Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Daniela Matronola: La porta chiusa

Un racconto. "Mia madre dice che il babbo mi ha spiato mentre venivo fuori dal buco, e non è neppure svenuto. Solo si è rifiutato di toccarmi. Ero tutto sporco di sangue e placenta, e frignavo per il freddo"

Daniela Matronola

Daniela Matronola: La porta chiusa

Tra ordine e spensieratezza si respira.

Tra volontà e abbandono si respira.

Tra il quaderno e i compiti si respira. (…)

Tra amore e rigore si respira più forte …

(Edoardo Albinati, La comunione dei beni)

Mia madre dice che il babbo mi ha spiato mentre venivo fuori dal buco, e non è neppure svenuto. Solo si è rifiutato di toccarmi. Ero tutto sporco di sangue e placenta, e frignavo per il freddo. Così mi hanno lavato. Poi mi hanno rimesso sulla pancia della mamma, ma tanto ormai ero tagliato fuori.

Pare un ragno,

dice la mamma che ha detto il babbo quando mi ha rivisto poggiato sul pallone sgonfio, ben pulito e grinzoso col naso e gli occhi arricciati come Mister Magoo (questa di Mister Magoo me l’ha raccontata il babbo un giorno ch’era in vena di smancerìe). E non è svenuto neppure stavolta.

Il babbo è un ragazzo determinato, con le idee chiare, ma è molto delicato anche. Lo si intuisce dalla delicatezza appunto con cui non ti opprime con la sua presenza al punto che si fa mancare e anche da una certa incrinatura che gli viene nella voce quando accondiscende a parlarti dopo averti brevemente ascoltato per suggerirti la sua idea su un tuo certo problema.

E’ bravo il babbo. Ti dà poche ma sentite dritte su pochi ma fondamentali crucci della vita, e c’è da giurarci che ci camperai di rendita, comodo comodo, per almeno buoni due mesi. Poi t’accorgi che la ventilazione, ch’è una funzione vegetativa, cioè del tutto involontaria, ti s’affanna, e nel giro di qualche secondo, in cui ti candidi esemplarmente al soffocamento, lo sai – lo capisci: sei in apnea. C’è bisogno che il babbo t’ascolti e ti parli di nuovo per lasciarti tirare avanti almeno per i due mesi successivi.

Un pomeriggio che finivo scuola alle quattro per via del tempo pieno si era in macchina tutti e due, il babbo e io, a un semaforo. E’ stato allora che ho provato a smentire la maestra di matematica che la mattina ci aveva raccontato di come è spontaneo respirare e di come è impossibile non farlo.

Questa di smentirla è un impegno che ho preso di recente con me stesso per via del fatto che mi è antipatica – il babbo al mio posto direbbe semplicemente su cosa gli sta.

Insomma avevamo davanti questo diesel che ci sgassava in faccia un fumo nero puzzolentissimo e non c’era verso che scattasse il verde.

Uno potrebbe anche decidere di morirci così – ho fatto al babbo – semplicemente trattenendo il respiro (udibile proprio perché erano un po’ di minuti che ci stavo rimuginando).

Impossibile, ha detto lui impassibile.

Io l’ho sfidato, Scommettiamo?.

E mi sono messo a comprimermi, fin quasi al soffocamento proprio.

Vedi?, gli ho detto mentre la faccia mi andava letteralmente in fiamme.

Lui ha rintuzzato, -Ora però se parli stai respirando. Eppoi – ha detto il babbo quella volta ch’era di nuovo in vena di smancerìe, – se hai deciso di morire di apnea tanto vale che ti soffochi coi gas di scarico.

Un tipo acuto, il babbo.

