Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Il lavoro non nobilita (più) nessuno

L'atroce morte di Satnam Singh è la spia di un paese alla deriva, di una cultura agonizzante, di una società in cui tutti siamo schiavi, come scrisse Simone Weil, di quella impietosa legge del profitto che pesa di un peso inumano su tutta la vita industriale.

David Fiesoli

Il lavoro non nobilita (più) nessuno

“Il lavoro nobilita l’uomo”? Che l’abbia detto Charles Darwin oppure no, oggi è una delle menzogne più radicate e atroci, dal momento che – come ha scritto Gottfried Benn – la storia impiega metodi che finiscono per ignorare chi è più attento e sveglio spiritualmente, privilegiando – nei suoi momenti cruciali – i microcefali: in un mondo votato al tramonto, tutto preso dal fare, la vita non costa nulla, e la coscienza, come la scienza di cui parlava Benn,  «può  continuare a gingillarsi con le sue scemenze specialistiche, godendo fino ai limiti di età di stipendi fissi, pensioni per vedove e orfani»[1].

Oggi, nemmeno di questo si può essere certi: privi di destino e ingannati costantemente da un’idea di futuro che non esiste (se è mai esistita), non siamo neanche liberi di smettere di lavorare una volta accumulati gli anni di lavoro utili per la pensione, perché dobbiamo aspettare 67 anni per averla, in tempo per pagarci la badante.

Eppure pensiamo ancora che il lavoro sia salvezza per quella manciata di soldi che non soltanto ci permette di mangiare e bere e divertirci da giovani, ma anche di accumulare per la vecchiaia, e nel mezzo del cammin, di acquistare auto possibilmente potenti, smartphone possibilmente aggiornati, laptop sempre nuovi, e tv cinematografiche per ubriacarci di quel che ci beviamo già dagli anni Cinquanta.

Ma il lavoro è – e diventa sempre più – sostanzialmente schiavitù: otto ore negli altoforni di Taranto o a infilare gancetti in una fabbrica della Brianza dovrebbero averlo già chiarito da tempo. La morte di una ragazza in fabbrica per un macchinario privo dei dispositivi di sicurezza in modo da produrre di più, o gli operai licenziati a frotte dalle multinazionali che acquistano aziende un tempo italiane e floride, dovrebbero averlo già mostrato.

E invece no, non basta. Non basta Satnam Singh, immigrato indiano a lavorare nei campi dell’Agro Pontino senza alcun contratto, che si trancia un braccio lavorando a nero: il suo “datore di lavoro” italiano lo abbandona davanti a casa senza chiamare soccorsi, e lui muore. Non bastano gli immigrati a raccogliere pomodori pagati pochi euro in nero per dieci o dodici ore nei campi, in modo che arrivino sulle nostre tavole a poco prezzo; non bastano i lavoratori cinesi che dormono nei laboratori tessili che magari prendono fuoco, per fare in modo che ci si possa vestire di tutto punto spendendo poco. Non bastano i raider in bicicletta che rischiano la vita per pochi euro sulle strade perché non ci si possa muovere dal divano a ingozzarsi di serie tv. E nemmeno le badanti ucraine, rumene o colombiane a pulire i nostri vecchi infermi.

Tutto ciò non basta ancora per accorgersi di quanto raffinato sia lo stratagemma di far diventare schiavisti gli schiavi, di quanto vero sia ancora oggi quel che già Simone Weil negli anni Trenta stigmatizzava, ovvero quanto l’impietosa legge del profitto pesi di un peso inumano su tutta la vita industriale: «Facendo del denaro il movente unico, o quasi, di tutti gli atti, la misura unica, o quasi, di tutte le cose, abbiamo diffuso ovunque il veleno dell’ineguaglianza»[2].

Oggi siamo tutti schiavi, sfruttati da quella tecnologia che ci illude di connetterci tutti e a tutto il mondo, e noi a usarla senza sosta, per ogni uso e consumo, grati che finalmente ce l’abbiano donata, come venisse dagli dèi: ma l’inganno è molteplice. Meta, la tecno-multinazionale di Zuckerberg vuole usare i nostri dati per nutrire l’Intelligenza Artificiale: gli americani se li mangia già, mentre l’Unione Europea, per ora, si è opposta, ma per quanto saremo salvi dallo schiavismo tecnologico che ci sfrutta biecamente per nutrire un’intelligenza artificiale che farà strame di lavori e lavoratori? Oggi la merce siamo noi, l’umanità tutta: e siamo merce che lavora gratis per miliardari che si arricchiscono sulla nostra povertà. In più la connessione di tutti con tutti non è vera, è un’isolante più efficace della plastica: niente più scossa elettrica, niente più freddo, solo costante torpore in costante temperatura.

