Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Il senso del comico e il gusto del paradosso in Eugène Ionesco
Nella Tana della “Cantatrice Chauve”
Quando si arriva al Teatro della Huchette, a Parigi, può succedere che a vendere i biglietti si trovi, nel botteghino, proprio Gonzague Phélip: romanziere, drammaturgo, attore, amministratore «perché bisogna vivere», autore dell’appassionante Le fabuleux roman du Théâtre de la Huchette (Paris, Gallimard, 2007). Ed è proprio nelle sue pagine che compare il binomio Huchette-Ionesco: «Una delle più piccole sale di Parigi e una delle più conosciute al mondo. Il segreto della sua notorietà, che va da Tokyo a San Francisco? Due pièces di Eugène Ionesco in cartellone da mezzo secolo, La cantatrice chauve e La leçon, che hanno attirato più di un milione e mezzo di spettatori». Già lo stesso Ionesco aveva scritto riferendosi al teatro: «Un grande successo in un piccolo teatro è molto meglio che un piccolo successo in un grande teatro e ancor meglio che un piccolo successo in un piccolo teatro».
Fondato nel 1948, in un’epoca in cui i teatri con capienza ridotta – molti sorti nel Quartiere latino di Parigi -, erano quelli che consentivano di vivere un’esperienza distinta, molto più a contatto con gli attori, il teatro della Huchette ha però la particolarità di presentare dal 1957, quasi esclusivamente, le opere dello scrittore rumeno trapiantato in Francia, Eugène Ionesco: queste sono considerate come lavori di anti-teatro e pezzi fondamentali di quel teatro dell’assurdo, movimento nato in Francia a metà del XX secolo, che vide in Samuel Beckett uno dei suoi massimi esponenti. Qui, in rue de la Huchette al numero 23, tutto è rimasto intatto.
Niente di mutato da quando, nel 1963, Marino Moretti scriveva ad Aldo Palazzeschi: «Comédie, il Vieux Colombier e la ‘bizzarra’ Huchette – bizzarra ma anche un po’ sudicia – formano un terzetto teatrale di simpatica pariginità». Seguito, pochi mesi dopo, da Ennio Flaiano che, così, lo descrive sull’«Europeo»: «Il teatro ha sempre lo stesso bugigattolo che serve da atrio e da botteghino, la sala è sempre quella, nemmeno ripulita, storta come una catacomba, forse un ex magazzino o un ex garage. Il conto delle poltrone è presto fatto: sono novanta, compreso gli strapuntini. […] Quando, all’inizio dello spettacolo, si spengono le luci nella sala si è presi dallo sgomento che si tratti di un guasto e che forse non troveremo l’uscita dalla tana. Eppure in questo teatro riprovo sempre la stessa gioia infantile del teatro: un conforto indicibile per la finzione che si sta preparando, per la vittoria dello spirito e dell’intelligenza sulla debolezza delle circostanze, sul vuoto, sul nulla».
La stessa sensazione che si prova oggi assistendo alla Cantatrice chauve, di cui colpisce immediatamente l’aspetto linguistico. Ionesco deforma le parole, le mutila, le concerta nei più bizzarri e gratuiti giochi di rime e di assonanze, con risultati francamente comici. Tra gli autori della cosiddetta avanguardia francese Ionesco è, in effetti, quello più dotato di senso comico e di gusto paradossale. Senza tuttavia divenire un semplice farceur. La sua è, al contrario, una comicità infinitamente amara. I suoi personaggi sono opachi e meschini, «intrisi di tutte le risciacquature della società», per dirla con Gian Renzo Morteo, traduttore per Einaudi e protagonista della cultura teatrale torinese nel secondo Novecento, nonché docente universitario. È il ritratto di un’umanità alla ricerca del senso e del perché della vita. Seguita Morteo: «I fantocci della Cantatrice calva sono le conchiglie vuote che le onde trascinano. Schemi senza ormai contenuto in una società che continua a portarsi appresso le ampolle di essenze irrimediabilmente evaporate». Ma l’antidoto a questo vuoto è che nel salotto borghese, dove si incontrano gli Smith, i Martin, la cameriera e il capitano dei pompieri, la comicità vince. È questo equilibrio tra comico e tragico a rendere sempre attuale la pièce e a farci ritrovare insieme a Flaiano «la stessa gioia infantile del teatro: conforto indicibile […] per la vittoria dello spirito e dell’intelligenza sulla debolezza delle circostanze, sul vuoto, sul nulla».
Le foto sono di Mariapia Frigerio
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