucenti costituiscono nell’immaginario dei poeti le caratteristiche ideali delle dee più belle; l’armonia e insieme la forza e le proporzioni delle membra contraddistinguono gli dèi e gli eroi più aitanti. Ai caratteri descritti dalla poesia si possono aggiungere, per avere un’idea della bellezza che veniva attribuita agli dèi e ai personaggi del mito, le immagini che dall’antichità ci sono pervenute nella pittura ma soprattutto nella scultura. Celeberrima fu da questo punto di vista la statua della dea Afrodite scolpita nel marmo da Prassitele per gli abitanti di Cnido (sec. IV a.C.), dai suoi contemporanei ritenuta la più bella figura femminile che fosse mai stata realizzata e divenuta, per generazioni, meta di pellegrinaggi e oggetto di morbose passioni. Ci fu persino chi se ne innamorò perdutamente e si fece chiudere nel recinto ove era conservata per poter amoreggiare indisturbato con lei. Dell’opera, il cui originale è per noi perduto, restano copie di età romana a testimonianza di una grandissima fama.

La costante ricerca delle proporzioni nella resa del corpo umano e la tensione verso una bellezza ideale costituiscono non solo una caratteristica fondamentale dell’arte figurativa dell’età classica, ma anche un ingrediente della concezione dell’uomo completo, della già citata kalokagathia, al centro della riflessione dei Greci nel V secolo. L’importanza di questo concetto esula peraltro dal campo della mitologia, investendo piuttosto quelli della filosofia, dell’estetica, dell’etica. Ci limiteremo qui a ricordare che le proporzioni nella resa del corpo furono sempre oggetto dell’attenzione degli artisti classici: dallo scultore greco Policleto, che le teorizzò nel suo Canone, al suo più tardo collega Lisippo, che snellì quei rapporti proporzionali rendendo le figure più agili e scattanti.

Mitiche gare di bellezza. – Numerosi racconti del mito sono ispirati al tema della bellezza degli dèi o a gare di bellezza fra divinità o fra mortali e divinità. In una contesa del genere, quella fra la dea Teti e la celebre maga Medea, venne scelto come arbitro Idomeneo, re di Creta; la sua preferenza cadde su Teti, e Medea, furiosa per l’esclusione, maledisse la stirpe del re Idomeneo, asserendo che tutti i cretesi sono bugiardi e dando origine a una credenza, quella appunto che i cretesi siano soliti mentire, divenuta proverbiale nella Grecia antica. La giovane Chione, figlia di Dedalione, osò paragonare la propria bellezza a quella di Artemide e la dea la uccise per la sua tracotanza. Una favola analoga cita Ovidio nelle Metamorfosi (X, 69 ss.) a proposito di una donna di nome Letea, sposa di Oleno: ella si sarebbe vantata della propria bellezza, osando gareggiare con una dea, ma questa la punì, con il marito, trasformandola in pietra.

Anche Side, sposa di Orione, era talmente sicura della propria bellezza che osò sfidare Era; ma la regina degli dèi la scaraventò nel Tartaro. Le Pretidi, figlie di Preto e di Stenebea, suscitarono la gelosia di Era dichiarando di essere più belle di lei; Era le punì facendole impazzire e convincendole di essere diventate giovenche. Terribilmente vendicative potevano essere le divinità nei confronti degli esseri umani che si macchiavano di hybris, di quella presuntuosa tracotanza che impediva loro di stare al proprio posto. E ritenersi più belli di un dio era un atto di superbia imperdonabile. La bellezza diventa così anche un pericolo per l’essere umano: non soltanto perché il vantarsene può portarlo alla perdizione, ma anche perché vedere la bellezza divina può tradursi in un’esperienza sconvolgente e insopportabile per i mortali. Non è un caso se gli dèi, quando si manifestano agli uomini, celano le proprie sfolgoranti apparenze dietro sembianze ingannatrici, assumendo le fattezze di comuni mortali o di piante e animali: la bellezza sovrannaturale è insostenibile. Così Zeus si trasforma in toro per accostarsi a Europa o a cigno per amare Leda; così Semele, per aver preteso che Zeus stesso le si mostrasse in tutto il suo divino splendore, viene incenerita a quella vista; così gli dèi che vogliono comunicare con gli uomini ricorrono a messaggeri, a sogni, a vaticini e apparizioni, per non palesarsi direttamente nel loro annichilente fulgore; e così via, in una sequenza interminabile di metamorfosi destinate a proteggere l’umanità dalla bellezza sovrumana e inaccostabile del divino.

