Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
L’arte di creare canzoni dalle emozioni che ci dà la vita
Oltre le quinte… Intervista con Don Backy. Cantante, attore, scrittore, continua a lavorare “in silenzio”, scrivendo e componendo canzoni, lontano da mode e ideologie, con un vasto seguito di pubblico che si riconosce in lui. “Ascoltando il mio vasto repertorio - ci ha confidato - non si troverà mai una canzone banale, perché nelle oltre 500 canzoni che ho scritto in nessuna c’è lo stesso tema e tutte trattano tematiche diverse”
Si pubblica qui, su «Corso Italia 7», l’intervista uscita, in versione ridotta, su «Avvenire» del 18 febbraio 2021.
INTERVISTA A DON BACKY
Poliedrico, conversatore instancabile ed entusiasta, con cui ripercorrere un’Italia che sta scomparendo, l’Italia della provincia così ricca di personalità spesso ignorate: questo è Don Backy, il cantante, attore, scrittore che “in silenzio” continua a lavorare scrivendo e componendo canzoni, lontano da mode e ideologie, seguito da un vasto pubblico che si riconosce in lui e da intellettuali impegnati che, nello stesso modo, lo amano. Autore senza “categorie” ci accompagna in un viaggio tra cinema e teatro, ricco di incontri appassionanti, di avventure e disavventure.
In Pane e tulipani il regista Soldini la scelse per la scena della balera. Perché non optare per un cantautore più impegnato, più vicino alle sue idee?
Negli anni ’60 avevo il titolo di «voce delle balere»: un complimento per quell’epoca.
Poi le mie canzoni piacevano sia a Silvio Soldini che a Licia Maglietta, la protagonista, che vollero, con mia grande gioia, che fossi proprio io a cantare Frasi d’amore.
Il titolo vero della canzone avrebbe dovuto essere Aprile, perché parte del mio album Le quattro stagioni di Don Backy. E qui vanto una “primogenitura”: quella di aver fatto il primo album in Italia con 12 canzoni nuove.
In Inghilterra lo facevano tutti, ma in Italia si prendevano dischi vecchi, già incisi, si riunivano in LP per sfruttare ancora il successo di quelle canzoni. Il mio album fu una novità anche perché è un’unica storia legata all’umore che ogni mese suscita nel protagonista e ciascuna di queste canzoni è legata da un brano di tipo sinfonico ed è quindi come se fosse una canzone unica, perché non c’è uno stacco tra una canzone e l’altra, ma c’è un legame orchestrale. Non funzionò, ma oggi è uno degli album più ricercati dai collezionisti di vinili.
Così questa canzone ha due titoli: nell’album si intitola Aprile, nel 45 giri Frasi d’amore.
Molti sostengono che i più grandi poeti del ‘900 siano i cantautori. È d’accordo?
In parte sì. Cantautore è chi riesce a comunicare la sua interiorità, ma uso questo temine malvolentieri perché, a differenza di molti, non do messaggi per persone colte, ma come Modugno che spazia in infiniti luoghi dell’anima, anch’io entro in sintonia con le persone con tematiche in cui tutti si riconoscono, anche i meno colti. Preferisco definirmi un “cantainventore”, perché creo canzoni dalle emozioni che mi dà la vita.
Che cosa non le piace della definizione “cantautore”?
Il cantautore – per come comunemente lo si intende – è colui che segue e mantiene per tutta la vita una stessa idea, è il portavoce per eccellenza di un potere e scrive tutte le sue canzoni seguendo un’ideologia precisa.
Io no, io non c’entro niente con le ideologie. Se ho sentito qualcuno come maestro questo è stato sicuramente Modugno che, come me, scriveva testi e musica e che, salvo casi rari, non era mai banale. Anche io ho scritto Canzone, tipica canzone d’amore con capelli da accarezzare, labbra da baciare, ma non sciocca, in cui si sono ritrovate moltissime persone che hanno comprato il disco, perché si sono dette «questa avrei potuto scriverla io».Penso di aver venduto tanti dischi per la mia capacità di entrare in sintonia con la gente. La differenza con De Gregori, che pure vende molti dischi, è che lui li vende a un “settore” di persone, mentre, in uno strato sociale meno acculturato non è conosciuto. Se invece si chiede alle stesse persone poco colte di cantare una canzone di Don Backy almeno L’immensità te la cantano.
