Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Fotografare l’arte
Non c’è solo tecnica, c’è molto altro. L’arte è emozione e racconto. Un segreto sta forse nel percepire la luce. Quando si ha a che fare con la pittura, è come se una parte dell’anima di chi ha lavorato fosse lì a trattenerti. Si scorge la bellezza del segno, ogni trasparenza, fino alla densità e velocità delle pennellate. Con la scultura si può veramente impazzire, nel tentativo di trarne la descrizione più personale. Si può girare intorno all’opera fino a scoprire il significato che vogliamo darle. Fotografare l’architettura è invece una vertigine: scopri lo spazio e le sue misure, i vuoti, i pieni, non c’è altezza che soddisfi

La riproduzione dell’arte apparentemente è pura tecnica: che le luci siano ben date e omogenee, che il colore sia fedele a sé stesso, questa è la base. Eppure, a seconda di dove l’opera sia collocata i problemi da risolvere sono spesso notevoli. Ho imparato sbagliando, da un paio di maestri scanzonati.
Qualche anno fa un amico di Pienza aveva necessità di avere la riproduzione di quello che c’è nel Duomo, così mi ha abbandonato lì, lasciandomi la libertà di fotografare.

Pienza
L’attrezzatura era da spostare in continuazione, ma dentro sono stata quasi sempre sola per tutta la mattina fino a pomeriggio inoltrato, salendo e scendendo dalla scala, spostando le luci, ogni volta ricominciando. Ogni altare aveva la sua pala, ognuna era dipinta con una cura tale da innamorare; dopo aver fatto il totale dell’opera, individuavo i particolari bellissimi di questi capolavori. Mentre aspettavo che l’amico tornasse, sono entrata dentro ad ogni quadro fotografando i dettagli della pittura del ‘400 senese a Pienza: un incanto.
A proposito: i pittori sono Giovanni di Paolo, Matteo di Giovanni, Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta e Sano di Pietro.
Con la pittura è la bellezza del segno, il colloquio delle mani, gli sguardi e i rimandi, i particolari degli abiti, le decorazioni di pastorali ed anelli, i ricami, le trasparenze e tutto quello che fa il racconto della pittura, fino alla densità o alla velocità delle pennellate, alla pelle del colore nei suoi chiaroscuri, negli strati lievi, poi l’oro. È come se una parte dell’anima di chi ha lavorato fosse lì a trattenerti.
Ma è con la terza dimensione insita nella scultura che si può veramente impazzire nel tentativo di trarne la descrizione più personale. Allora la luce ben dosata drammatizza o descrive a seconda di quel che si vuole esprimere. Si può girare intorno all’opera fino a scoprire il significato che vogliamo darle. Con la scultura mi è sempre capitato di perdere la testa: potevano passare ore e non finivo mai di notare altri punti di vista, uno sfinimento. La descrizione dell’opera è quel che si deve ottenere, ma passa in secondo piano, vien voglia di raccontarla a proprio modo, di interpretarla.
Riguardo alle due teste del Bernini Anima beata e Anima dannata, ho dato alla prima una morbidezza quasi ideale, ma la seconda l’ho spinta verso il massimo contrasto possibile, facendo passare la luce attraverso la bocca urlante, quasi a cercare la trasparenza del marmo. Del resto con Bernini è l’esasperazione: sui vestiti dei suoi angeli una brezza leggera soffia in ogni direzione, muovendo nuvole e piume, i plinti alla base del baldacchino di San Pietro descrivono l’intera gestazione e il parto attraverso la rappresentazione di uno scudo: fotografarli solo frontalmente non rende appieno l’idea. Mi fermo qui perché Bernini è un capitolo a sé, visto quel che è stato capace di fare, e c’è a Roma talmente tanto di suo.
Poi vengono l’altorilievo o il bassorilievo che a volte narrano più pacatamente le cose, ma lo stupore di un vaso inondato dal mare chiederà una luce radente che descriva le onde, prima di parlarci di un tritone, di un pesce o di una ninfa.
Anche i gessi di una scuola d’arte possono animarsi di forza, se l’ombra ne mette in rilievo i volumi. Nel gesso la pelle opaca sembra quasi vera, ma è come se i gessi fossero messi lì in attesa di diventare altro ancora privi di forza. Ne ho fotografati alcuni a Perugia o all’università La Sapienza.
Per esempio, se siamo a Piazza della Signoria, all’esterno dove la luce sfruttabile è quella naturale, le sculture sono molte, messe lì quasi per essere confrontate: nonostante la folla dei turisti che girano, c’è di che perdersi, fino ad arrivare al Perseo, capolavoro di Benvenuto Cellini.
Non parliamo di Venezia o di un chiostro qualsiasi: le teste dei capitelli chiedono un racconto dettagliato, i simboli che gli scultori hanno creato dicono non solo della storia sacra o dei miti, ma di un raffinato lavoro che induce all’introspezione, e la luce che li mette in risalto, variando a seconda delle ore del giorno, non finisce di stupire. E le fontane?
Fotografare l’architettura è una vertigine, scopri lo spazio e le sue misure, i vuoti i pieni e non c’è altezza che soddisfi, non è sufficiente che le linee cadano dritte e sia rispettato il disegno, l’aria e l’atmosfera che le riempie e le fa vivere sono un enigma; mi piacerebbe a volte riempirle di nebbia o di suoni o di nuvole o di gente; i simboli e i decori passano in secondo piano, architravi e cornicioni, finestre altezze, sono iperboli o pacatezze improvvise. La cupola di S. Ivo alla Sapienza, di quel genio del Borromini, la vedete nelle fotografie dall’interno, ma all’esterno a me pare il DNA che si srotola nel tempo, giù verso la terra, dall’alto della perfezione da cui discende, lasciandoci a guardare, a desiderare.

