Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Bellezza e verità, in due termini la poetica di Mario Tobino

Taccuino di lettura. Paolo Vanelli, per i tipi di Maria Pacini Fazzi Editore, ha scritto un libro di critica, non solo una biografia, sull’autore viareggino, di cui analizza temi e stile. Emergono netti i punti chiave delle tematiche di Tobino: l’insofferenza del limite, l’amor vitae, la componente morale, l’importanza delle figure genitoriali, l’animus duplex, le componenti di ethos ed eros, la sua concezione di bellezza in cui c’è sempre un quid di divino

Mariapia Frigerio

Bellezza e verità, in due termini la poetica di Mario Tobino

C’è uno scrittore che ho amato tantissimo e che mi ha fatto compagnia per buona parte di una lontana estate.

Si tratta di un russo, naturalizzato francese con il nome di Henri Troyat, e della sua splendida biografia dal titolo Tolstoi.

Mi si chiederà cosa c’entra il libro di Troyat con il libro dello studioso e critico Paolo Vanelli.

Eppure c’entra, eccome se c’entra!

Perché la stessa passione, lo stesso coinvolgimento, lo stesso piacere dell’immersione nella vita e nell’opera di uno scrittore, li ho riprovati leggendo il libro del professor Vanelli su Tobino.

Inoltre va detto che questo è un libro di critica, non solo una biografia, dal momento che analizza i temi e lo stile dell’autore viareggino.

Siamo tutti consapevoli di quanto la parola “critica” possa spaventare, soprattutto in Italia dove vige ancora una sorta di accademismo (che definirei pessimo) dove il non farsi capire sembra sia una necessità dei nostri critici: parlare e scrivere per non farsi capire.

Vanelli ci fa dimenticare questa brutta abitudine come sempre fa con gli autori che ama.

A questo proposito voglio ricordare una sua splendida conferenza su Bassani politico, alla Biblioteca Statale di Lucca, in cui riuscì a suscitare l’entusiasmo perfino di un’amica francese con poca dimestichezza con la nostra lingua.

Veniamo ora al suo Bellezza e verità (titolo che sintetizza in due soli termini la poetica di Tobino: amore per il bello e idea morale dell’arte), edito dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi, con prefazione della nipote di Tobino, Isabella.

Prefazione di cui voglio ricordare almeno l’incontro dello scrittore con gli studenti del Liceo Classico Carducci di Viareggio, che mi sembra un esempio di grande modernità oltre che di amore per l’umanità.

Vediamo ora come si compone il libro.

Va detto innanzitutto che c’è un “filo rosso” che unisce un capitolo all’altro ed è il tema autobiografico.

Volutamente il critico ha tralasciato i romanzi – come la biografia di Dante – che il “filo rosso” dell’autobiografia non collega.

Il libro parte con un capitolo sulla vita dell’autore e sull’incontro tra critico e autore.

È un’introduzione dal titolo Una vita, in cui Vanelli ci narra il suo incontro letterario con Tobino avvenuto con la lettura di Le libere donne di Magliano.

Ecco quanto scrive: «Un’opera che scardinava regole, canoni e struttura della lingua letteraria ufficiale e inquietava con i suoi insoliti contenuti: l’autore infatti affrontava il tema della follia e ce ne dava un’immagine tragica, di solitudine assoluta, di delirio come assenza di dialettica e di conforto dell’altro».

E continua: «[…] mi sorprendeva come l’autore, sporgendosi su quel baratro fosse riuscito con la forza della passione […] a far rivivere quelle immagini sfuocate, indifferenziate, fino a farle diventare figure vere, icone, del “male oscuro” che poi non è altro che l’aspetto più eclatante del “male universale” […]».

Vanelli aggiunge di essere stato attratto anche «dalla forza della sua scrittura e dalla sua poetica dove eros e bellezza erano i cardini della visione del mondo».

Questa introduzione è importante perché ribadisce quanto abbiamo già detto di Vanelli, ovvero lo scrivere per farsi capire.

Ecco che allora diventa naturale per lui far conoscere ai lettori la vita e l’ambiente dello scrittore, ma anche il suo carattere i cui segni peculiari sono «ribellione, vivacità, irrequietezza, inesauribile desiderio di libertà, turbolento spirito anarchico, insofferenza del limite che, con la maturità, si trasformerà in un ardente vitalismo, un vero e proprio “amor vitae”».

