Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Il giornalismo è finito?

"Alberto Sinigaglia, uno dei nostri giornalisti più autorevoli, e che noi ammiriamo molto per il valore del suo lavoro, il 30 dicembre 2020 ha pubblicato l'articolo Il giornalismo è finito?, che non può essere ignorato". È quanto sostiene Daniela Marcheschi, direttrice di Corso Italia 7, che rilancia...

Alberto Sinigaglia

Il giornalismo è finito?

Con la misura che lo contraddistingue e con coraggio, Alberto Sinigaglia mette in risalto le inadempienze del giornalismo contemporaneo, le defezioni dalla deontologia professionale, che ne minano oggi la credibilità e l’efficacia.

Un “grido di dolore” che non consente alibi.

Qui aggiungiamo solo alcune considerazioni:

  • Il giornalismo è stato creato per essere “popolare”, ossia diffondere in trasversale informazione e comunicazione: cosa, quest’ultima, che implica sempre la mediazione, una rielaborazione intersoggettiva del vero per esprimerne la Verità dal punto di vista di chi scrive.

Solo a partire dalle tante Verità soggettive si può negoziare una Verità che riguardi il maggior numero possibile di esseri umani: perché la Verità è un cammino verso l’Assoluto, che è comunque impossibile raggiungere nella caduca vita umana.

Pertanto il giornalismo, come le arti, ha il compito di essere uno dei custodi della memoria individuale e collettiva, perché la Verità si avvicina nella riflessione critica e libera sul presente, nella ricostruzione della sua genesi nel passato e nello slancio verso il futuro.

Memoria, cultura, vero e Verità (ossia etica) devono rappresentare anche per il giornalismo i quattro punti cardinali di riferimento: altrimenti rischierà di morire della stessa indifferenza che sta coltivando.

  • Il giornalismo è un genere letterario, perché così è stato concepito fin dalla sua origine: a partire da Giuseppe Baretti fino ai letterati dell’Ottocento che aprirono la grande stagione del giornalismo moderno nel 1848.

Quindi il giornalismo, con le sue modalità di espressione in prosa, ha una grande responsabilità: condiziona la lingua e lo stile del romanzo o della narrazione cosiddetta letteraria, e non ne è solo condizionato.

Che il giornalismo contemporaneo non consideri più la lingua e lo stile, la scrittura, come un carico di pertinenza anche propria, sta contribuendo all’impoverimento della scrittura letteraria tout court nel nostro Paese.

  • La battaglia per un giornalismo che ritrovi la sua ragion d’essere è una delle battaglie democratiche e di rinnovamento profondo del Paese che oggi meritano di essere combattute: quella per ristabilire spesso il merito e non fare delle redazioni un luogo per “tirare a campare”, se non addirittura di clientele e debiti equivoci di carriera da ripagare a tempo dovuto.

Vale anche per molte amministrazioni pubbliche e private; ma se non si ridarà valore alla libertà, all’impegno, al merito, l’Italia affonderà nell’insignificanza.

Così avrà tradito sé stessa e i propri progenitori.

Daniela Marcheschi

Alberto Sinigaglia: Il giornalismo è finito?

Il giornalismo è finito? Lo dichiarano i manipolatori di opinione pubblica, che non tollerano intermediari tra i propri messaggi e i cittadini utenti, i cittadini acquirenti, i cittadini elettori. Lo conclamano gli idolatri delle tecnologie, per le quali passerebbe informazione quanto basta.

Non è vero, non basta. Il computer ha meravigliosamente cambiato la nostra vita, dandoci l’illusione di essere informati. Ma l’informazione in rete si confonde con una comunicazione continua, interessata o menzognera. Per questo non c’è mai stato tanto bisogno di giornalismo a cominciare dal digitale. Per questo il giornalismo pretende progetto. L’ha capito chi investe nei media e ha obiettivi ambiziosi. Ma il giornalismo è in grado di condividerli? Quello italiano non gode buona salute, affetto da un male di cui non si accorge e di cui comunque non parla. Il virus globale gli offre momenti di vitalità. Ma non andrà tutto bene alla fine del Covid-19 se oltre alla farmacia non si bada all’economia. Non andrà tutto bene per il nostro giornalismo se continua a trascurare sintomi diffusi e pervasivi.

