Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Lorena Nocera, lo spazio sacro di verità e bellezza

Nel caso della poesia detta o “messa in scena”, la qualità dell’interprete assume un ruolo tanto rilevante al punto da generare un valore aggiunto per tutti gli uditori/spettatori. L’attrice milanese si è messa al servizio della poesia da anni, con esiti convincenti. I momenti più significativi del suo lavoro, la sua visione del domani e tanto altro in una ricca intervista

Alessio Riva

Lorena Nocera, lo spazio sacro di verità e bellezza

Leggere e “mettere in scena” la poesia è un’impresa che richiede umiltà e dedizione alla parola, alla sua polisemia, che nella poesia migliore coesiste e concorre alla riuscita del testo unitamente alla metrica, alla ritmica e alle altre caratteristiche della versificazione, libera o chiusa che sia. E se le parole della poesia risuonano con armoniche particolari in ciascun lettore silenzioso, a seconda della sensibilità, della formazione e della capacità empatica di quest’ultimo con il testo che dà “a ciascuno il suo” in relazione alle qualità individuali di ogni lettore, nel caso della poesia detta o “messa in scena”, la qualità dell’interprete assume un ruolo tanto  rilevante al punto da generare un valore aggiunto per tutti gli uditori/spettatori. A queste persone che con umiltà e dedizione affrontano la difficile sfida di comunicare la poesia è giusto ed opportuno renderne merito; è il caso, ad esempio, di Lorena Nocera che al servizio della poesia si è messa da anni con esiti assai convincenti, e alla quale, insieme al nostro plauso, abbiamo rivolto alcune domande.

Quando ha deciso di fare l’attrice e cosa l’ha indotta ad intraprende tale professione?

Una sera d’inizio giugno di più di vent’anni fa, dopo aver assistito ad una messa in scena de Il gabbiano di Anton Čechov. Ricordo di essere uscita dal teatro come in sogno, scossa, e di avere pensato: Farò questo mestiere. Era una serata tiepida con molte stelle, il cielo lustro. Faceva male. Non avevo mai fatto un corso di teatro nemmeno a scuola e non ero neppure più giovanissima. Non sapevo neanche da dove cominciare. Una follia. Una follia che sta durando per sempre. Quella sera ho attraversato uno spazio sacro, un luogo in cui la vita della letteratura si avverava. Si compiva in tutta la sua verità e bellezza, o anche nel suo orrore depurata da tutta la parodia che spesso è la vita che noi chiamiamo reale. Questa purezza della vita, anche nei suoi abissi, è stata la risposta a una domanda che mi tormentava. Ecco, quella sera ho sentito che ero chiamata a rispondere alla mia domanda, e così continuo a rispondere ogni giorno. Sorriderà se le dico che lo spettacolo non era nemmeno granché!

Lorena Nocera. Foto di Carlotta Mendola

Quali sono stati i momenti e gli incontri più significativi della sua formazione?

L’incontro con il pensiero teatrale di Jacques Lecoq: lo studio delle “leggi del movimento” come radice di ogni atto vitale e dunque teatrale. Il lungo ascolto del silenzio che precede la parola. Il duro lavoro di educazione del corpo per divenire una pagina bianca su cui poter scrivere ogni personaggio, ogni testo; per divenire un corpo poetico. La ricerca delle permanenze del teatro oltre ogni moda espressiva del momento. Kuniaki Ida è stata la persona attraverso il cui insegnamento ho sperimentato tutto questo. È stato il mio maestro. Mai scorderò la sua meravigliosa respirazione, l’incanto della sua capacità dinamica, un poeta delicatissimo del movimento. E non un mestierante, ma un altro che provava a rispondere alla domanda con tutta una vita.

Quali gli spettacoli a cui ha partecipato e che ha sentito più consonanti?