Se torniamo a cosa penso di essere io, di certo sono un cantautore, basterebbe a dimostrarlo l’etimologia della parola stessa. Ascoltando il mio vasto repertorio non si troverà mai una canzone banale, perché nelle oltre 500 canzoni che ho scritto in nessuna c’è lo stesso tema e tutte trattano tematiche diverse. Basterebbero come esempio L’immensità e Sognando: due testi completamente diversi. Ho scelto di esemplificare con i due poli estremi, ma ci sono Regina, Ali, che pochi conoscono, Madre, che parla di una madre di un’altra epoca, per questo non voglio identificarmi con un certo tipo di cantautori, perché, citando me stesso «respiro le canzoni dalle emozioni che mi dàla vita».
Non si considera un cantautore colto, ma i suoi testi evocano letteratura. Penso a Sognando che rimanda alla Merini e a Regina dove cita Paoli.
Sono anche il primo ad essermi autocitato in Samba. Riguardo a Regina, è una canzone che io amo infinitamente. Mina quando fece, credo, il penultimo disco con Celentano, mi telefonò perché la voleva incidere con Adriano, chiedendomi alcuni cambiamenti. Le risposi che ero scettico sul fatto che la moglie di Adriano avrebbe dato il nulla osta, lui forse… [si ricorda l’annosa querelle con Celentano, NdC]. Feci inoltre presente a Mina che, secondo me, non era una canzone adatta a lui che non ha la stessa estensione vocale mia. Mina fu irremovibile, mi richiese alcuni cambiamenti, dando per scontato che sarebbe stata in grado di risolvere tutto. Le dissi che se l’avessero incisa avrei toccato il cielo con un dito e le feci le modifiche richieste. Poi mi richiamò per un ulteriore cambiamento. Ma Adriano (o la moglie) dissero di no. Stetti molto male per essermi prestato a quel gioco e mi dispiacque di aver oltraggiato la mia Regina.
Tra poco inizierà il Festival di Sanremo. C’è qualcosa che vorrebbe dire?
Sì, che dal ’72 non lo guardo. Decisi che non l’avrei più seguito finché non avessero accettato un mio brano. Nel ‘72 mi rifiutarono Nostalgia, nel ’73 Sognando, canzone impegnata sull’emarginazione, poi Brinderò. Credo ci sia una volontà precisa di non accettare le mie canzoni, di non volermi più a Sanremo. Sarebbe bello istituissero una serata per cantanti o gruppi di altre generazioni, come Ornella Vanoni, Gino Paoli, I Camaleonti, Bobby Solo. Oggi invece scelgono cantanti rap più per il loro atteggiamento da riti voodoo d’importazione che non per le canzoni. Hanno cambiato la musica leggera: noi (Dalla, Battisti, Baglioni) siamo melodici, mediterranei.
Nel suo paese, Santa Croce sull’Arno, c’è la rotonda L’immensità. Che effetto fa un simile riconoscimento?
L’ho apprezzato molto e mi ha emozionato il fatto che la sindaca Giulia Deidda lo abbia realizzato su consiglio dell’amico scomparso Francesco Conte, con l’avvallo di Alberto Pozzolini, per me un punto di riferimento.
Alberto Pozzolini, santacrocese, campione indiscusso di Scommettiamo?con Mike Bongiorno, capo ufficio stampa al Piccolo di Milano e alla Pirelli, redattore dell’Enciclopedia Rizzoli-Larousse, che parte ha avuto nella sua vita?
Era un uomo coltissimo, eccezionale. Prima di pubblicare i miei libri glieli mandavo perché sapeva darmi i giusti consigli. Fu il primo a farmi salire sul palcoscenico, al Teatro Verdi di S. Croce, quando fece la regia di Sotto in ponti di New York di Maxwell Anderson, ispirato alla vicenda di Sacco e Vanzetti. Alberto chiese a noi ragazzi del paese di procuragli delle canne per una scena che si sarebbe svolta lungo l’Hudson. Noi gliene portammo un fascio enorme prese… nel canneto lungo l’Arno. Lì mi propose una parte che mi corrispondeva, visto che facevo i pesi e indossavo i jeans, quella del teddy boy. In scena non facevo niente, solo dei gesti, ma gli devo anche questo. Lo spettacolo rimase in cartellone pochi giorni, perché S. Croce è un paese di operai, che non amano andare a teatro. Poi siamo diventati amici. Un giorno partì per Milano. Diventò aiuto regista di Giorgio Strehler. Dopo un anno anche io fui chiamato al Clan di Celentano e lì ci ritrovammo.
È rimasto legato a S. Croce sull’Arno?
Molto. Ho mia sorella, la sua famiglia, amici con cui ci s’incontra al bar Renata che oggi non ha più questo nome, ma il bar, dove un tempo arrivava l’autobus, è uno storico luogo d’incontro e noi ne perpetuiamo il vecchio nome.
