Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Gli dèi che ritornano: il romanzo di Efesto
Ritornare ai classici. Non è un dio bello e affascinante come tanti altri, ma zoppo e sciancato. Non trascorre l’esistenza interminabile degli dèi tra banchetti e amori fugaci, ma lavora faticosamente al pari degli uomini. Non si sposta, se non occasionalmente, tra le vette dell’Olimpo, ma resta chiuso nella sua officina di fabbro. Che cos’ha allora di speciale Efesto, al punto da renderlo affascinante fino a diventare protagonista del nuovo romanzo di Paola Mastrocola?
Paola Mastrocola, che già in passato aveva affrontato la mitologia con il romanzo L’amore prima di noi, ha appena dato alle stampe un nuovo libro dove i protagonisti sono gli dèi della Grecia: Il dio del fuoco (Einaudi, Torino 2024).
Che uno scrittore contemporaneo scelga come protagonista di un proprio romanzo una divinità dell’Olimpo classico non è caso particolarmente raro: nonostante i reiterati tentativi, anche recenti, di ripudiare gli studi dell’antico, il mito, che ha sempre affascinato la cultura occidentale, continuerà probabilmente ancora a lungo a farlo. Che il protagonista prescelto sia Efesto, però, non è così scontato. Perché proprio Efesto?
La domanda è legittima perché Efesto non è particolarmente presente nei racconti del mito greco e nelle loro rivisitazioni moderne; non è un dio bello e affascinante come tanti altri, ma al contrario è zoppo e sciancato; non trascorre l’esistenza interminabile degli dèi tra banchetti e amori fugaci, secondo il modello degli dèi “rheia zoontes”, “che vivono facilmente”, come dicevano gli antichi, ma lavora faticosamente al pari degli uomini; non si sposta se non occasionalmente tra le vette dell’Olimpo, ma resta chiuso nella sua officina di fabbro. Che cos’ha Efesto che lo rende affascinante al punto da diventare protagonista di una storia come quella che, con grande rispetto per il mito e le sue diverse versioni, ma anche con libera originalità, ci racconta oggi, nel XXI secolo, Paola Mastrocola?
Una risposta potrebbe essere: perché il fascino del personaggio sta per l’appunto nei suoi limiti; perché è il più umano tra tutti gli dèi.
È umano innanzitutto perché è fisicamente fragile, a differenza degli dèi suoi colleghi che sono perfetti. Il suo essere sciancato, zoppo, con i piedi retroflessi (nella pittura vascolare è rappresentato talvolta con gli arti inferiori uncinati all’indietro), è il motivo per cui viene ripudiato dalla madre, la potentissima dea Era. C’erano due versioni principali della storia della nascita di Efesto (cosa non insolita nei racconti del mito, che riferivano spesso di genitori diversi per lo stesso personaggio, e di vicende contrastanti variamente riportate). Secondo la versione di Omero egli era l’unico figlio legittimo della legittima coppia di sposi Era e Zeus. Ma secondo quella che divenne più popolare, e che Paola Mastrocola sceglie nel suo racconto, Efesto non aveva padre: era nato per partenogenesi dalla sola Era, che aveva voluto con quel parto eccezionale vendicarsi di Zeus, abituato a unirsi con dee e donne mortali e a disseminare ovunque una numerosa progenie. Si diceva, anche, che Era volesse mostrare di non essere da meno di Zeus, che senza l’aiuto di donna aveva messo al mondo Atena, nata compiuta e perfetta dalla sua testa: anche lei, Era, avrebbe generato un figlio da sola, senza l’aiuto maschile. Ma quando il bimbo era nato, il suo corpicino deforme le aveva fatto un tale orrore che l’aveva scaraventato giù dall’Olimpo e non aveva voluto sapere più nulla di lui. Da questa agghiacciante mancanza di affetto materno derivano nell’Efesto di Paola Mastrocola la sua profonda malinconia e la sua fragilità fisica e mentale, che lo avvicinano agli uomini.