Sono fortunata: ho potuto interpretare tanti personaggi anche molto differenti fra loro, canaglie ed eroi. Tutti sono stati sempre, o quasi, un significativo incontro. Hanno aperto la mia mente, suggerendomi prospettive altre da cui osservare le dinamiche del mondo e delle relazioni; e al contempo occasioni di formazione, di approfondimento dei diversi territori drammatici che portavano con sé: il comico, il tragico, il grottesco. Se proprio dovessi citarne uno, credo che farei il nome di Klara Schwarz Adler, una donna che, dopo essersi autodenunciata come ebrea, finisce ad Auschwitz, ma riesce a sopravvivere e a fare ritorno a Parigi nel 1945, dove l’attende la figlioletta di pochi anni allevata da un’amica d’infanzia, che al contrario di Klara ha scelto di vivere in clandestinità. Klara decide di partire per l’America e di abbandonare la bambina, come a significare l’impossibilità di un ritorno dopo una così grande tragedia. Ho interpretato questo personaggio nel 2012, da Le non de Klara di Soazig Aaron, che con questo libro ha vinto il premio Goncourt come migliore opera prima nel 2002.
Klara è un vero eroe tragico che lotta con silente, maestosa dignità contro l’avversità invincibile del destino, e probabilmente perde.  È una donna per cui nutro un profondo rispetto. Sì, forse lei è stata il mio incontro più importante.

Lorena Nocera. Foto di Flavio Bruno

Cosa l’ha indotta ad affrontare le interpretazioni e gli spettacoli di poesia?

La poesia esprime la precisazione più essenziale della risposta di cui prima le parlavo. Dopo un certo numero di anni di studi e di lavori di varia natura nell’ambito teatrale, ho preso coscienza dell’importanza sostanziale della parola nella mia ricerca. In ultima analisi, ho capito di aver intrapreso questa strada anzitutto per questo motivo: poter dar corpo alla parola in uno spazio puro, atto a riceverla e ad amplificarla. A un tratto, mi è stato chiaro che di un personaggio, ciò che davvero mi rapiva era ciò che diceva e come lo diceva. Nulla mi restituisce tutta la complessità della vita come la parola. Per quello che è la mia sensibilità naturalmente; altri potrebbero dire altrettanto della musica, della pittura o di altro…
La densità della parola poetica – che è spesso parente stretta di quella teatrale – è, per me, la più alta forma di conoscenza della realtà. Leggere ad alta voce una poesia, dopo che la si è studiata e preparata come si conviene, significa capire meglio il mondo. Studiare e recitare una poesia è qualcosa di molto simile ad una traduzione; mi riferisco ad una esperienza probabilmente più nota alla maggior parte delle persone in cui la parola sconosciuta trova una nuova forma, una chiarezza e una capacità comunicativa solo passando concretamente attraverso tutto il nostro corpo, la nostra cultura, la nostra storia; si fa nuova, e noi con lei. Questa forma di traduzione della parola poetica è in assoluto ciò che mi appassiona di più.

Quali sono i criteri in base a cui ha scelto e sceglie i poeti da portare in scena?

Da ormai diversi anni, per mia grande fortuna, collaboro con i poeti, i critici e i traduttori che gravitano intorno alla rivista internazionale di poesia e filosofia «Kamen’» ed in particolare con Amedeo Anelli. Ho cominciato a leggere pubblicamente le opere di questi poeti in occasione della presentazione dei loro libri. Poi ci abbiamo preso gusto e ne abbiamo esplorati altri, attraverso readings dedicati, spettacoli teatrali e musicali. Ho realizzato anche un lungometraggio sulla vita e l’opera di Nicolaj Gumilëv, grande poeta russo quasi del tutto sconosciuto in Italia, che Anelli ha ritradotto. Un incentivo è spesso proprio la grandezza di tanta poesia ignorata dal pubblico italiano: cerco di far conoscere il più possibile questa bellezza. Poco più di un mese fa, ad esempio, abbiamo portato in scena per la prima volta in Italia, con lo spettacolo Una luce dal nord, tre meravigliose poetesse scandinave – Karin Boye, Edith Södergran e Birgitta Trotzig – nella bella traduzione di Daniela Marcheschi. Quasi nessuno le ha lette, eppure i loro versi, potentissimi, rivelano una straordinaria modernità e sono di grande interesse. Ma per rispondere più precisamente alla sua domanda: fra tutte le magnifiche sollecitazioni cui sono esposta, credo di scegliere quei poeti che fanno emergere in me qualcosa che esiste da sempre ma non si è ancora manifestato in maniera cosciente.

Lorena Nocera. Foto di Cristina Valla

Quale pubblico ritiene il più adatto ad accogliere i suoi spettacoli?