Cupola S. Ivo Borromini
L’arte è emozione e racconto, la storia individuale parla dentro a partire da quello che la pietra narra. Per assurdo mi è più facile fotografare rovine di tempi, anfiteatri, archi di trionfo che non architetture più moderne, come se dentro l’archeologia la risonanza della storia si fosse un po’ calmata nella monumentalità diventata rovina.
Poi vi sono palazzi che sembrano usciti da una fiaba, come il palazzo ducale di Federico da Montefeltro ad Urbino con i suoi “torricini”: era inverno quando lavoravo lì, e non dimentico il rumore del vento che sibilava dentro le torri.

Urbino
Proprio non sapevo come fare per fotografare il teatro della Reggia di Caserta, non era ancora restaurato, quindi eravamo completamente al buio: mi sembra di aver dato circa 14 colpi di flash elettronici per poterlo illuminare.
Ho capito perché chiamassero il lavoro “campagna fotografica”, quando ho dovuto fotografare quasi tutto quel che è arte a Malta, passando dalle catacombe alle chiese, ai musei. Era veramente una lunga battaglia trasportare l’attrezzatura, aspettare che sale e chiese fossero deserte, legare le lampade che impedivano la visione di quadri o affreschi, e poi tanta, tanta pazienza.
Dovrei parlare di come fotografare i mosaici, soprattutto quelli moderni, che brillano sempre troppo da qualche parte, i pavimenti, le catacombe, i reperti archeologici, gli intarsi, i gioielli, gli oggetti d’oro e d’argento che sono come specchi; i quadri e gli affreschi a paragone sono facili, ma tralascio.
Mi resta il desiderio di fotografare il palazzo di Caprarola: lì l’architettura è in funzione della luce che la può più o meno attraversare, le finestre sono tagliate in modo che la luce non cada sul pavimento segnandolo con le strisce che entrano; il calendario con le sue stagioni è stato rispettato dal Vignola così che la luce si infila nei corridoi in determinati momenti dell’anno. Il corpo umano si rispecchia nell’edificio come a guidare nella penombra verso altre riflessioni… vi sono giochi di opposti, i sensi si illudono di verità inesistenti e sono porte finte, finestre finte, amplificazioni sonore inaspettate, labirinti, scale ecc., tutto rimanda ad altri modi di sentire e vedere e a quel che è invisibile.
Un segreto sta forse nel percepire la luce che sia piena o accennata, riflessa, radente, diretta, per poi entrare nel racconto di chi ha scolpito o costruito, quindi avvicinarsi, illuminarlo, farlo nostro con la luce chiara di un mattino di primavera o diffusa come in un giorno di pioggia, o con le luci artificiali ricreare quegli effetti necessari, lavorando fino a sentire un silenzio dentro la nostra immagine. Quel silenzio può, forse a sua volta, dire l’emozione che proviamo e che ci aiuta a continuare.
Non ho parlato di macchine fotografiche, di banchi ottici, di obbiettivi, di pellicole o del digitale, perché la tensione a realizzare il bello, anche solo per riprodurlo fedelmente, fa trovare ad ognuno il suo strumento e lo studio necessario a raggiungere lo scopo.
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