Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
L’errore fatale di sentirsi superiori
Nella piazza per l'Europa del 15 marzo è stato detto che la cultura e la democrazia ce l'abbiamo solo “noi”. Sarà meglio ricordarsi di quanto antichissime siano le culture di Cina e India, di quanto noi occidentali dobbiamo alla fiorentissima cultura degli Arabi, e a quei giganti del pensiero e dell'arte che dalla Russia hanno illuminato la cultura mondiale. E sulla democrazia, ecco quel che dobbiamo davvero imparare dall'antica Grecia, al di là della vieta retorica su Pericle

L’enorme errore di sentirsi sempre dalla parte giusta, unici detentori di democrazia, cultura e libertà, è culturale prima e oltre che politico. Conosciamo la pochezza culturale dei nostri attuali governanti, oppure il loro cinismo, che distorce la cultura in nome di una bieca propaganda. Ma amareggia che nella piazza romana del 15 marzo a cadere in quell’errore da matita rossa sia stato un ex insegnante di liceo classico, un professore di nome Roberto Vecchioni, che viene definito (su Wikipedia) oltre che cantautore anche poeta e scrittore.
Quando il “culturame” sostituisce la cultura, e la competenza si sbriciola in poche frasi ad effetto, magari ad uso e consumo dei mass media, la politica ha già perso spessore, e viene facilmente sostituita dall’economia, dalla finanza, da poteri che la soggiogano, alimentando i radicalismi, come sta accadendo e come già prevedevano nel secolo scorso eccellenti studiosi come Simone Weil o Günther Anders[1]. Sull’equivoco della detenzione tutta occidentale della democrazia, il Nobel per l’economia indiano Amartya Sen ha illustrato con chiarezza le secolari tradizioni democratiche di alcuni Paesi oggi oppressi da regimi totalitari, e invita a non commettere il peccato di “imperialismo culturale”, ovvero l’appropriazione indebita dell’idea di democrazia, un peccato che apre spiragli all’autoritarismo. Amartya Sen suggerisce piuttosto quanto sia necessario esplorare e sviluppare quegli aspetti della democrazia che sono valori condivisi dalla storia dell’umanità intera[2].
Non è quello che si è sentito nella piazza del 15 marzo, nella quale si mischiavano sinceri sostenitori della Pace e fautori del riarmo dell’Europa, in modo talmente confuso da far inorridire chiunque avesse letto Aristofane, su cui torneremo.
Nel suo breve discorso, il professor Vecchioni ha sentenziato così: «la democrazia ce l’abbiamo noi, ed è un’invenzione dei Greci. Ora chiudete gli occhi, e pensate ai nomi che vi dico: Socrate, Shakespeare, Cervantes, Hegel, Marx, Cartesio, Pirandello, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?» E ancora: «Non esiste corrispondenza tra pace e pacifismo, sono due cose molto diverse. Abbiamo l’obbligo pacifista di far vedere agli altri che possiamo difenderci con i denti».
Ha dunque nominato in ordine sparso una serie di nostrani maestri del pensiero che “gli altri” non avrebbero e che dimostrerebbero la superiorità culturale europea, dalle Alpi ai Pirenei, dal Reno ai Propilei. Sorvolando sui danni che l’appropriamento di certe teorie culturali dei maestri del pensiero ha prodotto quando distorte per motivi politici (da Cartesio a Marx e Nietzsche), restano da capire un paio di punti.
Il primo è chi sarebbero “gli altri”, quelli che non hanno le “cose” che abbiamo noi, i Socrate i Leopardi e gli Shakespeare. Saranno mica i Russi? O i Cinesi? Gli Arabi? O gli Indiani?
E allora sottostiamo al giochino dei nomi sparati un tanto al chilo.
Affrontando la millenaria tradizione culturale della Cina potremmo citare i nomi di Siddharta Gautama, Confucio o Laozi, tanto per ricordare i contributi fondamentali alle arti, alla letteratura, e alla storia del pensiero umano attraverso il confucianesimo, il taoismo, il buddhismo. E non possiamo non sottolineare un concetto da cui avremmo ancora oggi tutto da imparare, ovvero quello di vivere in armonia con il Tao, l’ordine naturale delle cose, in modo da creare e conservare una società armoniosa. L’India possiede una cultura altrettanto millenaria: i Veda indiani risalgono a un periodo che va dai tremila ai cinquemila anni prima di Cristo. La lingua in cui furono scritti, il sanscrito, è probabilmente la più antica del mondo. Potremmo poi citare i nomi di Tagore, Gandhi, e perfino – seguendo Amartya Sen – di un imperatore come Akbar, che intorno al 1600 sviluppò politiche di integrazione e pluralismo, codificando diritti e libertà, mentre in Europa Giordano Bruno veniva arso vivo a Campo de’Fiori.
Veniamo alla Russia. Il giochino dei nomi in questo caso sarebbe un lungo sciorinar di giganti delle arti e del pensiero che – anche a costo della vita – hanno donato moltissimo alla cultura non solo europea ma mondiale: Puškin, Dostoevskji, Tolstoj, Mandel’štam, Pasternak, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Čajkovskij, Stravinskij, Šalamov, Čechov, Esenin… L’elenco sarebbe lunghissimo, e potrebbe da solo zittire tutti i fautori della presunta superiorità culturale dell’Occidente.