Il giornalismo italiano non gode buona salute, affetto da un male di cui non si accorge e di cui comunque non parla

Primo sintomo, la perdita di qualità. Quotidiani, settimanali, giornali radio, telegiornali e giornali online alimentano un cimitero di errori storici, geografici, linguistici, sintattici, grammaticali. Titoli e didascalie con svarioni da scuola elementare. Enfasi e melodramma nella titolazione, nell’impaginazione, nella scrittura: il vecchio trucco dei giornali della sera, che poi ne morirono. Il declino si affaccia quando la panna montata prevale sull’esattezza, la fretta sulla verifica, la sciatteria sulla cura, la gerarchia della grafica sulla gerarchia della notizia.

Secondo sintomo, la perdita di futuro. Condizione psicologica di redazioni afflitte da problemi di organico, di orari, di compensi; da una crisi di sfiducia cui non rimediano avvincenti piani editoriali forieri di abbonamenti e di pubblicità. Come ragionare di formule nuove, di un giornalismo davvero adatto al web per linguaggio, sintesi, precisione, in giornali fossilizzati su formule stantie e intenti al taglio di teste e di compensi?

Terzo sintomo, la perdita di memoria. Il 2020 era il centenario della nascita di Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Gigi Ghirotti, Giovanni Giovannini, Carlo Laurenzi, Gabriella Poli, Gianni Rodari, Alfredo Todisco, Ugo Zatterin. Erano tra i protagonisti dell’età dell’oro sbocciata nel dopoguerra: alte tirature, nuove testate, le inchieste dell’Europeo e dell’Espresso, che smascherarono corruzione (“Capitale corrotta=nazione infetta”), tentati golpe e delitti di stato. Quanti li ricordano nelle redazioni? Quanti cronisti, redattori, inviati sanno qualcosa di quella scuola, dei suoi metodi, dei suoi risultati? Quanti nella pandemia, raccontando l’umanità di medici e infermieri, hanno pensato all’inchiesta estrema di Ghirotti che, malato di cancro, ricoverato in corsia, smascherò la condizione dei pazienti, vittime di un sistema incivile e avviò la sanità pubblica a una rivoluzione?

Non si tratta di manutenzione del ricordo, di nozionismo o infarinatura di storia. Ma di ripristinare nel web e in ogni altra forma di giornalismo l’essenziale di quanto portò al successo quei colleghi. Nipoti consapevoli dei padri fondatori, Albertini, Frassati, Bergamini, restando fedeli ai loro principi ideali e morali, seppero far bene quotidiani, settimanali, radio e televisione, inventare formule e linguaggi, passare dal piombo al computer, dalle copie caricate sui camion alla teletrasmissione. E progettare altri giornali. Abitarono il futuro, portandosi dietro valori e regole: chiara scrittura, rispetto del lettore, abitudine all’accertamento, alla verifica dei nomi, dei dati, delle fonti, uso corretto delle parole e dei toni, i fatti separati dalle opinioni. Semplicemente l’essenza del mestiere di informare.

Non soltanto dal logorio di quell’essenza fondamentale è dipeso il calo dei quotidiani dai 6 milioni 537.74 copie raggiunte nel 1990 ai 2 milioni 16 mila copie diffuse tra edicola e digitali nel settembre 2020. Ma soltanto da quell’essenza, dal ritrovato bagaglio etico e tecnico, possono cominciare la terapia per guarire e la strategia per ricrescere, rinsaldare il rapporto con i cittadini lettori-spettatori-ascoltatori-utenti digitali. I quali hanno sempre cercato di informarsi per sapere, conoscere, comprendere, scegliere, giudicare. Oggi lo fanno con ragioni più forti e urgenti per difendersi dalle finte notizie, dagli informatori dilettanti e dagli ingannatori di professione. Vogliono di più e trovano di meno. Quando ammetterà di aver fatto un po’ di passi indietro il giornalismo ne farà molti avanti.

[Alberto Sinigaglia, “Il giornalismo è finito?” ~ 30 dicembre 2020: per gentile concessione dell’«Huffington Post», diretto da Mattia Feltri]

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