Mia sorella, la grande, Carolina, si adopera con impegno a risparmiarmi la trascuratezza del babbo. Ha escogitato una serie di assalti al suo studio. Il babbo ci sta chiuso dentro tutto il tempo che sta a casa tranne il momento dei pasti e io me lo figuro seduto al computer, o al telefono, col sottofondo della radio o con la tivvù accesa, oppure svenuto magari con la testa crollata sulla tastiera o rilasciato indietro contro lo schienale della poltrona, nera, di pelle, davanti alla scrivania oppure steso, comodo comodo, sul divano, nero, di pelle, dove dorme da circa tre mesi. Carolina bussa alla porta dello studio una media di dieci volte in un’ora, ogni sei minuti – ci si potrebbe rimettere l’orologio.

Lei ha sempre qualcosa da dirgli, e lui è proprio bravo – non perde mai la calma. La lascia entrare, sente cosa c’è di nuovo stavolta – tutta roba di pochi secondi, e di poco conto: Babbo mi passi la gomma? Babbo devo giustificare a scuola. Babbo mi serve qualche lira. Babbo esco. Babbo scendo, ti compro un gelato? Babbo scendo, ti compro le sigarette?-, e così via. Ogni scusa è buona.

In che modo poi tutto questo traffico che importa soprattutto a lei includa anche me e debba servire a crearmi il contatto col babbo che io da solo non cerco lei a me non l’ha spiegato e io faccio fatica a capirlo.

Mia sorella, la grande, Carolina, ha l’incarico solenne di badare a me specie da che è arrivato Oreste, il nostro terzo fratello, che convive con la mamma da due mesi e rotti e ci ha tagliati fuori tutti quanti. Ci eravamo appena appena assestati su una distribuzione collaudata di azioni e prestazioni che già c’è da rifare tutto daccapo – con la nuova ramificazione s’è risconclusionato tutto un’altra volta.

Carolina è una che si procura sempre mille ragioni per rivolgere la parola al babbo ed è una che sa imbambolare anche solo ogni tanto e anche solo per poco la sua attenzione, labile. Del resto lei ha preso da lui. Lei torna alla carica ogni sei minuti e lui le dà retta i pochi secondi che gli bastano a sentire che vuole.

Hanno poca autonomia tutti e due.

Lui rimane nello studio a elaborare un sacco di roba oppure esce a trovare di che lavorare dopo nella sua tana. A volte viaggia anche – allora non lo si vede per giorni neppure ai pasti comandati, neppure a cena quando in genere è a casa di sicuro.

Per conoscere i suoi spostamenti basta chiedere a lei, a Carolina – lei sa tutto, specie quello che persino il babbo non sa che farà.

Come lo sai?, le ho chiesto una volta.

Non lo so affatto, lo immagino

Un altro giorno ch’era in vena di smancerìe il babbo mi disse:

Tu manchi di ciò che infiamma i credenti incalliti, gente che magari nega la religione ma proprio per questo la sovrastima e la soffre – tu manchi di irriverenza e di senso del ridicolo, tu manchi di vera passione, sei uno che non bestemmia mai.

Invece la mamma che ha studiato il greco dice che sono un iconoclasta.

Io dico, almeno su questo mettetevi d’accordo.

Il babbo è un ragazzo che sviene.

Magari è uno che si spaventa. A vederlo non si direbbe – lo vedi sicuro, compiuto, anche bello in questa sua inattaccabilità. A me non è capitato mai di vederlo in quello stato di abbandono. L’ho visto fumare tanto, questo sì, e una volta mancargli il respiro per aver letteralmente risucchiato una sigaretta e patire qualche minuto di serio sbandamento però così ben camuffato da stanchezza o da scostanza (certo quella volta era letteralmente terreo) che non si sarebbe detto ch’era stato sul punto di cadere per terra lungo lungo senza sensi, rapito al suo proverbiale autocontrollo che lo rende certe volte spaventoso da qualcosa che l’aveva semplicemente spiazzato.

Magari è una tecnica che ha imparato – questa di sapersi controllare, anche se qualche volta gli fa cilecca – si vede che qualcosa che lo sorprende esiste ancora, qualcosa che forza la soglia della sua sopportazione.

