Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

«Mi metto nelle vostre mani, fatemi suonare come se fossi uno strumento»

Oltre le quinte. Intervista con Franco Olivero. Fare l’attore è stato un desiderio coltivato sin da bambino: «Ero ancora in collegio e nel classico tema in cui mi si chiedeva che cosa volessi fare da grande scrissi: l’attore. E aggiunsi: per avere un riscontro, per il desiderio di applausi»

Mariapia Frigerio

«Mi metto nelle vostre mani, fatemi suonare come se fossi uno strumento»

Un over 70 dagli occhi blu, dal volto intenso, forte che “buca lo schermo”, una presenza aristocratica. Un aspro piemontese nel suo non voler apparire («Mi raccomando: niente Facebook», dice subito), sintetico nelle sue risposte, che ha lavorato in film di nicchia e in spettacoli di registi del livello di Longhi. Questo è l’attore Franco Olivero, innamorato del cinema, con cui abbiamo ripercorso esperienze teatrali, cinematografiche, televisive.

Tra i tanti film a cui hai partecipato, diversi hanno location e registi piemontesi. Torino rivale di Roma?

Parlavo proprio di questo con Lorenzo De Nicola, il giovane regista che mi ha diretto nel cortometraggio Il lavoro [premiato al 25° Torino Film Festival, NdC] ed eravamo d’accordo sul fatto che si possa girare a Torino, ma Torino non è in grado di scalzare niente, perché a Roma c’è tutto, è lì che nasce tutto. Così i registi (anche torinesi) sono costretti ad andare a Roma.

De Nicola è uno che ha dei numeri, che ha girato uno splendido docufilm (con commenti vocali di Fabrizio Bentivoglio) su Giovanni Pastrone, astigiano, pioniere del cinema muto e dei primi kolossal.

Per De Nicola io sono, ironicamente, il suo attore-feticcio.

Tu hai lavorato con Davide Ferrario che, bergamasco di origine, ora abita a Torino.

Sì, si è fermato a Torino, dopo essere venuto a girare Tutti giù per terra, tratto dal libro omonimo di Giuseppe Culicchia in cui ha fatto il suo debutto Valerio Mastandrea.

Con Ferrario ho girato due film: La luna su Torino nel 2010 e il più recente Sexxx nel 2015.

Sexxx, parliamo di quest’ultimo.

In questo film, presentato al Torino Film Festival, Ferrario ha filmato il balletto di Matteo Levaggi: un balletto della Lavanderia a vapore di Collegno [lavanderia di un ex manicomio che ha assunto un ruolo centrale come luogo per spettacoli di danza, NdC] di una bellezza unica a cui partecipa anche la figlia di Loredana Furno. In pratica è un balletto sulla pelle, filmata a 360°, da sopra da sotto, da destra da sinistra. Nel montaggio Ferrario ha pure inserito quattro attori, due giovani e due anziani, nudi pure loro, per filmarne i corpi.

Era la prima volta che giravo nudo, ma sapevo che nella vita di un attore questo momento prima o poi arriva.

Nessuno di noi parla, c’è solo una voce conduttrice.

La cosa curiosa è che truccano anche il corpo, per via dei colori della pelle diversa. Non ho provato imbarazzo, perché il nudo è liberatorio. Noi quattro attori eravamo seduti su una chaise-longue, poi su un tavolo con la cinepresa che “frugava” i nostri corpi. Un effetto incredibile, che fa tremare per la tensione.

Il ligure David Valolao ti ha scelto come protagonista per il suo corto del 2017, definito un piccolo gioiello, Una partita ai confini del mondo, che ha vinto il Premio Film Commission Torino.

È stato girato a Genova in tre giorni. Io non dovevo fare niente, se non stare seduto su una poltrona. Un lavoro tutto giocato sulla disperazione muta del mio personaggio, vedovo e depresso.

Con Giuseppe Ferrara hai interpretato Sindona nel film I banchieri di Dio.

Sono stato scelto per la somiglianza con Sindona e appaio subito all’inizio del film. È stato un personaggio magnifico da interpretare: un vero demonio. Poi ho un dialogo con l’arcivescovo Marcinkus, l’attore Rutger Hauer. Mi chiesero di dire le mie battute in inglese. Poi in italiano. Fu l’unica scena girata in due lingue.