Sua moglie è romana e lei ora vive a Roma. Come si trova?
Io sto bene dappertutto. Non amo la vita pubblica, vivo nel mio mondo casalingo, ho il mio studio, dove c’è tutto il mio passato e quello che creo nel presente. Non sento la necessità di andare in giro.
Roma negli anni ’60 era una città fantastica che Fellini ha raccontato per quello che era.
E la Grande bellezza di Paolo Sorrentino?
Un film che non mi è piaciuto, perché è un rifacimento della Dolce vita. A Pozzolini invece era piaciuta, come a molti, e mi scontrai con lui. La trovo una copia malfatta della Dolce vita felliniana, in cui c’era poesia e dove si respirava un’epoca. In Sorrentino non c’è anima e il film è noiosissimo.
Passiamo al Don Backy scrittore: il suo primo romanzo si intitola Io che miro il tondo.
Uscì con Feltrinelli nel ’67, lo scelse l’editor della casa editrice, ma fu molto apprezzato dallo stesso Giangiacomo.
… e al lettore.
Le mie sono letture varie. Tra i libri che ho amato ci sono Memorie di Adriano della Yourcenar, Huckleberry Finn di Twain, L’amore ai tempi del colera di Marquez. Ho letto tutto Kafka e ho amato moltissimo La metamorfosi, leggo poi il mio amico di Firenze, Marco Vichi, e il suo ispettore Franco Bordelli.
Il teatro dopo l’esperienza di S. Croce?
Ho fatto due commedie musicali, nell’80 e nell’81. Teomedio, ambientata nel 312 d. C., storia di un piccolo delinquente della suburra, che finisce, pur essendo un assassino, per diventare santo, per interesse della chiesa nascente. Avevo scritto tutte le canzoni oltre ad esserne il protagonista. Subito dopo feci, per la Compagnia della Tosse di Genova, con la regia di Tonino Conte e le scenografie di Emanuele Luzzati, Marco Polo, sempre con musiche e canzoni mie. Luzzati fece un bellissimo manifesto che mi regalò con tanto di autografo.
Inevitabile, visto che ha parlato di Luzzati, non chiederle di Paolo Poli.
Ci eravamo conosciuti e una sera, assistendo a un suo spettacolo, mi fece diventare rosso, quando dal palcoscenico, cantando «Vieni, pesciolino mio diletto, vieni», con una canna da pesca cercò di “pescarmi”.
Per me è stato un Maestro.
Era un Maestro!
Parliamo ora di cinema, in cui è stato diretto da registi del calibro di Carlo Lizzani.
I sette fratelli Cervi, del ’68, con la regia di Gianni Puccini, è stato il primo film importante che ho fatto. Poi con Carlo Lizzani feci Banditi a Milano, sulla banda Cavallero, in cui interpretavo Sante Notarnicolae Barbagia e con Gian Luigi Polidori Satyricon.
Internet le attribuisce anche una parte in La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci.
Ora le racconto. Mi chiamò Bertolucci che mi fece un provino, mi diede consigli e mi confermò. Firmai un contratto in cui mi si chiedeva di scrivere anche una canzone che avrebbe cantato il mio personaggio di casellante. Lavorai molto alla canzone. Ogni volta che gliela portavo – almeno quattro o cinque volte – lui mi chiedeva modifiche che io puntualmente facevo. Alla fine sembrava gli fosse piaciuta.
Un giorno leggo che la troupe era a Parma per girare. Telefono alla produzione per sapere quando li avrei dovuti raggiungere e mi dicono di non andare perché Bernardo aveva tagliato la parte. Mi avevano tenuto in ballo per tre, quattro mesi e non c’era più la parte! E io avevo rinunciato alle serate, al lavoro, avevo perso tempo per scrivere la canzone e per studiare la parte. Quando lanciarono il film con le locandine, io risultavo uno dei personaggi. Inoltre avevo già rilasciato delle interviste. Avevo un contratto e quindi ero certo che avrei fatto il film. Andai su molti settimanali con titoli come «Il rilancio di Don Backy nel cinema con Bertolucci». «Ma Bertolucci è Bertolucci», mi dicono al telefono. «Ah, sì? Se Bertolucci è Bertolucci, io sono Don Backy». Ho fatto causa alla produzione e l’ho vinta. Hanno pagato ben 25 milioni.
Per due volte è stato compagno di lavoro di Gian Maria Volonté. Com’era?
Siamo stati molto amici durante la lavorazione dei due film del ’68 (I 7 fratelli Cervi e Banditi a Milano). Era una persona molto schiva e chiusa in sé stessa, ma è stato un compagnone finché siamo stati insieme, amici e colleghi.