Il babbo è un ragazzo che non dorme mai.

Si fa un unico sonno duro quattr’ore a notte dall’una alle cinque. La sera esce dopo cena un po’ sul tardi, con un suo amico vicino di casa oppure solo. Va a un bar del centro dove incontra colleghi e no. Poi torna e si rinchiude nello studio dove dorme da che è nato Oreste per non essere disturbato dai suoi continui strilli notturni – piomba nel sonno un po’ dopo coi filmati fuori orario e si risveglia coi notiziari trasmessi dal satellite che lui acchiappa con un padellone che s’è montato un pomeriggio da solo che a momenti cadeva di sotto così ce lo giocavamo una volta per tutte e alla fine s’è dovuto chiamare l’antennista lo stesso.

Tutto questo avviene mentre io dormo – mi faccio tutta una tirata intanto che il babbo esce rientra guarda la tivvù s’addormenta ronfa poi si risveglia riprende a guardare la tivvù beve un caffè e intanto magari ricomincia a lavorare. Io dormo. E tutto avverrebbe a mia insaputa se non fosse mia sorella, la grande, Carolina, a raccontarmelo intanto che mi porta a scuola la mattina o mi riporta a casa i giorni che esco di scuola all’una come lei e lei mi tiene saldamente per mano sempre per via del solenne incarico.

Il babbo ogni notte prima di rintanarsi passa da lei a vedere se dorme, le si avvicina per sentirla respirare, le aggiusta le coperte – magari le schiocca pure un bacio sulla fronte. Lei dice di sì ma io non ce lo vedo, il babbo, a schioccarle baci sulla fronte – non mi pare il tipo, ecco. Lei dice che lui glielo dà quasi sempre, il bacio. Sarà. Lei del resto ormai se lo aspetta. Difatti lo sente arrivare tutte le notti – ormai ci si sveglia apposta, giusto il poco che basta per sapere che lui c’è e la bacia come un principe azzurro che le dà il sonno invece di risvegliarla – poi lei si volta dall’altra parte e riprende a sognare da dove aveva smesso. Sarà, ma secondo me mia sorella, la grande, Carolina, mi racconta balle perché io, se smetto di sognare, quando mi riaddormento non ricomincio mai da dove ho lasciato. La mattina appena sveglio il babbo non passa mai a vedere se lei dorme ancora o s’è scoperta nel sonno, sennò lei lo saprebbe, e me lo racconterebbe. Da me invece non passa neppure la sera, sennò lo saprei.

Il babbo è un ragazzo che ha un bel paio d’occhi scuri, puntuti e mobili.

Lo sguardo è velocissimo, proprio. Lo punta pochi istanti sul poco che colpisce, non si è capito ancora bene come, la sua attenzione, labile, e poi passa subito avanti. Sarà per questo che il babbo è un ragazzo molto distratto. La mamma dice che il babbo quando parla in pubblico sparge su tutti come fossero prede che stanno per diventare suoi bocconi uno sguardo lupesco. Manda in giro questo paio di fari acuminati come fasci di luce fredda per agguantare l’attenzione di fasce successive di gente e poi radunare tutti attorno alle proprie parole quando fa irruzione in platea con la bella voce.

Dev’essere questa pure una tecnica che ha imparato per tenere a bada l’uditorio – magari avrà studiato i conduttori televisivi o i giornalisti visto che sta sempre col muso appiccicato al video, anche quando lavora se non ci rinuncia per sentire la radio.

Sfarettare, dice la mamma che il babbo nomina l’azione delle macchine di far andare il loro sguardo di ghiaccio contro la notte nera. Il babbo non sa che io lo dico alla mamma dei suoi occhi.

Il babbo è un ragazzo di salute delicata.

Si raffredda per nulla e gli viene la febbre alta.

Come una notte che pioveva a dirotto.

Che è il tempo che adoro, come momento della giornata, intendo, e anche come clima. Quando piove forte e uno se ne sta al riparo nel letto.