Tutto il pubblico. Questo forse al momento è solo un desiderio, ma che riterrei del tutto realizzabile, se solo godessimo di un maggiore ascolto da parte delle istituzioni e potessimo dunque intensificare la nostra attività. Compongo la partitura dei miei spettacoli sempre con attenta cura, affinché sia accessibile a chiunque al di là della difficoltà eventuale dei testi. Se questa complessità c’è, lavoro per poterla semplificare e comunicare senza guastarne la magia. Diversamente non si fa cultura; dico questo anche con severità. Lo credo fermamente. Ma davvero penso siano sufficienti per qualunque spettatore un pizzico di curiosità e il desiderio di lasciarsi prendere per mano; fatto questo passo, si scopre ben presto che la poesia – letta come si deve – non è certo qualcosa che sta polverosa in alto in alto sugli scaffali, per qualche topo da biblioteca o per qualche sprovveduto romantico con la sua margherita da sfogliare in mano; è invece qualcosa che ci riguarda tutti molto profondamente nel nostro quotidiano. Parla di noi costantemente, a tutte le ore del giorno. Ci accompagna, ci fa vivere meglio. Altri uomini o donne hanno trovato le parole più adatte per dire ciò che tutti noi volevamo dire da sempre. È molto confortante, è sapere di non essere soli, è anche un modo di ricordare e di scoprire.

A cosa sta lavorando in questo momento?

Ho presentato un paio di giorni fa un primo studio de Le voci dei bambini di Margherita Rimi, poetessa, medico e neuropsichiatra infantile che da anni svolge un’intensa attività di prima linea contro le violenze e gli abusi sui minori. Margherita Rimi con questo piccolo quaderno di voci dolenti, le stupende poesie in siciliano e altre ancora, sta componendo un grande canto dell’infanzia; non solo l’infanzia brutalmente violata ed offesa, ma l’infanzia di tutti noi con le sue paure ed i suoi mostri, certe voci, certi odori, l’eterna rincorsa per essere amati. Mi dà finalmente l’occasione di fare ritorno in quel paese sconosciuto che è la mia fanciullezza, a quell’origine/verità da cui vengo, a quella spinta a vivere e a creare. Ha toccato un punto, e credo e spero che rimarrà con me, nel mio studio e nel mio lavoro per molto tempo ancora.

Lorena Nocera. Foto di Flavio Bruno

Ha un desiderio professionale non ancora attuato?

Fare questo lavoro era un sogno che a lungo non ho osato nemmeno sognare.  È stato, data la mia vita, un atto sofferto, disperatamente voluto che mi ha richiesto grande coraggio e anche sacrificio. Mi ha chiesto tutto, e mi ha dato molto. Sono già felice così, felice di farlo, di continuare a farlo ormai da vent’anni, con la forza di allontanarmi sempre in tempo dai contesti in cui non si cerca più con la dovuta passione. Spero che la vita mi dia il tempo di poter approfondire sempre più un linguaggio mio, sempre più personale e aderente ad una mia verità. Forse, allora, non sarà, più soltanto la mia.

Lorena Nocera nasce, vive e lavora a Milano. Nel 2005 si diploma presso la Scuola del Teatro Arsenale. Nel 2006 il suo Woyzeck a colori (premiato al concorso “Anna Pancirolli”) viene rappresentato al Festival Internazionale Arti Performative di Evora, Portogallo. Nel 2011 crea il Progetto Copi, che vince il Bando Nazionale Teatri del Sacro per l’allestimento di La giornata di una sognatrice, di cui è protagonista. Come attrice ha interpretato testi di autori classici e contemporanei, fra i quali Pirandello, Pessoa, Brecht, Cocteau, Ionesco, Goldoni, Apollinaire, Beckett, Buzzati, Sergio Tofano, Carlo Emilio Gadda, Akutagawa, Marguerite Duras, James Ellroy, Eric Emmanuel Schmitt, Roberto Bolaño, Graham Greene. Ritenendo da sempre imprescindibile il rapporto con la parola poetica, realizza moltissime letture pubbliche, da poeti italiani e stranieri, classici e contemporanei; nel 2017 porta in scena in Gli Angeli sopra Duino, la genesi delle Elegie Duinesi di Rilke, su nuova traduzione di Giuliano Corti. Nel 2019 realizza col Presidio Poetico il progetto di videopoesia Non conosco questa vita, un lungometraggio sull’opera poetica di Nicolaj Gumilëv, poeta russo del ‘900, tradotto da Amedeo Anelli. Dal 2018 al 2022 è assistente didattica permanente di Kuniaki Ida e Marina Spreafico presso la Scuola del Teatro Arsenale. Ha condotto laboratori per bambini delle scuole elementari e medie, e per anziani, finalizzati al recupero della memoria individuale e dell’identità attraverso il teatro.

In apertura, foto di Cristina Valla

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