Efesto è inoltre umano perché è l’unico dio che, come gli uomini, lavora. Appena scaraventato giù dal cielo comincia a cadere in verticale attraverso l’aria e poi attraverso il mare, finché si deposita sui fondali marini, giù negli abissi; qui viene adottato da Teti ed Eurinome, due ninfe del mare che diventano le sue madri putative, e trascorre nove anni nel chiuso di una caverna sottomarina, dove comincia a dedicarsi all’arte che lo renderà celebre, quella del fabbro. E’ ancora un bambino quando comincia a lavorare: gli dèi non sono eterni, ma immortali, hanno un momento d’inizio anche se non una fine, e conoscono un’infanzia prima di quella piena maturità che per loro durerà per sempre. Efesto riempie la sua infanzia del lavoro artigianale del fabbro, scoprendo da solo l’uso del fuoco e l’arte di fondere i metalli per ottenere oggetti meravigliosi.
Efesto è umano, poi, perché la sua vita si svolge interamente all’insegna delle contraddizioni, del contrasto tra gli opposti, del chiaroscuro. Un po’ come accade agli uomini. Tre di tali contraddizioni, tre coppie di opposti, in particolare, meritano attenzione.
1) Fuoco/Acqua. È il contrasto che domina il paesaggio sullo sfondo del quale si snoda la vicenda. Il fuoco è fondamentale nella vita di Efesto. Egli lo scopre da solo perché si trova nelle rocce, nel fondo della sua caverna, negli abissi del mare. In Grecia il nome di Efesto veniva messo in relazione, attraverso una serie di passaggi, giusti o sbagliati che fossero sul piano etimologico, con il verbo apto, “accendere, incendiare, rischiarare”. E il fuoco era lo strumento irrinunciabile per lavorare i metalli. Accanto al fuoco Efesto passa gran parte della sua esistenza. Persino Prometeo, colui che consegnò il fuoco agli uomini, nella finzione letteraria del romanzo è suo amico. Ma il paesaggio, nella narrazione, è dominato principalmente dall’acqua. È il mare, visto da dentro e dal fondo, ma visto anche dalla spiaggia, dove si infrange l’onda e dove Efesto scopre il limite tra terra e acqua (“Conosce il limite”, dice di lui Paola Mastrocola; ed Efesto emerge dagli abissi e va sulla spiaggia precisamente per vedere quel limite, il confine dell’onda, dove l’acqua finisce). Aggiungiamo che il mare ha nel romanzo un fascino e una poesia che sanno di fiaba (e fanno venire il desiderio che qualcuno faccia di questo libro un cartone animato, magari con i disegni della stessa Mastrocola, abile con i pennelli oltre che con la penna).
2) Amore/Odio. È la seconda coppia di opposti. Sono i sentimenti che Efesto prova nei confronti di Era, sua madre, la dea che non lo ha voluto, che lui va a conoscere nell’Olimpo ma che resta insensibile nei suoi confronti. Era non sa nulla di lui e non si interessa a lui (della sua indifferenza si potrebbe dire, estrapolando una frase del romanzo: “Gli dèi non sempre si accorgono di ciò che accade”). Il suo astio nei confronti del figlio mal riuscito è immenso. Ma Efesto, pur odiandola per quel che gli ha fatto, la ama, anche, disperatamente. E vuole sentirsi amato. Da questi sentimenti contrastanti nascono il suo tormento e la sua malinconia. E la sua umanità.