E si è tutti a casa in salvo dalla tormenta che infuria fuori.

Il putiferio fuori a sbattersi contro le case per fatti suoi, e noi dentro, al sicuro.

Insomma una certa notte ha piovuto tuonato e ci sono state pure un paio di botte forti di fulmini, e a ondate infuriava il vento. A ogni bomba elettrica che illuminava il cielo a giorno – che uno si sentiva scoperto, come se qualcuno ti strappasse le coperte di dosso e ti lasciasse nudo in piena luce – partivano gli allarmi delle macchine.

Anche della macchina del babbo.

L’ho sentito accendere il lume accanto al letto e alzarsi un paio di volte, ma giusto all’inizio, per andare a controllare da dietro i vetri che fosse tutto a posto e rificcarsi a letto e aspettare che gli allarmi smettessero e solo allora spegnere la luce.

Poi la bufera è calata e pioveva soltanto. Giù in strada si udivano tramestii e voci soffocate ma niente più scariche elettriche o tuoni, neppure in lontananza. Sapete come accade quando il temporale si allontana – il ruggito anche è lontano, e così fa pure meno paura.

E’ partito un allarme. Il babbo è schizzato fuori dal letto, e al buio ha aperto la porta di casa ed è volato giù per le scale. Giù in strada ho sentito gente che correva, poi più nulla. Il babbo è rientrato, s’è asciugato nel bagno, sempre al buio e s’è rimesso a letto.

Pioveva sempre ma lento. La nostra è una strada silenziosa che disegna una bella ciambella tutt’attorno, vira dallo stradone, fa una gran curva a saliscendi e torna allo stradone: una specie di scantonamento. Eppure un paio di macchine sono scivolate sul fondo bagnato una dopo l’altra in piena notte come per goderselo, il maltempo. C’erano voci di nuovo e passi più soffici e acuti sull’asfalto zuppo, del tipo che diventa lucido e nero. Di nuovo è partito l’allarme e anche un’imprecazione, non so se su o giù.

Il babbo è schizzato fuori di nuovo e giù in strada si è sentito un gran correre. E’ rimasto giù un po’, il babbo, magari a fumarsi fuori il fiato per stare di vedetta, fin molto dopo che l’allarme aveva smesso di urlare. Quando è risalito l’ho sentito mormorare qualcosa di là con la mamma che aveva ancora la pancia bella gonfia di Oreste, e dopo un po’ più nulla. Il babbo di sicuro dev’essere rimasto con l’orecchio teso per un bel pezzo. Io no, mi sono riaddormentato cullato dalla pioggia lenta.

Il giorno dopo il babbo aveva la febbre a quaranta, è dovuto venire il dottore e io non sono andato a scuola perché avevo il tempo pieno e non c’era chi mi riportasse a casa dopo le quattro. Neppure mia sorella, la grande, Carolina, era stata abilitata a risolvere l’occorrenza.

La notte dopo il babbo è stato male di nuovo.

Ha di nuovo smaniato fino all’alba mentre la mamma lo accudiva cambiandogli le pezze fredde sulla fronte.

Il babbo è un ragazzo che si diverte a giocare.