In seguito è rimasta l’amicizia?
No, non è rimasta. Un giorno ero in auto a Roma e mi son trovato casualmente sul Lungotevere in un ingorgo. Di fianco a me si era fermato Gian Maria, pure lui in auto. Ci siamo guardati e l’ho salutato con un affettuoso: «Gian Maria!». Lui mi guardò come se fossi uno che scendeva dalla luna, senza nessun tipo di reazione né d’interesse e io rimasi come uno scemo. Poi mise in moto e se ne andò via. Non lo vedevo da quando avevamo girato l’ultimo film. E pensare che era stato proprio lui, quando ancora stavamo girando il film, a chiedermi di accompagnarlo al Piccolo per vedere il Marat-Sade in cui recitava Carla [Carla Gravina, attrice, politica italiana, per molti anni compagna di Gian Maria Volonté, NdC], perché non ci voleva andare da solo.
Non solo accettai di accompagnarlo, ma lo convinsi a non presentarsi al debutto della sua donna al Piccolo con l’eskimo. Ricordo che andammo insieme alla Rinascente per comprare un vestito nero e la sera a vedere il Marat-Sade, per me lavoro cervellotico, visto che non avevo grande esperienza di teatro. A metà spettacolo venne una maschera a cercarmi: «C’è una telefonata urgente da Detto Mariano [arrangiatore del Clan di Celentano, NdC]».
Non può esimersi, a questo punto, di entrare nella nota querelle con il Clan.
Al telefono Detto Mariano mi disse che dovevo andare immediatamente al Clan (erano le 22,30 e il Marat-Sade andava ancora avanti al Piccolo…). Ornella Vanoni voleva in tutti i modi la mia canzone Casa Bianca con cui presentarsi al Festival di Sanremo e, se non gliel’avessimo data, il patron del Festival dell’epoca, Gianni Ravera, avrebbe buttato fuori anche Canzone che avrei dovuto cantare io in coppia con Milva.
Feci presente che non potevo darla alla Vanoni perché, in quanto compositore, potevo presentare solo una canzone.
Qui la vicenda diventa farraginosa. Per Casa Bianca il Clan chiamò un signore [Eligio La Valle, NdC] per firmare la canzone sul regolamento di Sanremo, come se fosse sua. Io potevo risultare paroliere, ma non autore della musica. Era un modo perché due mie canzoni potessero entrare nel concorso sanremese.
Promisi di fare un macello se avessero fatto una cosa simile.
Ma il Clan rimase compatto. Tornato al Piccolo, Gian Maria mi chiese come mai mi fossi allontanato. Gli raccontai tutto e lui mi consigliò di mandarli a quel paese, sostenendo che mi stessero prendendo in giro.
Il giorno dopo andai dall’avvocato e successe il finimondo.
Io ho perduto la canzone. La canzone è rimasta mia solo per le parole e probabilmente La Valle approfittò dei dissapori tra me e il Clan per dichiarare la canzone sua.
Nel ’68 aveva circa 30 anni. Dov’era in quel periodo?
Ero a Milano dove il ’68 si sentì molto. C’era Capanna che vedevo tutti i giorni perché io andavo a mangiare, quando non c’era la mia futura moglie che avrei sposato il 15 dicembre di quell’anno, in un ristorante di fronte all’Università Statale. Lì davanti c’era sempre subbuglio, ma anche in corso Europa, dove era la sede del Clan, c’erano sempre manifestazioni, scontri con la polizia, cortei. Avveniva tutto lì.
Lo ha vissuto come un periodo positivo o negativo?
Io l’ho vissuto come un periodo negativo, con una rivoluzione che non ha portato niente di buono. Non mi pare ci siano state conquiste significative in seguito a quello che è successo, se non episodi violenti. Il ’68 fu per me soltanto drammatico come quando esplose la bomba in piazza Fontana. Ero in Galleria del Corso con Gian Maria Volonté. Ci fu un botto tremendo e una donna che correva verso di noi urlando «È scoppiata una caldaia». Poi auto della polizia, gente che correva, ambulanze… Era il 12 di dicembre ’69 e stavo rientrando a S. Croce per le feste.
È vero che dipingeva?
Sì, ma per me. Mai fatto mostre. Ho sempre il desiderio di sperimentare. Amo i fiamminghi con i loro paesaggi nevosi, con i loro omini sul ghiaccio.
Il suo ultimo album è Pianeta donna. Vorrei sapere come vede le donne e il femminismo.
