Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

L’evocazione di una vita

Intervista con Maura del Serra sulla sua opera teatrale La fonte ardente. Due atti per Simone Weil. Sotto il profilo storico-biografico e documentario, la conoscenza e lo studio dei testi della filosofa, mistica e scrittrice francese è cresciuta e si è radicata in Occidente, se non ancora presso il grande pubblico, creando ampie aree di attenzione alla sua persona

Michela Dianetti

L’evocazione di una vita

Questa intervista, riprodotta qui con il permesso, è stata originariamente sollecitata e pubblicata su Attention, rivista statunitense sulla vita e l’eredità di Simone Weil. Il resto della versione italiana di questa intervista, incentrata sulla nuova traduzione di Del Serra de L’enracinement di Weil e sulla sua pratica ed etica di traduzione, è stato pubblicato sulla rivista “Per Amore del Mondo” della Comunità filosofica femminile Diotima.

Maura Del Serra è stata Professoressa di Letteratura Comparata all’Università di Firenze e ha pubblicato raccolte di poesie, numerose opere teatrali, saggi, lavori critici su diversi autori, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto le poesie di Simone Weil (Pistoia, C.R.T., 2000) e nel 2021 ha pubblicato con Le Lettere una nuova traduzione de L’enracinement con il titolo Il radicamento. Quest’ultima è la prima traduzione italiana del capolavoro di Weil dopo la prima traduzione di Franco Fortini, uscita nel 1954 con il titolo La prima radice.

In questa intervista, abbiamo parlato con la Professoressa Del Serra della sua splendida opera teatrale La fonte ardente. Due atti per Simone Weil (scritta nell’85, il cui testo è stato pubblicato nel 1991 dalla rivista Hystrio, e messa in scena a Firenze al “Teatro di Rifredi” nel 1992 e in Francia nel 2017), basata sulla vita e sul pensiero di Simone Weil.

Se Liliana Cavani, nella sceneggiatura per il suo film mai realizzato su Weil, Lettere dall’interno (vedi la mia intervista con lei su “Bookciak Magazine” qui), ha rappresentato una Weil più politica, quella che ha rinunciato all’insegnamento per lavorare in fabbrica, lei hai scelto di rappresentare la sua vita dal punto di vista controverso della sua morte. Questo mi ha ricordato il modo in cui Gabriella Fiori ha deciso di iniziare la sua biografia (vedi Diotima qui, in particolare la domanda di Jane Doering).

In La fonte ardente vediamo la donna, la filosofa, e soprattutto l’impossibilità di comprendere appieno il suo percorso e la simultanea attrazione magnetica che la sua vita e il suo pensiero esercitano su noi lettori. Nella pièce, troviamo Weil in conversazione con diversi personaggi e vediamo questo binomio di impossibilità e attrazione brillare nelle sue relazioni con ciascuno di loro: sua madre Selma, il suo maestro Alain, la sua amica Albertine, e figure come Bataille, Daumal, De Beauvoir, Trotzskij, Roncalli, ecc.

Intervista a Maura Del Serra

Quando ha iniziato a pensare a una pièce su Weil? Cos’è che l’ha spinta a scrivere un’opera teatrale su di lei?

La fonte ardente è stato il mio primissimo testo teatrale dopo decenni di scrittura poetica e saggistica, e contemporaneo all’inizio della mia attività di traduttrice. Ma non è stato il frutto di una decisione nata dal mio primo approccio a Simone e alla sua opera negli anni ’70 e nei primi ’80, per quanto esso sia stato “totalizzante” e comprensivo delle biografie e degli studi a lei dedicati. Non è stato il pensiero o la decisione ragionata di “strutturare” la mia scoperta appassionata della sua figura in una forma drammaturgica, riversandovi tutto ciò che sapevo e che mi entusiasmava di lei fino ad un alto grado di giovanile identificazione. Non posso usare altro sostantivo che quello romantico ma insostituibile di “ispirazione”, o se si vuole quello più classico e sacrale di “epifania”: un giorno, all’inizio del 1985, mentre mi recavo in autobus a Firenze per fare lezione all’Università, mi sono letteralmente apparse le due figure iniziali del medico e dell’infermiera dell’Ashford Sanatory, e ho sentito mentalmente lui esordire col primo verso: “Buongiorno cara Jennifer, come va stamattina?/E la nostra paziente, quell’apostola esausta/dell’autodistruzione, ha superato la crisi?” – e lei che rispondeva con ferma malinconia: “No dottore, alle quattro di stamattina è morta” e così via. Non mi restò che trascrivere l’incipit e poi, appena possibile, continuare ad ascoltare la scena che si formava quasi magicamente. Certo usavo l’intelletto nella costruzione delle scene, ma come sotto dettatura, sempre guidata dall’“intelletto d’amore” dantesco che “nota” e trascrive ciò che esso comunica, “ditta dentro”. Peraltro pochi giorni dopo fui costretta a letto e continuai a scrivere con febbre alta per diversi giorni. Fu veramente una lunga e complessa ma entusiasmante traduzione, o meglio un’orchestrazione di presenze, di figure, di voci divenute personaggi col loro mondo storico ed interiore ricreato intorno a me e attraverso tutta me, persona, anima, mente ed esperienza di convergenza tra poesia e vita intellettuale e vita quotidiana, ma anche proiezione della storia civile dell’Europa e dell’Italia degli anni ’80, che erano ancora “anni di piombo” e di crisi ideologiche, non identificabili ma neppure troppo dissimili agli anni ’30 e 40 di Simone. Ricordo che feci poi leggere il dattiloscritto, oltre che a mio marito, solo al poeta Mario Luzi, che allora era per me una sorta di figura paterna, e che commentò (con mio stupore): “Brava! Non te ne credevo capace”.

