Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Come pesci chiusi in un acquario
Elio Pecora, nel suo nuovo romanzo, è più crudele che nostalgico. Mentre, da poeta qual è, si fa testimone delle storie che gli sono affidate, impone riflessioni importanti. Se l'acquario in cui nuotavamo ammirati non lo guarda più nessuno, sostituito da uno schermo piccolo e piatto in cui navigano fin troppi pesci, che cosa rimane da ascoltare in solitudine? Come sempre, sola e soltanto, la poesia.

Guardateli. Sono belli e colorati. Nuotano in uno spazio ristretto, innaturale, non più nascosti nelle vaste acque del mare. Sono sotto gli occhi di tutti, ammirati, elogiati, nutriti con cibo liofilizzato. Fanno figura. Solo che ogni tanto si attaccano l’un l’altro, o muoiono da soli, apparentemente senza motivo.
Pesci in un acquario.
La metafora si esplicita fin dal titolo del nuovo romanzo di Elio Pecora, che riconosciamo poeta alto anche quando scrive in prosa. Nuotano nel grande acquario di Roma i protagonisti, dietro i cui nomi (Carlo, Laura, Anna, Luigi, Silvia e molti altri) si celano altri nomi e cognomi non detti, che qualcuno riconoscerà o forse no, ma non importa. Vivono nello spazio loro rimasto, dopo anni e anni di incontri nelle case e nelle piazze, nei salotti e nei caffè, sui terrazzi della Capitale che guardavano tutta Italia, senza essere interrotti dallo squillo del cellulare, dal messaggio inopportuno, dal vocale invadente, dai frastuoni della nuova era. A parlare e a raccontarsi, tra amori e addii, ritorni e partenze, arrivi e scomparse, libri, mostre e teatri.
Ma oggi si ritrovano “randagi nel dubbio, scontenti nel desiderio”. Forse, morde la consapevolezza di essere sempre stati pesci in un acquario. Però la prigionìa era dolce, quando tutti venivano ad ammirarti. Allora, forse, il punto è che quell’acquario non lo guarda più nessuno: gli viene preferito un piccolo schermo piatto, in cui troppi pesci navigano, e pure brutti.
Il romanzo di Elio Pecora è più crudele che nostalgico: in quale misura – chiede e ci chiede – siamo abitati dall’altro? Quanto l’Io se ne sta incastrato nel Noi e nel Loro?
E dunque: che cosa abbiamo davvero fatto di Roma, sineddoche di un Paese dai bei nomi importanti, se perfino davanti allo specchio non ci siamo davvero riconosciuti?
Crudele, dicevamo: perché leggendo le storie di Anna, Carlo, Laura e di tutti gli altri, che nell’acquario cercano appartenenza e compagnia, si raccontano e attraversano memorie, ci rendiamo conto della solitudine in cui ormai tutti navighiamo, della perdita di quel senso di appartenenza che per un po’ ci ha consolati, ma che forse non abbiamo saputo estendere abbastanza, balzando fuori da quell’acquario a costo di restare senza ossigeno.
Nell’età della scontentezza e dell’ansia – scrive Elio Pecora nella bella nota alla premessa del romanzo – dove la solitudine è tacitata dal frastuono, forse un’ultima speranza di salute può venire dal sapersi uguali nel raggiro, compagni nella confidenza. Ma anche, si potrebbe aggiungere, nella consapevolezza.
Il poeta è testimone delle diverse verità del mondo, raccoglie le parole scagliate dalla freccia di una dea e le mette esattamente dove devono stare: così Elio Pecora raccoglie i racconti, i dubbi, i dolori che gli sono affidati, e ne fa – come dice Ecuba nelle Troiane di Euripide , “canto eterno in bocca agli uomini”.
Resta, affilata come una spada sopra la testa di ciascuno, quella terribile domanda che Cristina Campo, che dall’acquario ha sempre cercato di saltar fuori, formulò all’inizio degli anni Settanta: «A cosa si riduce ormai l’esame della condizione dell’uomo, se non all’enumerazione, stoica o atterrita, delle sue perdite? Dal silenzio all’ossigeno, dal tempo all’equilibrio mentale, dall’acqua al pudore, dalla cultura al regno dei cieli»[1].
Hofmannsthal, che la Campo amava tanto, era certo che perfino i lettori più distratti «cercano quello che con forza maggiore li leghi al mondo e insieme li sgravi di colpo dalla pressione del mondo. Cercano, in una parola, l’incanto assoluto della poesia»[2]. Ma la poesia non è un incanto: chiunque la cerchi per legarsi al mondo o per sgravarsene rimarrà deluso. Compreso il poeta. La poesia – come ben sa Elio Pecora – è l’unico faticoso antidoto a quell’io senza mondo che già Hofmannsthal vedeva profilarsi nel suo XIX secolo, e che non solo corrisponde con il “secol superbo e sciocco” di Leopardi, ma preconizza anche il “mondo fantasma” che il filosofo Günther Anders denunciò a metà Novecento[3], fino a connettersi all’innominabile attuale, come Roberto Calasso nel libro omonimo definisce il nuovo millennio, ovvero «l’età dell’inconsistenza», tanto informe quanto dilagante[4]. E ora che l’acquario è diventato un piccolo schermo piatto troppo affollato, in cui si nasce e si muore in un amen e nulla sembra davvero durare, converrà rituffarsi nella vastità del mare dove chi vuol vedere deve immergersi e trattenere il respiro, o nei fiumi dove i salmoni nuotano controcorrente; converrà ricordarsi di Leopardi e di Cristina Campo, di Hölderlin chiuso nella casa-torre sul fiume Neckar, di Emily Dickinson nella sua stanza, di Kafka che evitò il potere e le sue lusinghe non combattendolo né adeguandosi, ma sottraendosi. E di Osip Mandel’štam, la cui «caratteristica principale è quella di non aver mai combattuto per il proprio posto nella vita»[5].
ELIO PECORA
L’Acquario
Vicenza, Neri Pozza, 2025, pp. 236
[1] Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, p. 113.
[2] Hugo von Hofmannsthal, L’ignoto che appare, a cura di G. Bemporad, Milano, Adelphi, p. 254.
[3]Günther Anders (Breslavia, 1902 – Vienna, 1992) definì “mondo fantasma” un mondo in cui «tutto quel che è reale diventa fantomatico, tutto quel che è fittizio diventa reale», in L’uomo è antiquato vol. 1, trad. di L. Dallapiccola, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 124 – 146.
[4] Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Milano, Adelphi, 2017, p. 47.
[5]Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, trad. di V. Parisi e M. Zucchelli, Milano, Edizioni Settecolori, p. 199.
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