Ti fa un sacco di scherzetti proprio, poi sul più bello prende e ti pianta in asso: giusto il momento che incominciavi a prenderci gusto, e magari incominciavi a scaldarti un poco. Ma giusto un fuocherello proprio, un calore interno al posto del solito gelo che ti intorcìna le budella e ti blocca lo stomaco e ti toglie tutto il gusto alle papille. Lui ti strappa all’inerzia e ti porta a fare un giro di giostra – mica i soliti cavallucci in tondo e su e giù che a montarci sopra ci s’annoia persino un duènne. No, lui ti scaraventa direttamente sulla pista dell’ottovolante – ti piazza comodo comodo nel sedile di testa – per godersela meglio! – e lui ti si mette seduto accanto. E’ tutto ebbro, che pare un bambino anche lui, quasi un fratellino minore bisognoso delle tue cure ti potrebbe sembrare se non fosse per il lampo terribilmente furbo che gli brilla negli occhi. E ti mostra tutto quello che ti si stende attorno, incollandoti gli occhi a carrellare sul visibile fin nei minimi particolari e distraendoti dalla colonna sonora di schiamazzi che intanto si esegue alle tue spalle (le urla dei bambini, delle ragazze) – protendendoti tutto verso il pericolo, te lo ritrovi sempre seduto vicino, alla testa del convoglio, mentre si scala l’erta su su fino al pizzo da cui si rotolerà a capofitto nello sprofondo, e la salita lenta già ti dà alla testa a misura che vieni innalzato verso il cielo con tutte le cellule in decantazione nel sangue che ti centellinano la zavorra incollandoti al sedile per le terga finché non oltrepassi l’acme con un brivido: fine della salita, inizio della corsa. Prendi a precipitare che sei praticamente in piedi – per leggere meglio i cartelli: STATE PRECIPITANDO, VACCHE CONTINUE…- pronto a finire sparato chissà dove – faccia avanti -, quando la prima curva ti riacchiappa e ti rimette seduto, e resti schiacciato contro il sedile il resto del tempo, da adesso, all’inseguimento, ti pare, della barra d’acciaio cui ti ritrovi a rivolgere una preghiera, stretta tra i denti digrignati al vento mentre dietro le ragazze emettono un unico urlo continuo e intanto si perdono i pezzi – mia madre ci s’è persa un orecchino così, un cerchio d’oro, uno solo (gli addetti le hanno detto quella volta che forse non se n’era resa conto ma era probabile che se ne fosse messo uno solo fin dal mattino, quando poi mia madre sta le ore a prepararsi e questo proprio non poteva essere – mia madre difatti ha protestato che se l’era perso di sicuro nel giro della morte ma, si capisce, a vuoto). Invece il cerchio quella volta lì le si dev’essere sganciato. Fortuna anzi che non ha stracciato il lobo, il magnifico lobo levigato e netto dell’orecchio destro di mia madre. Tutto del resto in lei è levigato, di quell’asciuttezza elegante, limata dalle fatiche che hanno tolto polpa a un corpo già tutto allungato, come la faccia di Barbarella che si è asciugata col tempo, le gote tonde della giovinezza hanno preso a tendersi nello splendore spigoloso della maturazione.

Il cerchio dev’essersi aperto ed esser stato lanciato via in un intervallo di propellente forza centrifuga. Fossi stato lì pronto a raccoglierlo l’avrei scagliato lontano ma per accompagnarlo verso un qualunque destino migliore di un anonimo smarrimento. Fosse stato magari un sasso, un bel sasso liscio, levigatissimo, di quelli che il babbo m’ha insegnato a lanciare a pelo d’acqua per farlo rimbalzare una due tre volte prima di vederlo inabissarsi nel centro mi sarei proteso vertiginosamente sfidando ogni legge fisica, l’avrei agguantato e l’avrei trattenuto tra le dita per poi arrotolarmi in una torsione esemplare come un magnifico lanciatore di baseball, una di quelle promesse arruolate dalle giovanili delle grosse squadre in attesa che “il ragazzo si faccia le ossa per essere lanciato in prima squadra”. Avrei saputo eseguire un movimento da manuale per assecondare col corpo la spinta del braccio, per caricarla proprio in un lancio micidiale e imprendibile che renda inutile ogni tentativo d’acchiappo del catcher e qualunque giro di campo alla rincorsa d’un proiettile simile da parte del battitore, e poi mi sarei goduto lo spettacolo di torme di gente in piedi a sbracciarsi dalle tribune per tributarmi l’omaggio d’un magico sventolìo di berretti bianchi con l’icona della squadra in fronte, appena sopra la visiera, ridotta a un puntolino scuro, blu magari, o verde, o rosso, fino a descrivere in aria contro lo scuro dei posti sotto le tettoie un ghirigoro bizzarro eseguito per quell’unica volta solo per me, e magari un tifoso, uno soltanto, se ne sarebbe stato intanto in disparte, felice in quel mare umano epperò incerto se esserlo per aver afferrato il proiettile lanciato da un portento simile di giocatore o per averci guadagnato un orecchino d’oro.