E questo “amor vitae” si può intendere esteticamente come amore per il bello ed eticamente come amore per il buono.

Vanelli mette come introduzione la vita dell’autore, perché proprio la genesi della narrativa tobiniana sta nell’autobiografismo, tanto che questo aspetto viene messo in risalto nel primo capitolo che titola, appunto, L’autobiografismo come genesi della narrativa tobiniana.

Perché, come scrive Vanelli, «tutte le opere […] affondano le radici nell’humus civile, umano e professionale dell’autore»: insomma la sua è «un’opera che è una continua confessione».

In questo capitolo c’è un aspetto poi che mi è stato particolarmente caro ed è quello relativo all’amicizia col pittore Mario Marcucci, anche se certamente, ci viene detto, il suo «referente figurativo più prossimo» è Lorenzo Viani.

Ma in comune con entrambi ha il fatto di essere un «isolato», e di non aver mai fatto parte, anzi, di essere rimasti estranei tutti e tre alle grandi correnti artistiche.

Il secondo capitolo, Memorie parentali, conferma l’importanza dell’autobiografia per Tobino con un libro dedicato al padre, Il figlio del farmacista, in cui è interessante il rilievo dato alla figura paterna come colui che «rappresenta il mondo morale, il senso del dovere, della giustizia e della saggezza».

Ci mostra inoltre il suo legame con quattro spazi, quattro luoghi: quello della farmacia, quello di Viareggio, quello di Bologna, per finire con quello del manicomio che è il «luogo della solitudine e della meditazione».

In ogni caso scrivere per Tobino, come spiega Vanelli, «non è evasione, non è ‘otium letterarium’, ma significa adempiere un valore morale e civile, ‘operare per la civiltà’, creando una continua tensione tra etica ed estetica e tra pensiero e realtà».

C’è poi l’altro libro, quello dedicato alla madre, La brace dei Biassoli, in cui la parola “brace” è la parola chiave.

Qui, a differenza della figura del padre simbolo di moralità, le figure della famiglia della madre hanno a che fare proprio con la “brace”: un mondo di quattro sorelle, la cui “brace” alternatamente viene tenuta a bada per seguire i voleri degli uomini-padri-padroni-mariti o lasciata libera di riscaldare i loro cuori.

Un romanzo in cui le figure femminili, quasi quattro novelle “piccole donne”, hanno una grande importanza e tuttavia non ne hanno meno le due figure maschili di Oscare e Alfeo.

E, importantissime, pure le figure minori, come quella di Gioà che guida il carro trainato dai buoi da Vezzano (paese dei Biassoli) fino al Magra con grande gioia dei bambini.

E visto che qui la geografia cambia e ci troviamo non più in Toscana, ma in Liguria e c’è un carro trainato dai buoi come non pensare al ligure De André e alla sua bella traduzione della canzone di Georges Brassens Marcia nuziale?

Ma non vogliamo aggiungere altro per lasciare – a chi non l’avesse ancora letto – il piacere di leggere Vanelli e pure questo capolavoro di Tobino.

Vogliamo ancora aggiungere su questo capitolo che la figura del padre (la morale) e quella della madre (la brace) si mescolano in quello che potremmo definire il DNA dell’autore viareggino.

Nel terzo capitolo, Circumnavigare la follia – Il manicomio di Magliano, di nuovo continua l’apporto autobiografico dell’autore in quattro opere che trattano del manicomio e della visione del medico-Tobino sulla follia.

Le opere sono: Le libere donne di Magliano, Per le antiche scale, Gli ultimi giorni di Magliano e Il manicomio di Pechino.

Il primo soprattutto, uscito nel ’53, «si può a buon diritto ritenere un unicum nella produzione italiana di quegli anni, innanzitutto per la sorprendente originalità del tema, un argomento tabù, praticamente quasi sconosciuto, cioè la vita di un manicomio […]».

Ci spiega ancora Vanelli: «Il testo non è tanto la “narrazione” di una vicenda […] quanto piuttosto la “rappresentazione” (cinematografica) di istantanee o di brevi sequenze […]» e ancora «ciò che ha sollecitato la scrittura di quest’opera è certamente il rapporto affettivo che unisce lo scrittore ai suoi “matti”».