 

La Sua conoscenza del pensiero di Weil è così vasta da riuscire a far risplendere la filosofia weiliana all’interno della narrazione delle sue relazioni di vita. Perché ha scelto di raccontarla attraverso queste specifiche relazioni? Perché Bataille, perché Trotzskij e Roncalli, per esempio?

Non parlerei tanto di “narrazione” quanto di “evocazione” della vita e degli incontri cruciali di Simone, ognuno dei quali rappresenta, storicamente e simbolicamente, un côté dialettico della sua evoluzione e della sua personalità. Così, oltre alla “voce narrante” della madre Selma (che fu per il resto della sua vita la custode fedele e l’archivista dell’opera della figlia) mi è risultato naturale e quasi automatico introdurre Alain e De Beauvoir per gli anni dell’apprendistato scolastico, a rappresentare rispettivamente il padre-maestro e “l’ombra” o rovescio di Simone, Bataille come incarnazione del surrealismo maudit (che Simone detestava) basato sul culto dell’inconscio, Trotzkij come “archetipo” dell’anima rivoluzionaria russa e dell’ambivalenza fra potere ed esilio perseguitato, ovvero l’ambivalenza stessa di Simone verso la politica e infine il suo abbandono deluso del diretto attivismo sindacale e militante. Bousquet e Daumal rappresentano il lato misticheggiante ed esoterico del surrealismo: il fascino págano di persona con l’invalidità reclusoria nel caso di Bousquet; e la malattia precoce e mortale nel caso del più puro Daumal. Di quest’ultimo ho fatto una specie di paredro maschile di Simone, che scoprì con lui il pensiero orientale traducendone i testi. Ho un po’ “romanzato” anche l’amica fedele Albertine facendone la donna di Bousquet e il simbolo della devota cura psicofisica. Quanto a Roncalli – la cui apparizione innovatrice nella Chiesa cattolica mi colpì moltissimo quando ero appena adolescente, e che quando era Nunzio Apostolico a Parigi negli anni ’40 lesse in parte l’opera di Simone rimanendone ammirato ed esclamando: “Oh sì, amo quest’anima!”- mi è sembrato altrettanto naturale il suo incontro finale con Selma, non avvenuto storicamente ma idealmente vero, ed essendo lui il perfetto destinatario per introdurre il Prologo.

 

L’episodio con Simone De Beauvoir, raccontato anche dalla stessa De Beauvoir e da Simone Pétrement, è sempre il più informativo, credo, se si vuole avere un’idea della personalità di Weil in poche parole. Ecco un estratto dalla pièce, dove presenta Weil in conversazione con De Beauvoir:

         SIMONE:

         Non è facile, è vero,

         essere nata donna, avere corpo di luna

         e amare il sole. Lo so. Ma so anche

         che il desiderio del bene è già il bene,

         che si diventa quello che si ama: e mi sembra

         che coi falsi valori tu getti via la stessa

         radice del valore, l’invisibile patto

         fra lo spirito e il mondo, fra il corpo e le sue membra,

         fra verità e bellezza.

 

         SIMONE DE BEAUVOIR:

         Ma dove e come vivi?

         Sei davvero “indigesta”, me l’avevano detto.

 

Che cosa rappresenta per lei questo incontro?

Il femminismo orgoglioso e “superuomistico” della De Beauvoir, il suo elitarismo ideologico di origine borghese le impedisce di “vedere” empaticamente al di là del proprio libertarismo e di comprendere i problemi concreti del popolo (“si vede che non hai mai avuto fame” commenta Simone). Il problema mentale della De Beauvoir è stato e rappresenta tuttora quello di tutta la gauche europea del Novecento (ed oltre), l’astrattezza ideologica e divisiva anche nel suo pensiero femminista molto contrappositivo, che darà origine al gender, mentre l’“indigesta” Simone dona direttamente la sua persona, lavorando in fabbrica e insegnando come apostola del pensiero vissuto, come vita e coscienza diretta dell’identità dell’Altro, del “noi” e del “loro” al di là dell’ego. Un processo interiore difficile da realizzare in ogni tempo, e irto di impossibilia generati dall’autodifesa e dall’incomprensione altrui, che la facevano ovviamente giudicare imbuvable per il rigore etico e spirituale, stoicamente rivoluzionario, che esso comportava.