Il lavoro, anche il migliore, anche quello che si inizia perché lo si è scelto, con entusiasmo e convinzione, si scontra sempre prima o poi con l’apparir del vero: ma oggi, non solo l’impiegato consapevole, il commerciante rispettabile, l’industriale illuminato o l’operaio in lotta, ma anche l’insegnate più motivato, il manager più ambizioso, il giornalista più battagliero, il medico più coscienzioso, lo scienziato più onesto, l’artista più talentuoso, il politico più convinto, dovrà rendersi conto che il lavoro non nobilita l’uomo, ma lo mette davanti al grugno della storia che assolda microcefali.

Quello che scriveva Simone Weil sulla condizione operaia nel 1936 si può estendere oggi a tutti: «Non c’è nulla che paralizzi il pensiero più del senso di inferiorità necessariamente imposto dai colpi quotidiani della povertà, della subordinazione, della dipendenza»[3]. La differenza è che  non ne siamo neanche consapevoli: da qui, la sostanziale indifferenza, la sensazione di impotenza,  l’indignazione di un giorno. Concime per qualunque potere.

C’è da chiedersi se siamo davvero usciti dalla Francia delle fabbriche disumane in cui volle lavorare Simone Weil,  dall’Inghilterra che le inventò mentre Emily Brontë tuonava nella sua brughiera, dal puritanesimo americano a cui chiuse la porta Emily Dickinson, dalla Germania che sparò a Kleist, rifiutò Hölderlin e fece inorridire gli dèi, e dall’Italia che chiuse Campana in manicomio, riempì di barbiturici Cesare Pavese e abbandonò Remo Pagnanelli al gas di un tubo di scarico. Ci siamo veramente affrancati, risollevati, o non siamo piuttosto tornati indietro, dopo le conquiste sociali degli anni Settanta?

Bisogna essere consapevoli, guardando a quei poeti, che l’alta statura spirituale – come ben vide il tedesco Benn nel baratro della Germania  – non dà impronta alla classe, piuttosto è sospetta. Pasolini, illudendosi che la poesia potesse essere possibile arma di riscatto per le classi proletarie, di quel sospetto è morto. Ma gli Ateniesi prigionieri nelle terribili cave di Siracusa, per non soccombere, leggevano a voce alta Euripide. I prigionieri nei gulag sovietici si leggevano l’un l’altro le poesie di Pasternak.  Una donna che stava in fila da ore davanti al carcere di Leningrado insieme ad anna Achmatova, nella speranza di vedere il figlio imprigionato dal regime, la riconobbe e le chiese: – Ma lei questo può descriverlo? – Sì, _ rispose Anna Achmatova, e un sorriso si aprì sul volto di quella donna. Cristina Campo mutua da Hugo von Hoffmashtal il racconto di quel cinese che leggeva un libro, nella Cina del 1899, mentre attendeva il suo turno per la ghigliottina, e al carceriere tedesco stupefatto per la sua impassibilità disse: – Ogni rigo letto è profitto. Chiosa la Campo: «in un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro»[4].

In un panorama iper-tecnologico che condanna la poesia a poche frasi consolanti che spariscono nello scorrere di una pagina web, non è per niente facile individuare quella inevitabile, destinata a superare lo spazio e il tempo, per nulla consolatoria. È necessario andare contro quel conformismo intellettuale causa di un indebolimento talmente radicato da non poter essere curato se non con le verità più amare in luogo delle menzogne più anestetizzanti, recuperando l’idea di responsabilità etica ed estetica della scrittura e della poesia, dello scrittore, del filosofo e del poeta[5]. Ma, come scrisse Simone Weil, «quel che rende tanto difficile comunicare al popolo la nostra cultura non è già la sua elevatezza, ma la sua bassezza. Si rimedia in modo assai strano, abbassandola ancora di più, prima di offrirgliela in frantumi»[6].

[1]  Gottfried Benn, Lo smalto sul nulla, a cura di L. Zagari, Milano, Adelphi, 2023, p. 156.
[2]  Simone Weil,  La prima radice, trad. di F. Fortini, Milano, SE,  1990, p. 26.
[3]  Simone Weil, La condizione operaia, trad. di F. Fortini, Milano, SE, 1994, p. 145.
[4]  Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, p. 73.
[5]  Cfr. Daniela Marcheschi, Il sogno della letteratura. Luoghi, maestri, tradizioni, Roma, Gaffi, 2012.
[6]  Simone Weil, La prima radice, cit. p. 68.

In apertura, foto di Olio Officina©

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