Io comunque nel trambusto di quella notte credevo d’essermi perso il babbo.

Difatti mi sono sprofondato nel letto, con le coperte fin sopra la testa e stringendo un angolo del lenzuolo coi pugni tra i denti ho detto al babbo che tanto non poteva sentirmi perché m’è uscito giusto un filo di voce eppoi lui era nell’altra stanza e se anche avesse potuto sentirmi rintronato com’era non m’avrebbe capito e del resto io ero talmente rincantucciato:

Babbo, gli ho detto, se t’azzardi a morire t’ammazzo.

Come dici?- mi ha fatto mia sorella, la grande Carolina da fuori. Io mi sono stiracchiato spalancando le fauci in una stenta imitazione d’uno sbadiglio come chi stia aprendo appena gli occhi e strofinandomi – per simularlo meglio – le nocche contro le ciglia come per disincagliarle della cisposità (palline di sonno, le chiama mia sorella, Carolina la grande).

Il giorno dopo sono andato regolarmente a scuola tenuto saldamente per mano da Carolina, andata e ritorno, e a casa ho trovato che il babbo era in piedi, raffreddato e un po’ stropicciato, aveva ancora la febbre addosso ma era tornato in sé.

Intanto che l’aspetto faccio queste rane di carta. Ne ho fatte di così piccole che paiono girini. Alcune spiccano salti altissimi, altre schizzano avanti, altre fanno le capriole, poi ci sono quelle più riuscite che si avvitano in salti mortali come tuffatrici dal trampolino, di quelle per cui si molla tutto e si parte – il babbo sarebbe capace.

A forza di far rane ho fatto fuori un intero quaderno a quadretti nuovo nuovo comprato appena stamattina di corsa senza poter neppure scegliere la copertina trascinato per mano da mia sorella Carolina che m’incalzava perché era tardi e lo sa pure lei, se lo ricorda, quanto rompe quella di matematica se si entra in classe dopo di lei.

Sei in ritardo, fila dalla direttrice -, anche se è parecchio prima che suoni la campana.

Bella forza – le direbbe il babbo se fosse là, lui che è uno che si batte per la giustizia e ha i suoi princìpi, – lei entra venti minuti prima dell’orario pattuito e pretende di far valere il suo anticipo come regola. Lei è una che rompe tutti i patti.

Di sicuro è una che rompe, parola mia.

Tanto valeva sprecarlo tutto, il quaderno di matematica – cioè, destinarlo perlomeno a qualcosa che mi piace. Peccato che mi stia congelando a forza di stare inginocchiato davanti alla panca per poggiarmi a tagliare i rettangolini di fogli di quaderno da ripiegare con cura in tutte le bisettrici possibili per poi seguire i segni delle piegature e farci le rane oppure gli uccellini. Ci sarebbe una stanza a fianco con un bel tavolino e quattro sedie ma le suore non me la aprono mai.

Tendo l’orecchio a una porta di passaggio da cui, per l’appunto, passano ogni tanto le monache.

Ancora qui?, mi sfotte soave ognuna che passa.

Aspetto il babbo.

Sto con le spalle voltate alla statua della Madonna (di legno? di gesso?) col suo bel mantello celeste e la corona di stelline luminose in testa e il serpente schiacciato sotto ai piedi, e ho l’orecchio sempre teso paventando che le suore ripassino, una alla volta come in un bel supplizio.

Ancora qui?

Aspetto il babbo.

Non alzo neppure gli occhi dal girino di turno.

