Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

L’intersezione feconda

Ricordando Giuseppe Pontiggia / 7. "Non avevo mai incontrato uno scrittore tanto consapevole dei propri fini e dei propri mezzi e al tempo stesso tanto pronto a mettersi in discussione. Ogni osservazione, da chiunque provenisse, meritava attenzione, non foss’altro che per il tempo necessario a liquidarla con un sorriso liberatorio, per passare oltre". La testimonianza della senior editor della narrativa Bompiani, già redatrrice di Mondadori

Giulia Ichino

L’intersezione feconda

Nel giugno 2008, a cinque anni dalla morte del narratore e saggista Giuseppe Pontiggia, Daniela Marcheschi e Luigi Caricato raccolsero una serie di testimonianze intorno alla sua figura. Ora che di anni ne sono trascorsi diciotto, riproponiamo tali ricordi su “Corso Italia 7”

Era la primavera del 2001, avevo appena compiuto ventitré anni e da pochi mesi lavoravo alla Mondadori come redattrice, sotto la guida di Renata Colorni e Antonio Franchini.

Ogni mattina attraversavo la città fino a Segrate con l’animo tremebondo e gli occhi scintillanti – simili in tutto a quelli dell’impiegato Carabba della Morte in banca nei primi giorni di lavoro, sebbene senza dubbio l’immediato destino lavorativo fosse con me ben più generoso.

Una di quelle mattine fui convocata con gran solennità nell’ufficio di Renata, e mi fu annunciato il privilegio – e l’enorme responsabilità – di curare la redazione del nuovo libro di Giuseppe Pontiggia, reduce dal grande successo di Nati due volte e circondato da un’ammirazione e soprattutto da un affetto che, lo confesso, è raro percepire per un autore fra le pareti di una casa editrice – luogo dove gli scrittori li si cerca, cura, ama ma anche li si dissacra come a cercare un distacco, una sponda rispetto alle loro profondità e stranezze.

Ecco: fu così che, piena di emozione e convinta di trovarmi di fronte a un Grande infinitamente superiore alle umane debolezze, poco tempo dopo presi un taxi, tutta elegante, per trovarmi sotto la casa di via Farneti, dove il Maestro abitava: lo avrei conosciuto, avrei cercato di rendermi utile per dare forma alla raccolta di scritti, pensieri, aforismi destinata a prendere il titolo di Prima persona.

Attraversata l’ombra dell’androne, salite le scale scure, con Renata e Antonio fui accolta nell’appartamento del secondo piano, anch’esso avvolto da una fresca semioscurità (questo, scoprii in seguito, anche per proteggere gli amati libri e le preziose incisioni che coprivano le pareti). E lì, luminoso più del sole che annunciava l’estate dietro le nuvole di quel giorno ancora piovoso, caldo come solo l’amicizia può esserlo, trovai il sorriso di Peppo – anzi, del Peppo –, che, insieme a quello vibrante di Lucia, mi diede immediatamente la percezione di trovarmi in una dimensione unica, e inattesa.

Sotto quello sguardo serissimo e divertito, serio senza malinconia, sentii ridicoli i miei abiti eleganti, totalmente vani e quasi impensabili gli orpelli della conversazione formale, e grande invece la reciproca curiosità.

Fu un primo colloquio affabile e allegro, tutti affondati nei grandi divani in mezzo ai libri. E fu solo il primo, perché altri ne seguirono, lavorando con Peppo e Lucia sulle bozze seduti al tavolo di cucina, mentre Andrea passava lanciando al padre le sue battute folgoranti, la flemmatica colf eritrea metteva a posto la spesa, il caffè gorgogliava sul fornello e Peppo ogni tanto alzava gli occhi a commentare sornione la vita del microcosmo fra i caseggiati al di là della finestra aperta.