Questo legame dello scrittore con i matti si legge bene in una citazione che è pure una enunciazione di poetica dove ogni elemento di questo «ghetto» deve diventare «materia espressiva».

Leggiamo quanto scrive Tobino e Vanelli riporta: «[…] la mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, sono ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare».

La follia, che per Tobino è una malattia, si manifesta in due modi che Vanelli, rifacendosi a Nietzsche, chiama a seconda dei casi «dionisiaca (o inferica)» e «apollinea (o angelica)».

Il culmine della prima si trova nelle “agitate” che immediatamente a noi fa venire in mente il dipinto del macchiaiolo Telemaco Signorini.

Ancora una volta Vanelli cita a proposito le parole di Tobino: «La bava, la lussuria estiva, le donne che si toccano, si abbracciano, la saliva, gli occhi languidi lucidi: in manicomio, nei reparti femminili, senza pudicizia si scarica la sensualità».

La pazzia «apollinea (o angelica)» – una sorta di pazzia innocente – è ben rappresentata, tra gli altri, dalle due sorelle Poli, viareggine cucitrici di vele.

Ne Gli ultimi giorni di Magliano «c’è la sfida ingaggiata dallo scrittore contro le nuove leggi, che denunciano una scarsa comprensione del mondo della pazzia»: è l’emanazione della famosa legge 180 del ’78.

«Una scarsa comprensione» che comporta gravi conseguenze tra cui un elevato numero di suicidi.

Per Tobino la follia esiste, ma per lui, come scrive Vanelli, «la vera rivoluzione consiste nel trasformare il manicomio in un luogo umano, dove trattare i matti con affetto, frequentarli come amici, perché sono creature degne di amore».

Da Il manicomio di Pechino (ultimo libro pubblicato, ma che risale a quando il dottor Tobino fu direttore dell’ospedale psichiatrico) sappiamo infatti che si dedicherà alla creazione di un giardino; farà costruire un grandioso presepe; allestirà sia una sala mensa per il personale sia laboratori artigianali per i malati meno gravi.

C’è un’idea di comunità in tutto ciò che verrà ripresa da Cesare Garboli nella sua orazione funebre per lo scrittore viareggino.

Ed eccoci al quarto capitolo, Il fascino del mare: Viareggio e la Versilia.

Nei tre libri che affrontano questo argomento, i primi due (la raccolta di racconti La gelosia del marinaio e il racconto lungo L’angelo del Liponard) sembrano distaccarsi dall’autobiografia per caricarsi di soggettive suggestioni emotive, di toni poetici, di invenzioni tra sogno e realtà. Qui diventa fondamentale il tema del mare.

Nella Gelosia del marinaio la storia tragica de La bella Zivena, colpevole di aver rotto ogni tabù, facendo nascere gelosia, odio e vendetta in tutto il paese, viene paragonata da Vanelli sia alla verghiana Lupa sia alla dannunziana Mila di Codro di La figlia di Jorio (a noi ancora una volta torna alla mente il De André di Bocca di rosa) e se vogliamo seguire i curiosi intrecci della vita, vorremmo aggiungere che La figlia di Jorio fu musicata dal maestro, nonché barone, Alberto Franchetti la cui figlia Elena, donna bellissima, fu il primo grande amore di Tobino.

Per Tobino «Viareggio [“Medusa” per Tobino, NdC] e il suo mare incarnano la libertà, l’indipendenza, il gusto per l’avventura […] sono, insomma, un ideale trampolino verso il sogno e il viaggio, ossia verso un altrove favoloso, che rappresenta l’inconscio in una immagine visiva […]. Questo mondo però è attraversato anche dalla sofferenza, dalla tristezza […], dalla malinconia del marinaio […]».

Questa duplicità di sentimenti nei confronti del mare «appartengono all’autore stesso, che è costituzionalmente un “homo duplex”» col suo inesausto “amor vitae” e nello stesso tempo con la consapevolezza dell’effimero che accompagna la vita umana.

Ci viene ancora segnalato da Vanelli l’incipit definito «stupendo» di Due marinai, tra l’altro «prova del tipico ritmo paratattico della prosa tobiniana».

Eccolo: «La domenica nel porto i bastimenti sognano. Qualche voce ad intervalli, che sembra canto. I marinai si allontanano dai bastimenti. Dalla Carolina Madre scendono Carlone e Cesare».