Il bello è che a volte alcune di loro vogliono che recitiamo insieme un’Ave Maria, per raccomandarmi a lei perché interceda presso il Padre Celeste e faccia arrivare presto il babbo, così loro vanno a mangiare o a pregare e io, una buona volta, mi tolgo dai piedi. A me pare uno sforzo spropositato. Io preferirei invece che la mano grande del mio babbo prendesse, e sarebbe ora, in consegna la mia, perché il babbo per essere un ragazzo gracile e distratto ha una mano che se ci stringe dentro la mia io mi ci ritrovo abbracciato tutto.

Ancora qui?

Sì.

Mi hanno stancato, e poi che mi lascino in pace ché ho da fare.

Suor Lina, l’oliva secca, esige sempre che io mandi bacini alla Madonna perché è buona e poi è la mamma di Gesù. Ma io, che aspetto qua da ore tra stenti tormenti e patimenti come nelle fiabe e per occuparmi ho praticamente fatto fuori un intero quaderno a quadretti nuovo nuovo comprato di corsa stamattina mentre venivo a scuola tirato per un braccio da mia sorella, la grande, Carolina, e non ho fatto, tutto il tempo, che piegare foglietti per farne rane e girini che saltano schizzano e spiccano capriole e salti mortali, il bacino io lo dò alla mamma, e non glielo mando di certo – glielo stampo pieno sulla faccia ora che la vedo tra un po’.

Uno di questi giorni torno a casa da solo. Potrei uscire in mezzo a tutti gli altri e avviarmi, disinvolto e pimpante per non dare nell’occhio. Oppure potrei lasciarmi condurre in quest’ala della scuola fingendomi docile come sempre, aspettare che mi lascino solo, aprire silenziosamente il portone grigio e scivolare fuori. La strada la conosco.

L’unico ostacolo ancora sarebbe il portone principale della scuola da cui sciamiamo tutti – basterà che mi affacci all’angolo a controllare che non ci sia nessuno tra me e il successivo incrocio. Passato quello sarei a posto e potrei farmi la mia bella camminata, magari fermarmi un momento fuori dal liceo a spiare i ragazzi e le ragazze del gruppo sportivo e intanto provare le mie rane dal muretto nel loro cortile. E starei attento naturalmente al momento d’attraversare, guarderei da una parte e dall’altra che non passino macchine e solo allora scenderei dal marciapiede. Magari potrei farmi un giro ai giardinetti, ma ci metterei poco perché sul percorso non s’incrocia il parco grande ch’è esattamente dall’altra parte ma certe aiuole spelacchiate con un’unica panchina scrostata. A quel punto sì che dovrei stare attento, c’è da attraversare il corso ch’è una strada larga, però perlomeno è un senso unico, così si deve controllare che non vengano macchine da una parte soltanto – quelli che vanno nel verso opposto percorrono lo stradone parallelo, ma lì sono già quasi arrivato, mi basta voltare alla seconda e sono nella strada di casa mia. Giusto una piccola sosta a comprare due bustine di figurine all’edicola e mi presento, e la mamma mi guarderà ammirata per essermela cavata da solo.

Ci sarebbe solo il problema che a quel punto ormai s’è fatto buio e pare, a quel che dicono i miei, che nel buio si nascondano certi cattivi ragazzi che aspettano quelli più piccoli, tipo me – per fargli la festa. Anche a me pare d’aver sentito qualcosa – certo è un rischio ma tutto considerato, se anche dovessi perdere qualche minuto a liquidare qualche paio di questi bravi fratelli maggiori usciti un po’ dal seminato, riuscirei comunque a tornare a casa molto prima dell’ora che mi si fa ogni volta che aspetto il babbo e magari a farmi molto prima la mia partitina al mio videogioco preferito.

Il babbo, sapete, è un ragazzo sempre molto occupato, proprio gran lavoratore, difatti qua non si vede.

Nulla di strano, m’ha dimenticato.

Chissà a che ora risulterò alla sua attenzione.

Se.

Daniela Matronola

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