 

Simone Weil è risultata spesso ‘indigesta’ sia ai suoi amici che ai suoi lettori. Tuttavia, il suo lavoro continua a essere tradotto, la ricerca sul suo pensiero continua a essere sviluppata, e in molti continuano a trovare ispirazione in lei e nella sua filosofia. Pensa che la stiamo ‘comprendendo’ più di prima? Ora che è passato del tempo, e che, come Weil stessa direbbe, abbiamo posto ‘distanza’ tra noi e il suo pensiero. O forse i nostri tempi stanno pericolosamente somigliando sempre più ai suoi, e quindi inevitabilmente gravitiamo verso la ricchezza di speranza (quella ‘fonte ardente’) che è la sua filosofia?

Sotto il profilo storico-biografico e documentario, certamente oggi la conoscenza e lo studio dell’opera di Simone (quasi interamente postuma, bisogna ricordarlo) è cresciuta e si è radicata in Occidente, se non ancora presso il grande pubblico, creando ampie aree di attenzione alla sua persona – spesso al suo “personaggio”, oggetto di alcuni film a partire dagli anni ’90 – e alla sua opera, che dal suo tempo storico si protende nel nostro e lo oltrepassa in senso universale. La distanza storica, e ancor più la recente globalizzazione spettacolarizzante e mercificante della società virtuale rischiano di fare di lei un fake, sia pure elitario, un mito “radicaleggiante” od utopico, il contrario assoluto di ciò che lei sentiva di essere: una ricerca e una preghiera universale in cammino, sostenuta dall’amore profondo per la conoscenza e per l’umanità intera, con le sue violenze, sventure e pesanteûrs. La sua era una “fede senza speranza”, appunto, che le consentiva ciò che i religiosi ecclesiastici chiamavano “il discernimento degli spiriti”, cioè la facoltà di distinguere lucidamente il bene dal male, il sogno illusorio e gradevole dalla realtà “dura e rugosa”, come lei la definiva con la stessa concretezza “eretica” propria dei mistici, che le impedirà tanto di accettare il battesimo quanto di essere accolta e canonizzata sia dall’ortodossia ebraica sia da quella cattolica, facendo forse per sempre di lei una luminosa outsider. In questo senso estremo non la conosciamo meglio oggi, anzi il fracasso e l’oltranza mediatica e la conseguente disaffezione alla lettura meditativa sono ostacoli maggiori che al suo tempo, anche se le cerchie di studiosi e di appassionati possono diffondersi e comunicare più rapidamente fra loro, anche per la presenza affidabile dell’opera omnia weiliana pubblicata da Gallimard.

 

Vorrei concludere citando un altro passaggio dalla Sua opera La fonte ardente che potrebbe riassumere molto di ciò di cui abbiamo discusso fino a questo momento.

         SIMONE: 

         No, non mi sono mai creduta in missione.

         Sbagli se credi questo. Ho solamente cercato

         di liberare il me dall’io, e di farne

         un noi di forza e di sostanza, e offrirlo

         come arma minima a chi non ha lingua

         per pensarsi soggetto della storia. Non spero,

         ma ho fede in questo: è la radice stessa

         della rivoluzione: conoscenza unitaria

         delle parole e delle cose: fare

         parole e dire cose, con la mano e la mente

         fuse, senza più il muro fra chi pensa e chi esegue,

         quel muro di oppressione e d’illusione che porta

         alla rovina l’Occidente stesso.

 

La mia speranza è che questa opera eccezionale possa tornare alla luce sul palcoscenico e, auspicabilmente, un giorno essere tradotta in inglese e messa in scena per un pubblico non solo italiano.

Vorrei chiudere proprio con l’auspicio antinarcisistico ed empatico di Simone (e mio) contenuto nell’ultimo brano citato de La fonte ardente: unire pensiero ed azione in un “dire cose” e “fare parole” che risveglino nel profondo la coscienza e la responsabilità individuale e collettiva, il “noi” e il “voi” antitetici all’“io” oggi più che mai dominante ed aggressivo nei singoli e nelle nazioni, testimoniando per quanto ci è possibile contro la doxa piattamente narcotizzante ed a favore della bellezza e dell’alètheia, la verità dentro e sopra di noi, oggi molto negata e temuta a favore della menzogna e della forza che opprime soprattutto i “senza lingua”, ossia i senza diritti spirituali e sociali. È importante che chi come noi “ha la parola”, la usi con fedeltà creativa e “combattente”, come spada, scudo e dono insieme, ricordando che in greco “poiein logon”, letteralmente “fare la parola” significa anche “dare la parola” a qualcuno, ed essendo consapevoli della sua potenza testimoniale, così ostacolata dai falsi poteri dominanti.

Mi unisco all’auspicio di Michela che La fonte ardente trovi, dopo quella francese, un’adeguata traduzione, magari di un poeta, e messinscena in inglese (sperabilmente ad opera di un traduttore che ne rispetti la testura metrica e stilistica) e che riproponga il pensiero e la vita di Simone anche alla vasta audience anglofona, oggi divenuta una koinè internazionale, una lingua-ponte come un tempo il greco e il latino. Simone, che amava la ricchezza di tutte queste lingue, e anche dell’italiano, quanto quella della sua lingua madre, sarà presente, ed io con lei, in ognuna di esse e in qualsiasi altra che la accolga.

Michela Dianetti

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