Ma il primo nome citato dal professor Vecchioni è stato quello di Socrate. E allora parliamo di Grecia, dalla quale la nostra superiorità avrebbe inizio. Davvero dobbiamo ricordare che gran parte dell’Europa aveva quasi cancellato il retaggio culturale dell’antichità classica espresso in lingua greca? Davvero dobbiamo ribadire quanta parte della cultura greca di cui ci vantiamo sarebbe andata perduta se non fosse stato per gli studiosi del medioevo arabo-islamico? Dobbiamo elencare i nomi di Avicenna, Averroè e Algazel? E ricordare quante conoscenze tecnologico – scientifiche l’Occidente deve al mondo arabo (dalla matematica all’astronomia, dalla medicina all’agricoltura) oltre che a quello greco?
Ogni volta che si nomina la Grecia, bisognerebbe prima sciacquarsi la bocca. La Grecia antica può darci molte lezioni, ma dobbiamo studiarla bene, e non servirsene attraverso discorsi di superficie. Alla manifestazione di Roma Fabrizio Bentivoglio ha letto il celebre e abusatissimo discorso di Pericle agli ateniesi, riportato da Tucidide, che in realtà già definì il governo di Pericle un principato, non una democrazia[3]. Pericle fu colui che a metà del V secolo trasferì il tesoro della Lega attica dall’isola di Delo, sacra a tutta la Grecia, ad Atene, che era sacra solo agli ateniesi. Così facendo, imboccò una strada fatale, irta di hybris: dimostrò il disprezzo di Atene verso l’autonomia delle altre città, che videro i loro contributi alla cassa comune usati da Pericle soprattutto per accrescere gli arsenali del Pireo e fortificare le mura di Atene. Dunque, per armarsi.
Così il tesoro della Lega, che a Delo era sotto la protezione di Apollo, il dio oracolare di tutti i Greci, ad Atene passò sotto la protezione di Atena Poliàs, protettrice della sola Atene.
Il risultato fu non solo che il Synedrion, il consiglio delle città della Lega, non si riunì mai più, ma anche e soprattutto che questo gesto sconsiderato fu la scintilla su cui Sparta soffiò, e accese la miccia della guerra del Peloponneso, il terribile conflitto che determinò il declino della grecità e la fine del suo splendore.
La parola d’ordine con cui Pericle trasferì i soldi dall’isola di Delo ad Atene è quella usata in ogni secolo per giustificare azioni cariche di pericoli futuri: la sicurezza. Converrà ricordare le parole di Simone Weil, grande studiosa della Grecia antica e delle sue corrispondenze con la contemporaneità: «C’è una contraddizione interna nell’idea di sicurezza; infatti, sul piano della forza, non c’è altra sicurezza che quella d’essere un po’ più forte del popolo che si ha di fronte, il quale ne è allora privato; così subordinare l’organizzazione della pace a una sicurezza generale, significa dichiarare impossibile la pace»[4].
Ecco la vera lezione che dalla storia della Grecia dovremmo imparare, altro che tirare in ballo a caso Pericle o Socrate. La parola democrazia va maneggiata con cautela, a cominciare proprio dai riferimenti all’antica città che ne sarebbe stata la culla, poiché l’Atene governata da Pericle si comportava piuttosto come un impero, e l’atteggiamento era quello di sentirsi superiore a tutte le altre città greche.
Infine, rileggiamo Aristofane: ci insegna che la Pace è una dea. Nella commedia omonima, Eirene, dea della Pace, sorella della Giustizia e del Buon Governo, viene liberata dall’antro in cui l’avevano rinchiusa il gigante della guerra Pòlemos e il suo tirapiedi: una volta libera, non ordina ai Greci di riarmarsi fino ai denti per difenderla, ma impone di deporre le armi, di trasformare gli elmi in recipienti, e le lance in pali per reggere le viti e produrre buon vino[5].
Rileggiamo bene anche Sofocle: l’Antigone ci insegna che quando al pensiero rotondo e mobile si sostituisce l’operazione del prendere partito, del prendere posizione a favore o contro, si diffonde quella che Simone Weil definiva una lebbra che ha origine negli ambienti politici e si allarga fino a intaccare la totalità del pensiero[6].
[1]Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. di L. Dallapiccola; vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, trad. di M. A. Mori, Torino, Bollati Boringhieri, 2022. Il primo volume fu pubblicato per la prima volta nel 1956, e il secondo volume nel 1980.
[2]Amartya Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, trad. di A. Piccato, Milano, Mondadori, 2004.
[3]Luciano Canfora, La democrazia di Pericle, Bari, Laterza, 2012.
[4]Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, trad. di D. Zazzi, Milano, il Saggiatore, 2017
[5]David Fiesoli, Il viaggio di Irene. Per una storia della Pace, Roma, Avagliano, 2023.
[6]Simone Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, trad. di F. Ferrarotti, Bologna, Marietti, 2021.
In apertura, foto di Olio Officina
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