L’Angelo del Liponard, un grande veliero, è, secondo Vanelli «tra i più bei racconti lunghi della narrativa italiana novecentesca».

Non vogliamo svelarne la trama, ma di nuovo abbiamo una figura di donna, di una donna che si ribella alle regole, una donna che ha scoperto il potere dell’Eros e tuttavia non è un racconto esclusivamente erotico.

In Sulla spiaggia e di là dal molo Tobino ci racconta il mondo versiliese in modo «oggettivo» in cui di nuovo torna importante l’elemento autobiografico, come quello della sua frequentazione con gli amici di estrazione popolare (la famosa “teppa” del Piazzone).

Scrive infatti Tobino: «erano loro i miei grandi amici con i quali, se un altro destino non fosse intercorso, forse sarei stato felice tutta la vita e forse non avrei neppure scritto, dato che vivere in quel modo era la completa poesia».

Un’idea «di vita come poesia» che presto si infrangerà, perché lui continuerà gli studi a differenza dei suoi compagni.

Il libro è, per Vanelli, «un grande affresco narrativo sul mondo versiliese» che, già nel titolo, rivela quella «duplicità» che caratterizza anche l’anima di Tobino.

Nel capitolo quinto, La lezione della storia. La quadrilogia storico-politica di nuovo alla storia si unisce l’autobiografia.

Ecco i quattro titoli della quadrilogia improntata a tematiche storico-politiche: Bandiera Nera, Il deserto della Libia, Il Clandestino, Tre amici.

Ci sarebbe molto da dire anche su questi, esaminandoli uno per uno, ma abbiamo cercato di trovare un minimo comune denominatore in quanto scrive Vanelli ed è «il “nero” morale e civile del regime», però ne Il deserto della Libia Tobino ci fa anche «entrare nel misterioso e fascinoso mondo arabo (le case, le donne, il mercato)» e ci fa percepire due spazi contrastanti, che sono rispettivamente quello della tenda e quello del deserto.

Il primo che ci rende partecipi del senso di prigionia, mentre il secondo «diviene riserva di sogni, di evasioni fantastiche, di storie leggendarie […] quello che emerge è la miseria politica e militare dell’Italia».

E il deserto ripropone la stessa «riserva di sogni, di evasioni fantastiche» che già avevamo trovato nel mare, anche se qui il mare è un mare di sabbia.

Nei due testi (Bandiera Nera e Il deserto della Libia) Tobino è debitore, per Vanelli, della «lezione stilistica classica (Machiavelli in primis)».

Qui Tobino ha la precisione linguistica della struttura classica con l’incisività del Machiavelli: è osservatore rigoroso pur con scatti appassionati, è fine moralista, è storico attento. Insomma usa un linguaggio caratterizzato da precisione e incisività.

E tutto il materiale storico che Tobino analizza ha uno scopo ben preciso: alimentare, nutrire «le forze positive dell’animo umano».

Non scordiamo, infine, il film tratto da Il deserto della Libia, dal titolo Le rose del deserto, con regia di Mario Monicelli e bellissima locandina della compagna di quest’ultimo, Chiara Rapaccini che, proprio quest’anno, ha pubblicato in Mio amato Belzebù, la loro storia.

Il Clandestino (Premio Strega ‘62) è una sorta di classico romanzo storico, e il paragrafo a lui dedicato è titolato da Vanelli, Il Rosso, ovvero Il Clandestino, perché Tobino-Anselmo fu comunista e “Il Clandestino” un gruppo eterogeneo di antifascisti.

Qui l’autore adotta «una espressione regolare, piana, che scorre secondo il ritmo della medietas linguistica» e l’elemento autobiografico torna nel dott. Anselmo come alter-ego dell’autore e nella storia della lotta antifascista versiliese.

È una sorta di contaminazione tra autobiografia e romanzo storico che diviene poi un “romanzo di formazione”.

Per Vanelli «i personaggi ricordano da vicino certe indimenticabili figure di Carlo Cassola».

Innamorato dell’idea di una società egualitaria del Comunismo, Tobino se ne allontana quando si accorge dell’asservimento di questo alla Russia e a un’ideologia che tarpava ogni libertà di pensiero.

Tre amici si svolge a Bologna che diventa il luogo cruciale per l’esperienza umana e politica, oltre che culturale ed è «ricordata con amore, con intima simpatia per la città e la sua gente […]».