Tra le gare di bellezza fra dee, la più celebre e gravida di conseguenze fu come è noto quella che vide competere Atena, Era e Afrodite ed ebbe come arbitro Paride: fu il famoso giudizio di Paride, radice di tutti i mali perché causa della guerra di Troia. Quelle citate sopra sono contese che hanno come protagoniste principali delle dee, o delle donne che sfidarono le dee. L’istituzione di una gara di bellezza circoscritta alle sole donne mortali è ricordata invece nel mito di Cipselo re d’Arcadia; la competizione si svolgeva durante la festa annuale della dea Demetra ed Erodice, la moglie di Cipselo, fu la prima a vincere il premio (e viene il sospetto che già allora le giurie non fossero del tutto imparziali e che si riservasse un occhio di riguardo ai personaggi importanti…). Il mito è ricordato da Pausania e da Ateneo.

Le donne più belle. – Anche se la bellezza assoluta è soltanto divina, alcune donne mortali sono citate nella mitologia perché dotate di una bellezza straordinaria. Tra queste si può ricordare almeno Psiche, fanciulla talmente incantevole da suscitare la gelosia di Afrodite (e l’amore di Eros, come si narra nelle Metamorfosi di Apuleio). La donna più bella della mitologia è però senz’altro Elena, la splendida sposa di Menelao: la sua bellezza è la molla che scatena la più tremenda guerra ricordata dai poeti, quella di Troia. Ed è tale che rappresentarla nell’arte costituisce un difficilissimo cimento. A questo proposito Plinio raccontava che il grande pittore Zeusi, dovendo realizzare un dipinto di Elena per la città di Crotone, non si fosse accontentato di una sola modella, ma ne avesse richieste cinque, da ciascuna delle quali prese gli elementi più belli per fonderli in una degna immagine dell’eroina.

Dove si può leggere in filigrana un accenno forse inconsapevole a un carattere tipico della bellezza antica, che viene solitamente descritta non nel suo insieme, ma come somma di singole bellissime parti. La bellezza e la sua rappresentazione, peraltro, non cessarono mai di ossessionare Zeusi: fino alla sua fine, avvenuta, secondo una tradizione, perché morì dal ridere davanti a un dipinto umoristico di Afrodite, che lui stesso aveva realizzato.

Gli uomini più belli. – Anche alla bellezza maschile il mito riserva ampio spazio. Tra gli eroi, i più belli sono ritenuti Achille e Nireo, “figlio di Aglaia e del sire Caropo, Nireo, l’uomo più bello che venne sotto Ilio, fra tutti gli altri Danai, dopo il Pelide perfetto” (Iliade II, 672-674). Nella sua opera De excidio Troiae historia, dove sintetizza le vicende della guerra di Troia, Darete Frigio ci ha lasciato alcuni ritratti delle caratteristiche fisiche degli eroi e delle eroine omerici: Achille, per esempio, “era di largo petto, di volto affascinante, di membra forti e grandi, chiomato con bei ricci, […] coi capelli del colore del mirto”; Ettore “dalla candida pelle, ricciuto, strabico, dalle membra agili, dal volto imponente, barbato”; Elena, “di belle forme, […] dalle gambe bellissime, con un neo fra i due sopraccigli, dalla boccuccia piccola”; l’eroe per il quale perse la testa, Alessandro o Paride, aveva “la pelle candida, gli occhi bellissimi, la chioma morbida e bionda, il volto affascinante”.

In un contesto diverso si colloca il mito di Faone, personaggio maschile vecchio, povero e tutt’altro che attraente, che per aver traghettato con la sua barca la dea Afrodite senza chiederle alcun compenso ottenne in cambio un unguento miracoloso capace di farlo diventare straordinariamente affascinante e di procurargli l’amore di un gran numero di donne, tra le quali Saffo.