Fu certo questa familiarità avvolgente a colpirmi, e fu prima ancora la enorme capacità di attenzione e di ascolto a me rivolta a darmi la misura incommensurabile dell’umanità di Peppo: mi interrogava, mi lasciava parlare, si interessava sul serio al mio piccolo percorso di vita, ai miei desideri e progetti, in un modo che mai mi era accaduto, specie con una persona tanto più anziana – specie con uno scrittore…

Ma la cosa più straordinaria fu scoprire che tutto questo nasceva da una profonda onestà – quell’onestà innanzitutto con se stessi che deriva dal conoscere l’infinita fallibilità, e limitatezza, e ambiguità, anche, dell’animo umano: che non negano, anzi generano a volte nel modo più sublime, la sua bellezza.

Un sentimento “scorretto”, un gesto contraddittorio, un corpo che non risponde ai desideri e agli intenti, una frase squilibrata: tutto, passato al vaglio dell’ironia buona del Peppo, ritrovava un senso e il suo giusto peso.

L’umiltà con cui vagliava le mie timide, ma forse a tratti ostinate proposte di correzione, la fatica felice con cui – spesso grazie all’aiuto vigile di Lucia – trovava la parola mancante, con cui affinava la lama dei suoi ragionamenti, fecero sì che le pagine su cui lavoravamo quell’estate trovassero lo splendore quieto che nasce dall’intelligenza delle umane debolezze e dalla capacità di sorridere della loro imperfetta sintassi – concedendole così l’incantesimo di tramutarsi sulla carta in uno stile impeccabilmente increspato.

Non avevo mai incontrato uno scrittore tanto consapevole dei propri fini e dei propri mezzi e al tempo stesso tanto pronto a mettersi in discussione. Ogni osservazione, da chiunque provenisse, meritava attenzione, non foss’altro che per il tempo necessario a liquidarla con un sorriso liberatorio, per passare oltre.

L’ombra del dubbio, della sofferenza, appariva solo di fronte al rischio di tradire con le parole la verità del pensiero – verità sempre pronta a ridefinirsi, ma tenuta a una assoluta fedeltà a se stessa. E tutto questo seguendo, credo, uno degli impegni che Peppo considerava fondamentali, anche quando scriveva un pezzo per un giornale: “Io temo che occorra rivalutare la categoria dell’utile, intendo l’utile del lettore. Quante volte l’abbiamo disprezzata, vittime di un idealismo che ha introdotto troppe maiuscole nella nostra mente, anzi nel nostro Spirito” scriveva in quel libro.

“L’utile del lettore e l’utile dell’artista idealmente convergono. Ma perché l’intersezione sia feconda occorre che l’artista abbia ambizione, pazienza, generosità, fantasia e una strana tendenza a dire più cose contemporaneamente…”

Ambizione, pazienza, generosità: mi ha aiutato lui stesso a trovare le parole per dire quale inimitabile miscela vedevo agire sotto i miei occhi inesperti. E tutto questo, tutto questo amore per le parole e i loro sensi, pur senza nutrire una convinzione superba del loro potere: “Crediamo che vivere sia comunicare, che amare sia condividere un codice, che il mondo sia un sistema di segni di cui continuiamo a decifrare i significati, tranne l’ultimo”, scriveva: ma sapeva che in fondo si tratta di un pensiero “rassicurante, sedativo”.

Sapeva quante cose è impossibile dire, eppure non rinunciava a cercarle, e a cercare di trasmetterle. La sua grande generosità con tutti, grandi e piccini del mondo, io penso nasca da questo: dal sapere che fra due uomini, in ogni momento, può trascorrere una comunicazione unica e speciale, vera nel preciso momento del suo avvenire, onestissima nelle sue debolezze e nelle sue dolci disonestà, grande nei suoi silenzi e nelle sue ruvide pagine da voltare.

La letteratura di Giuseppe Pontiggia e la sua umanità profonda e senza arretramenti hanno cambiato per sempre il mio modo di guardare la vita, e me stessa. E questo è il dono più grande che si possa ricevere.

“Una statua di giada di Iside ci appare come una presenza inesplicabile. Gli uomini che l’hanno creata credevano. Noi in che cosa crediamo? È questo ciò che di importante ci dice la statua. Anzi, non ce lo dice. Ce lo comunica in silenzio. No, neanche. La statua è questo.”

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