La vicenda è molto bella e drammatica. Qui c’è di nuovo l’elemento autobiografico e, per il suo alter-ego, lo scrittore sceglie il nome dello zio materno, Alfeo, a sua volta legato a una tragica e straordinaria vicenda che si legge ne La brace dei Biassoli.

Tobino e Lucca è il titolo del sesto capitolo.

Vanelli ricorda che è del 2009 il libro La Lucca di Mario Tobino, edito da Maria Pacini Fazzi, una sorta di antologia di passi di Tobino sulla città, con “immagini” bellissime delle sue stradine medievali, di S. Michele, delle mura, di uno splendido notturno di S. Martino, di S. Pietro Somaldi.

Poi le tre figure femminili anima della città: Lucida Mansi, Ilaria del Carretto e S. Zita.

Qui lo stile di Tobino «perde le sue asperità, rinuncia alle distorsioni sintattiche […] la prosa si ammorbidisce, diviene […] più descrittiva con un linguaggio più visivo e spaziale, con accentuate inflessioni sentimentali».

Vanelli fa inoltre una considerazione bibliografica: le pagine su Lucca vanno dal ’76 alla morte dello scrittore, a partire da La bella degli specchi (’76), Gli ultimi giorni di Magliano (’82), Zita dei fiori (’86), Il manicomio di Pechino (’90), fino a Una vacanza romana (’92).

Prima del ’76 l’atteggiamento di Tobino nei confronti di Lucca è decisamente contrario, con un «giudizio fortemente negativo sul tessuto umano e civile della città».

In Sulla spiaggia e di là dal molo si legge che i lucchesi vivono in un: «delirio monetario di possesso e non ammettono che ci si possa interessare di altro: i denari, i poderi, le case, le cambiali, vendere, comprare, ammassare una più grossa fortuna. La parola patrimonio per loro è come nei tempi gloriosi di Roma la parola Senato».  E qui come non pensare a Cesare Garboli?

Nel Clandestino, dopo aver sottolineato la tiepidezza nella lotta partigiana, scrive: «È vero, hanno una bella città. Ma perché non partecipano? Noi a Medusa facciamo il massimo che possiamo, loro non fanno nulla. Sono dei vigliacchi, ecco cosa sono, degli egoisti che aspettano facciano gli altri».

Dal ’76 la riconciliazione, per «farne risaltare non solo il fascino e la bellezza, ma anche l’umanità». Insomma un amore, anche se tardivo.

Vanelli ribadisce che Tobino è «homo duplex» che può passare «dagli abbandoni lirici alla vis polemica».

L’amore per Viareggio, ci spiega il critico, è per la città dei marinai, dove lo spingersi al largo significa «abbandonarsi alle seduzioni del sogno e dell’avventura».

Poi Viareggio è «il simbolo di un sentimento anarchico della vita».

Lucca e il suo manicomio sono spazi chiusi, condizione privilegiata ideale per scrivere.

Il mito di Viareggio crolla perché cede il passo a una città moderna, di cemento.

È a questo punto che Lucca diventa il «nuovo mito riparatore e consolatore», una sorta di «grembo materno». Ma Lucca, ci spiega bene Vanelli, ha un’anima androgina, perché alla consolazione di un grembo materno unisce anche elementi maschili nel senso «dell’ordine e della regolarità, nella volontà del fare, ma con prudenza e saggezza […]».

Persino nei libri di viaggio (capitolo settimo: Tre libri di viaggio) non viene meno l’elemento autobiografico.

I viaggi sono infatti viaggi reali che rivelano elementi costitutivi della personalità di Tobino, non viaggi «come ‘l’altrove’ favoloso dell’Angelo del Liponard».

Questi sono viaggi, come scrive Vanelli, di stampo «illuministico», ovvero come strumenti di conoscenza.

Ecco i titoli: Due italiani a Parigi, Passione per l’Italia, Una giornata con Dufenne.

Nel primo, Due italiani a Parigi [Tobino e la sua compagna Giovanna, nome letterario dato a Paola Levi Olivetti, sorella di Natalia Ginzburg, NdC] quello che colpisce di più è «il giudizio negativo sulla scuola impressionista» che, personalmente, condividiamo.