L’opposto della bellezza. – La negazione della bellezza, nella mitologia, è personificata dalla figura di Tersite: antieroe per eccellenza, egli assomma in sé il contrario di tutte le caratteristiche positive dei grandi eroi dell’epos: alla sua bruttezza e deformità si accompagna un’analoga meschinità d’animo. Tra i personaggi brutti e deformi la mitologia ricorda, oltre al già menzionato dio Efesto, anche Brotea, la sua ripugnante figliola, che disperata per la propria sgradevole apparenza si suicidò; diverso e più fortunato destino toccò a una fanciulla di cui riferisce Erodoto, che, da bruttissima che era, era divenuta bellissima: quando era bambina la sua nutrice “escogitò questo rimedio: la portava ogni giorno al tempio di Elena – questo si trova nella località chiamata Terapne, al di là del tempio di Febo – e ogni volta che ve la portava la poneva accanto al simulacro della dea, e supplicava la dea di liberare la bambina dalla bruttezza. E si narra che un giorno mentre la nutrice usciva dal tempio le apparve una donna, che le chiese che cosa portasse in braccio, e quella disse che portava un bimbo.

L’altra la invitò a mostrarglielo, e lei diceva di no, perché le era stato proibito dai genitori di mostrarla a chicchessia. Ma quella la invitava in tutti i modi a mostrargliela. Vedendo che la donna ci teneva tanto, allora alla fine le mostrò la bambina; e quella, chinatasi ad accarezzare la testa della piccola, disse che sarebbe stata la più bella di tutte le donne di Sparta. E da quel giorno mutò d’aspetto” (VI, 61.3 ss.). Nata bruttissima e addirittura tenuta nascosta per il suo repellente aspetto, la piccola venne così miracolosamente trasformata nella più bella delle creature.

Cataloghi di bellezze. – A prescindere dai numerosissimi passi della letteratura greca e latina dove sono descritti i personaggi dotati di maggiore bellezza del mito, è interessante notare che i mitografi antichi avevano stilato liste degli dei e degli eroi più belli. Uno di questi elenchi ci è parzialmente conservato nelle Favole di Igino (270 ss.).

Sono elencati “Iasione, Cinira figlio di Pafo, Anchise figlio di Assaraco che fu amato da Venere, Alessandro o Paride figlio di Priamo ed Ecuba, che venne seguito da Elena, Nireo figlio di Carope, Cefalo figlio di Pandione che venne amato dall’Aurora, Titone figlio di Laomedonte che fu sposo dell’Aurora, Partenopeo figlio di Meleagro e di Atalanta, Achille figlio di Peleo e Tetide, Patroclo figlio di Menezio, Idomeneo, Teseo figlio di Egeo, che amò Arianna”. A questa sorta di lista di vincitori di un immaginario concorso di bellezza Igino aggiunge i premiati della categoria iuniores (Favole 271): “Adone, figlio di Cinira e Smirna, amato da Venere; Endimione, amato dalla Luna; Ganimede, figlio di Erittonio, amato da Giove; Giacinto figlio di Ebalo, amato da Apollo; Narciso, figlio del fiume Cefiso, che fu amato da sé medesimo; Atlante figlio di Mercurio e Venere, che si dice fosse ermafrodito; Hylas figlio di Tiodamante, amato da Ercole; Crisippo figlio di Pelope, che fu rapito da Teseo”.

Arte e bellezza. – Efesto, dio deforme e sgraziato, si riscatta non solo, come abbiamo visto, in virtù della sua splendida moglie Afrodite, bensì anche per la sua meravigliosa capacità di artista. Efesto è il dio fabbro che sa produrre opere d’arte sublimi, come le armi di Achille fuse nel metallo lucente, tripodi di bronzo, seggi d’argento: ha creato gli arredi delle case degli dèi sull’Olimpo e non c’è capolavoro d’arte superiore alle sue straordinarie capacità. Il dio goffo e claudicante è dotato di competenze artistiche insuperabili: attraverso la sua opera, arte e bellezza fanno passare in secondo piano, cancellandole con il loro splendore, le deformità dell’artefice divino.