3) Bellezza/Bruttezza. È la terza coppia di opposti che vorrei ricordare, ma forse la prima che viene in mente. Efesto è brutto e sciancato, ma innamorato della bellezza, che egli cerca nell’amore (otterrà la mano di Afrodite, la più bella fra le dee; ma bellissime sono anche altre figure femminili alle quali si accosta, da Atena a Charis ad Aglaia all’incantevole automa femminile alla quale Paola Mastrocola dà un nome, Fiamma). Inoltre Efesto cerca la bellezza anche attraverso la sua opera di artista, attraverso la sua missione a proposito della quale l’autrice inserisce qua e là, come perle preziose, alcune considerazioni: Efesto era “capace di raffigurare le cose che non aveva mai visto”, perché “l’arte è costruire quel che non esiste” (parte II, cap. 10): una frase che sarebbe piaciuta a Paul Klee, quando diceva che l’arte non rende il visibile, ma rende visibile. E ancora: “L’immaginazione ha dei limiti, non arriva dove vorremmo… C’è bisogno di vedere, e poi di ricordare: solo così si inventa” (parte II, cap. 2). E’ il segreto del fare artistico, che si basa sulla professionalità, sulla pazienza, sull’osservazione e il ricordo: ossia su una procedura rigorosa e ordinata (come diceva Thomas Mann nel Doctor Faustus, l’arte consiste nel mettere ordine). Che la bellezza delle opere d’arte sia affidata a un artista deforme è uno dei paradossi del mito, ma risponde anche a una reale situazione di fatto della società antica, che ammirava enormemente le opere d’arte ma disprezzava gli artisti, posti nei ranghi più bassi della società e scarsamente considerati, perché vivevano nel chiuso delle loro officine, tra lo sporco della polvere di marmo e la fuliggine, svolgendo pesanti lavori manuali ed evitando le attività atletiche e la vita all’aperto dei giovani di buona famiglia. Il dissidio tra la stima per l’arte e la disistima per l’artista è ribadito, se avessimo dei dubbi, da Luciano di Samosata, che in uno dei suoi dialoghi racconta di quando da bambino sognò di essere strattonato da due bellissime donne, la Paideia (bella e profumata, affascinante e seducente) e l’Arte (non meno bella ma trasandata, scarmigliata e impolverata): entrambe vogliono indurlo a scegliere la propria professione, e alla fine ha la meglio la Paideia, che gli fa notare come le opere d’arte siano ammirate enormemente da tutti, ma come nessuno desideri essere come Fidia, Prassitele o Policleto, la cui vita e la cui posizione sociale, nonostante i loro capolavori, non sono assolutamente invidiabili (“Nessun giovane ben dotato desiderò diventare Fidia dopo aver visto a Pisa lo Zeus, o Policleto dopo aver visto l’Era di Argo […] Se un’opera dà piacere perché gradevole, non per questo ne discende che chi l’ha creata merita ammirazione”, scriveva anche Plutarco in Pericle, 2, 1). Del resto tutti i personaggi del mito che hanno qualcosa a che fare con l’opera d’arte sono velati da un’ombra cupa: come Prometeo, al quale nel romanzo Efesto è legato da una stretta amicizia; o Dedalo, che parimenti il dio va a trovare e che gli rivela i propri capolavori, ma anche i lati oscuri del proprio carattere. Perché, si può qui ricordare, il mito è una catena indissolubile e completa di storie, e toccare un personaggio (come nel caso di Efesto) implica lo scivolare in infinite altre narrazioni, tutte concatenate, che nel romanzo di Paola Mastrocola si conquistano il loro legittimo spazio: la creazione di Pandora, le nozze di Peleo e Teti, la guerra di Troia, la storia di Pigmalione, e poi i Dattili e i Ciclopi, Giasone, Dioniso…
E allora, tornando alla domanda iniziale: perché proprio Efesto?, la risposta non può essere che nell’umanità di questo personaggio, con tutte le contraddizioni che esso presenta. E con la visione disincantata del mondo e della sorte umana che esso suggerisce. Una visione disincantata e talvolta malinconicamente pessimista, come suggeriscono alcune osservazioni incastonate qua e là nel testo, che ci danno un brivido di commozione e qualche volta di timore: “C’è solo un momento giusto, e dura un soffio. Se lo manchi, se arrivi tardi o troppo presto, hai perso” (parte I, cap. 7). Gli antichi avrebbero parlato qui del kairòs, l’occasione, il momento opportuno, così sfuggente e impossibile da afferrare se non colto al volo. “Nello spazio di un’onda c’è ogni volta lo spettacolo di che cos’è la vita: tutto si gonfia e tutto si frange in nulla” (parte I, cap. 5). In questa immagine, dove torna il mare prediletto, ci sono, in sintesi, lo spazio e il tempo: lo spazio in cui Efesto si muove, fluido e immenso come il mare, e il tempo dell’esistenza che sembra dilatarsi ma poi si svuota come l’onda. Il tempo che non può prescindere dal passato, perché “il passato determina il futuro, è l’anello che non può essere rimosso: si romperebbe la catena che conduce avanti la nostra vita” (parte I, cap. 8). Il dio del fuoco contribuisce a rinsaldare quell’anello e a irrobustire la catena, confermando, se davvero ce ne fosse bisogno, che del passato, che lo vogliamo o meno, nonostante tutto abbiamo ancora bisogno.
In apertura, foto di Olio Officina
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