Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

La memoria di Nadežda Mandel’štam

In un corposo volume finalmente tradotto in italiano, la donna che salvò i versi di uno dei più grandi poeti russi, mandandoli a memoria e nascondendoli nelle fodere degli abiti, ripercorre una storia che sembra proiettare la sua ombra sull'oggi, ma al rovescio

David Fiesoli

La memoria di Nadežda Mandel’štam

Nadežda Mandel’štam è la donna che salvò l’eredità poetica di Osip Mandel’štam, che sposò nel 1922. Nella seconda parte delle sue Memorie, ora un meraviglioso libro di 880 pagine finalmente tradotto in italiano e intitolato Speranza abbandonata [1], c’è un capitolo che si intitola Noi, in cui Nadežda Mandel’štam scrive:

«Fino a quando esiste la propria cerchia, il proprio villaggio, la propria cittadina, una qualsiasi comunità legata dall’abitudine, dai costumi, dalle radici comuni, dalle tradizioni, gli uomini sono costretti a sorridersi l’un l’altro, e questo sorriso vale pur sempre qualcosa. La letteratura si faceva in quattro per smascherare l’ipocrisia, la menzogna, la falsità e perfino i crimini segreti di individui all’apparenza rispettabili, impeccabili, sorridenti, ma una società felice è quella in cui almeno la bassezza e la viltà devono essere dissimulate. Alcuni dissimulano, altri imbrigliano, e chissà, riescono addirittura ad annientare nel proprio intimo l’abiezione che c’è in ognuno di noi. Forse l’autocontrollo è l’unica cosa di cui siamo capaci, ma è possibile soltanto in mezzo agli altri, davanti agli altri. Da soli tutto è molto difficile. Sodalizi costituiti da individualisti che perseguono i propri obiettivi, non testimoniano l’esistenza di una comunità. Queste persone parlando di sé dicono “noi”, ma è un “noi” meramente quantitativo, un numero non sorretto da un contenuto e da un significato interni, Basta che un altro obiettivo più seducente si profili all’orizzonte, ed ecco che questo “noi” è pronto ad andare in pezzi in qualsiasi momento».[2]

La scomparsa delle tradizioni e della cultura condivisa che la moglie del poeta Osip Mandel’štam denunciava in quella Russia che voleva uccidere il suo passato in nome di un distorto “collettivismo”, e uccise suo marito in un campo di prigionia di Valdivostok nel 1938, sembra quasi proiettare la sua ombra al rovescio sull’individualismo sfrenato che oggi ammala le società occidentali, divorate da una simile ansia di distorcere il passato e le tradizioni in nome di  un distorto senso dell’inclusione, quando invece pone l’accento sulla quantità (leggi: profitto) a scapito della qualità, e affossa quel senso del sacro e del destino che già denunciò Cristina Campo all’inizio degli anni Settanta, parlando di «civiltà della perdita»[3].

Uno status che ha reso gli individui non “liberi da” ma “privi di” qualsiasi credenza collettiva, precipitandoli nel vuoto in cui trionfa la globalizzazione e contemporaneamente un nazionalismo che, precisa la Mandel’štam, è «lo strato inferiore della coscienza, sintomo di malattia e non di salute, di meschinità e non di profondità»[4].

Nel primo capitolo della sua opera, che si intitola Io, Nadežda Mandel’štam si richiama a Goethe e scrive: «Uno degli spiriti più fulgidi della storia umana ha affermato che quando il concetto viene meno compare la parola. Da segno significante la parola si tramuta troppo facilmente in mero segnale, e gruppi di parole in formula morta, nemmeno in esorcismo. Ci scambiamo frasi fatte, senza accorgerci che ormai hanno perso ogni autentico significato. Il logos non ha nulla a che fare con il mondo in cui ci troviamo a vivere. Tornerà quando le persone, una volta riavutesi, ricorderanno che l’uomo risponde di ogni cosa, prima di tutto della propria anima»[5].

Non è ancora accaduto: anzi, abitiamo quel che Roberto Calasso ha definito “innominabile attuale”, ovvero il nuovo millennio in cui la parola è mero segnale, si separa dal concetto e fluttua nel vuoto[6].

Osip Mandel’stam, conversando su Dante, che imparò a leggere in originale, scrisse: «L’arte della parola distorce, letteralmente, il nostro volto, ne turba la pace, ne lacera la maschera»[7].

Nadežda Mandel’štam, che nascondeva i versi del marito negli stivali, li cuciva nelle fodere degli abiti, e li imparava a memoria,  ricorda quando l’amica Anna Achmatova le diceva che Osip – già censurato ed eliminato dal regime –  non aveva neanche bisogno di essere stampato: «I versi sono qualcosa di sfuggente, non si possono nascondere, né mettere sotto chiave. Achmatova non smetteva di stupirsi per la resurrezione di quei versi calpestati e, come una volta si pensava, annientati. Salvando i versi di Mandel’štam non osavamo sperare, eppure non smettevamo di credere che un giorno potessero risorgere. E ci aggrappavamo a questa fede. Dopotutto, era la fede nel valore eterno e nel carattere sacro della poesia»[8].

 

[1]  Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, trad. e cura di V,.Parisi e M. Zucchelli,  Milano, Edizioni Settecolori, 2024 (ediz, orig. Parigi, Ymca Press, 1972).

[2] Ivi, p.  44 – 45.

[3] Cristina Campo, Il flauto e il tappeto, Milano, Rusconi, 1971, ora in Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, p. 113.

[4]  Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, cit., p. 62 – 63.

[5]  Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, cit., pp. 24 -25.

[6]  Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Milano Adelphi, 2020.

[7]  Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, a cura di S. Vitali, Milano, Adelphi, 2021, p. 30.

[8]  Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, cit., p. 22.

 

In apertura, foto di David Fiesoli

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