Non c’è poi un grande amore per Parigi a cui si unisce la gelosia della compagna Giovanna per gli sguardi di Tobino alle giovani francesi.

Ma c’è anche un’importante annotazione di poetica in quanto, come ben spiega Vanelli, «la vera bellezza è fusione tra fenomenicità e l’indefinibile nucleo energetico che la muove dall’interno». Insomma una corrispondenza tra interno ed esterno, come ben sapevano i Greci, e come ci viene da aggiungere.

In Passione per l’Italia c’è la semplice «illustrazione di un viaggiatore letterato» che si muove tra Grecia, Germania e sud dell’Italia, ma mancano i luoghi da lui veramente amati che sono la Versilia, il deserto africano, Lucca.

In Una giornata con Dufenne, che era stato un suo compagno di collegio, i due amici fanno considerazioni morali «sull’Italia del dopoguerra imborghesita e meschina».

Qui per Vanelli viene fuori lo «scrittore della verità», qui ribadisce la sua «scelta morale ed esistenziale. Ma le aspirazioni etiche e politiche non sempre si armonizzano con quelle estetiche».   

Ecco quanto scrive Tobino alla fine della giornata trascorsa con l’amico: «Io sempre con voi, con voi matti. La mia vita è stata con voi. Sono quasi trent’anni. Ci sono state altre cose, ma è con voi che ho vissuto ogni mattina, dopopranzo e notte. Io con voi matti, sempre con voi».

Ed arriviamo a L’ultima stagione narrativa – I racconti e tre contes philosophiques che è l’ottavo capitolo.

Qui sono presi in esame tre libri di racconti La bella degli specchi, Zita dei fiori, Una vacanza romana.

L’ultimo è dedicato al suo soggiorno romano per assistere la compagna Giovanna malata.

Dei tre “contes philosophiques” (La ladra, Il perduto amore, La verità viene sempre a galla) è La ladra che per due motivi ci ha colpiti.

Il primo per il tema trattato, ovvero l’eterno quesito se incida di più, nella formazione di una persona, la natura o l’educazione.

Il secondo perché proprio a Lucca (e precisamente a Villa Torrigiani) su questo tema fu girato da Daniele Luchetti il suo primo film Domani accadrà.

La novità di questi testi sta, inoltre, nel sentimento della malinconia, che si sostituisce alla ben più calda vitalità che caratterizzava i testi precedenti.

Nell’ultimo capitolo, il nono, dal titolo Per un ritratto di Tobino, il critico riprende quanto detto nel corso del libro, spiegandoci ulteriormente i punti chiave delle tematiche di Tobino quali l’insofferenza del limite, l’amor vitae, la componente morale, l’importanza delle figure dei genitori, il suo animus duplex, le componenti di ethos ed eros, la sua concezione di bellezza in cui c’è sempre un quid di divino.

Per passare poi a sintetizzare lo stile tobiniano che fa uso di forme brachilogiche e paratattiche, ma anche di una lingua classica che alterna ad una scabra.

In sostanza una scrittura non dalla forma unitaria, ma ugualmente originalissima.

 

Perché leggere il libro di Vanelli?

In primo luogo perché è chiaro, perché si comprende e ci fa comprendere un autore nelle sue diverse sfaccettature.

In secondo luogo perché riesce, con il suo amore, a farcelo amare.

Infine perché sa scegliere le citazioni giuste per farci assaporare questo autore, senza annoiare.

E ancora per averci accompagnato in una sorta di viaggio nei luoghi di Tobino; per aver saputo ricreare l’ambiente della sua formazione e della sua vita descrivendoci non solo i “suoi” luoghi, ma anche i suoi contatti letterari e artistici.

I motivi per leggerlo sarebbero molteplici, ma oltre a quelli già indicati, vorremmo aggiungere per i confronti letterari, che vanno da Cassola a Verga, da Proust a D’Annunzio, da Petroni a Bertolucci, da Pratolini a Bassani e per i continui riferimenti artistici (Marcucci, Viani, Morandi) e cinematografici (Bolognini).

Non ci resta che dire grazie, prof. Vanelli, per averci accompagnato con questo libro, guidandoci quasi per mano, nella lettura dei libri e nel mondo di Tobino.

 

Paolo Vanelli, Bellezza e verità. L’opera narrativa di Mario Tobino, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2024

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