L’arte, e quindi la bellezza che ne è l’oggetto, godeva nel mondo antico di una posizione e un ruolo di prestigio di cui tutte le fonti ci danno conferma. Al contrario, e questo può apparire singolare, l’artista godeva di scarsa considerazione nella società. Mentre l’opera era degna della massima stima, chi la creava occupava ranghi modesti nella scala sociale. Esattamente come Efesto nella dimensione del mito, in quella della storia chi fondeva i metalli per farne meravigliose statue, chi lavorava l’argilla e la cuoceva e dipingeva nella bottega del vasaio, chi scolpiva figure nel marmo, ricopriva un ruolo inferiore. Viveva nel caldo riparo della sua bottega, ignorando le attività sportive e ancor più quelle belliche, che costituivano il campo d’azione dei veri eroi; era un umile bottegaio, un semplice e modesto artigiano. Il dispregio del lavoro manuale è una costante del mondo antico e coinvolge anche quelli che noi chiameremmo Artisti con la A maiuscola e che invece nell’antichità erano considerati semplicemente dei bravi tecnici, artigiani con la a minuscola, per il fatto che si sporcavano le mani.

Non si tratta di una semplice congettura: lo dicono esplicitamente diverse fonti letterarie antiche. Una fra tutte: Luciano di Samosata, scrittore di lingua greca del II secolo d.C., che ne parla nella rievocazione di un sogno che egli ebbe da piccolo, all’epoca in cui suo padre doveva decidere a quale attività avviarlo. La tradizione di famiglia era di lavorare la pietra, così dopo varie incertezze il ragazzino, che aveva dimostrato una certa predisposizione verso l’arte, viene avviato alla bottega dello zio, che faceva lo scalpellino. Ma al primo errore del piccolo Luciano, che manda in frantumi una costosa lastra di marmo, la punizione è così dura, a suon di vergate, che il maldestro giovinetto torna a casa di corsa per mostrare i lividi ai suoi e per proporre la propria personale interpretazione dei fatti: lo zio lo ha percosso perché invidia le sue doti e teme che con quelle possa presto superarlo in abilità. Quella notte, Luciano fa un sogno:

“Io [è Luciano in prima persona che parla], quando venne la notte, mi addormentai ancora piangendo e pensando al bastone […]. E feci un sogno. Due donne, presomi per le due mani, mi tiravano ciascuna a sé con particolare violenza e vigore: poco mancò che nella colluttazione mi dilaniassero […]. Una aveva l’aspetto di lavoratrice, era mascolina, incolta nei capelli, con le mani piene di calli e la veste succinta, sporca di gesso […]. L’altra era molto bella, elegante nella figura e ricercata nel panneggio della veste”.

Le due donne si presentano: la prima è l’Arte Statuaria, la quale perora la propria causa ricordando alcuni esempi eccelsi di scultori che hanno raggiunto fama imperitura (Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele): “Se tu diventassi uno di loro”, gli dice l’apparizione, “non renderai invidiabile anche tuo padre, e insigne la patria?”. La seconda donna del sogno è la Paideia, quell’insieme di qualità intellettuali, morali e culturali che vengono solitamente tradotte col termine Cultura o Educazione: nel suo discorso insiste particolarmente sul contrasto tra l’attività intellettuale che essa gli propone e quella manuale che gli riserverebbe la sua rivale, lasciando intendere che la prima è molto più apprezzata e stimata socialmente della seconda:

“E se anche tu diventassi Fidia, o Policleto, e realizzassi delle opere meravigliose, tutti elogerebbero la tua arte, ma nessuno di quelli che guarderanno, se avrà senno, si augurerà di diventare simile a te, giacché, per grande che tu sia, sarai considerato un operaio, uno che lavora con le mani e con le mani si guadagna la vita”.

Il discorso della Cultura convince Luciano, che nel sogno si dichiara apertamente a favore della sua offerta, dandoci conferma che la bellezza delle opere d’arte non s’irraggia su coloro che vi si dedicano in prima persona.

È comprensibile, in questa prospettiva e date queste premesse, il perché l’arte sia dominio della bellezza, ma il dio che la protegge sia goffo e deforme; che non ci sia un’Afrodite, un Apollo o una Musa a proteggere gli artisti, ma un dio che si azzoppò quando la sua collerica madre, la dea Era, lo scaraventò giù dall’Olimpo appena nato. In quel precipitare dal cielo al suolo c’è tutta la distanza che divide il mondo dei mortali da quello degli dèi; e nella caduta verticale di Efesto è sintetizzata tutta la strada che, in senso opposto, gli artisti devono compiere per risalire con le loro capacità verso il cielo e la dimensione divina, colmando il vuoto che separa i due mondi, riscattando la condizione umana e rendendo in qualche modo accessibile, attraverso la bellezza, qualche forma di soprannaturale felicità.

In apertura, foto di Olio Officina©

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