Ho un’alta concezione della donna, perché ha un intelletto superiore e lo si vede dai posti importanti che occupa in tutti i campi. Non lo dico per far bella figura, ma perché lo vedo anche in mia moglie. Nel periodo del femminismo becero la donna perse, secondo me, molti punti.
Non la amo spavalda, aggressiva, amo che conservi la sua femminilità.
Domanda letteraria: tra i toscani celebri del passato si sente più vicino a Dante, Boccaccio o Machiavelli?
Ho il “mio” Inferno, una graphic novel con disegni e testi miei e voce di Alessandro De Gerardis, di Isoradio. Un lavoro di due anni che adesso vorrei proporre in Rai.
C’è un lavoro linguistico notevole.
Lo dico alla fine: mi è servita per imparare la grammatica italiana e a verseggiare. In ogni caso Dante è Dante.
Dante… come non chiederle di Benigni?
Non amo Benigni, anche se non l’ho conosciuto personalmente. Di lui apprezzo il comico istintivo: bravissimo in Johnny Stecchino e nel Piccolo diavolo dalla comicità surreale. Non l’ho amato in Pinocchio perché ha distrutto il mio sogno di bambino, quello che invece ritrovavo nei film di Disney e di Comencini. È un tipo legnoso che ha poco da dare. Neppure nel Geppetto del film di Garrone mi è piaciuto. Benigni è un fallimento ogni volta che tocca Pinocchio.
Gli scrissi persino una lettera aperta, quando scrivevo sul «Radiocorriere TV», non glielo mandai a dire: glielo scrissi proprio.
E lui?
Mai risposto, figuriamoci.
Che ne pensa dei nuovi comici e della “scuola” toscana?
Non trovo grandi attori oggi. E non capisco, tra i comici, il successo di Zalone. Non ho mai riso ai suoi film, mentre Benigni, nella scena di Johnny Stecchino, la scena della banana, mi ha fatto morire.
Giorgio Panariello mi piace in alcuni sketch e mi diverte come presentatore. Leonardo Pieraccioni non mi ha mai convinto del tutto, specie in alcuni suoi film che sono un collage di barzellette. Bravissima, invece, Athina Cenci.
La nuova comicità, però, non mi convince anche se mi piace molto Enrico Brignano in teatro.
Io ho conosciuto un attore come Totò, [girando Il monaco di Monza, per cui compose anche la canzone La Carità, NdC] dotato di una vis comica surreale, unica e Totò per me resta il non plus ultra.
Don Backy, suoi programmi per il futuro?
Adesso sto pubblicando, con un piccolo editore romano, una serie di cinque libri legati da un’unica vicenda, con miei disegni. Due cugini toscani, per precisione fiorentini, ereditano una grossa cifra da uno zio che muore, che ha un negozio d’orafo in via de’ Cerretani, a un passo dal Duomo di Firenze. Lo zio li lascia eredi di tutto, perché non ci sono altri parenti, e loro, tipi diversissimi, sono due squattrinati. Uno è un hippie sui venticinque anni, l’altro ha un aplomb inglese, infatti lo chiamano “conte”. Il suo nome è Narciso, ed è ispirato a Narciso Parigi [cantante, attore e collezionista fiorentino, NdC] con cui, a suo tempo, avremmo voluto fare qualcosa nel cinema. Il “conte Ciso” frequenta l’ambiente bene di Firenze: baroni, conti, principi, gente altolocata. Però non ha una lira, va solo alle cene in cui viene invitato. L’altro, l’hippie, ama scrivere canzoni, libri, ma ancora non è riuscito a scrivere il suo capolavoro. L’eredità dello zio è nascosta in cinque indovinelli, che rimandano ognuno a una nota musicale, e che sono collocati in cinque città diverse. Partono per Venezia, la prima tappa, e gli capitano avventure di tutti i tipi, ma loro non capiscono se sono ostacoli messi in piedi dallo zio burlone o se siano effettivamente parte della realtà.
Adesso ho consegnato le bozze per il secondo volume, che si svolge a Parigi e che offrirà un’altra sorta di palcoscenico. I due cugini troveranno le cinque note tra avventure varie. Sono libri che vogliono far conoscere varie città, con luoghi e strade vere. Trovate le cinque note, i due cugini le porteranno al notaio che è lo stesso che aveva fornito loro, di volta in volta, gli indovinelli. Suonate le cinque note davanti a una cassaforte che ha come apertura una cellula foto-musicale fatta installare apposta dallo zio, questa si aprirà e dentro ci sarà l’eredità. In che cosa consiste? Questo non lo rivelo.
Le foto sono di Mariapia Frigerio
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