Nella tua filmografia c’è anche il nome di Monicelli…

Sì, ma fu solo una comparsata – un cameriere – in un brutto film, Facciamo Paradiso. Curioso è il fatto che compaio nel trailer, perché, come si dice in gergo, ho una faccia “che buca”.

E i nomi di Faenza e Barbareschi.

Con Roberto Faenza ho girato Prendimi l’anima in cui interpreto il papà di Sabina Spielrein [psicoanalista russa, NdC], un ricco commerciante ebreo. Fu un impegno pazzesco, con attori inglesi, in cui tutto era vero.

Riguardo a Luca Barbareschi, sono andato al suo provino per Il trasformista (ho un bagaglio incredibile di pezzi a memoria!) con un brano del discorso del prete nel Peer Gynt ibseniano, «Ora che la sua anima…».

Lui si complimentò con me: «Bravo, Franco!». So che non è amato, ma io posso solo dirne bene. È generoso con gli attori. Il film fu presentato a Torino. Con lui mi divertii molto.

C’è poi Matteo Rovere con Un gioco da ragazze.

Matteo Rovere è un regista bravo ed esigente. In questo film era al suo esordio, pur avendo già girato un corto con Filippo Timi.

Il film, girato a Roma, ha partecipato al Festival Internazionale del Film di Roma 2008. Al Festival sedevo accanto alla mia “moglie” cinematografica.

In questo film c’è una scena molto violenta tra Stefano Santospago e me in un giardino di una villa. Visto che serviva uno spazio aperto la girammo in un campo da golf. L’inizio, invece, è girato a Lucca, sulla Torre Guinigi.

Per questo film Matteo Rovere mi fece un provino (io amo fare i provini) e Matteo mi disse di avermi scelto per aver capito che con me si poteva lavorare, che non ero di quegli attori che puntano i piedi.

Mi sembra di capire che sei amato dai giovani.

Lavoro molto bene con loro perché eseguo quanto mi viene richiesto. Loro mi cercano, come gli allievi della Holden. Dico loro: «Mi metto nelle vostre mani, fatemi suonare come se fossi uno strumento». Soprattutto non faccio pesare la mia esperienza.

Tu hai lavorato in RAI con Ugo Gregoretti. Come lo hai conosciuto?

Lo incontrai nel ’75 a una mostra di Eugenio Guglielminetti [scenografo astigiano e collaboratore fisso di Gregoretti, NdC]. Gregoretti stava facendo per la RAI di Torino, in via Verdi, una serie, Romanzo popolare a cui avevano partecipato Gabriele Lavia e Gigi Proietti. Gli ammonitori era stata una creazione dello stesso Gregoretti. Venni scelto per la somiglianza con Vittorio Emanuele II. Mi interessò molto, in quegli anni, vedere cosa accadeva in una cabina regia.

Sempre con Gregoretti partecipai a Uova fatali di Bulkakov.

Poi, di nuovo con Gregoretti, presi parte a Il conte di Montecristo, girato alla RAI di Milano, in corso Sempione.

Com’era Ugo Gregoretti?

Una persona molto equilibrata.

Hai un grande amore per il cinema.

Il mio amore per il cinema risale a quando ero ragazzino. In quel periodo ero in collegio e quando mia madre veniva a trovarmi eravamo capaci di vedere due film di fila, passando da una sala all’altra.

Quando hai deciso di fare l’attore?

Ero ancora in collegio e nel classico tema in cui mi si chiedeva che cosa volessi fare da grande scrissi: l’attore. E aggiunsi: «per avere un riscontro, per il desiderio di applausi».

In quel periodo, con il prete che ci insegnava lettere, stavamo facendo La piccozza di Pascoli. Quando mi corresse il tema, l’insegnante non nascose il suo sarcasmo, scrivendo di fianco alla mia parola “applausi” i versi pascoliani «per udir scrosci di mani, simili/a ghiaia che frangano».

Parliamo allora dei tuoi studi.

Ho fatto i tre anni di scuola media in Collegio ad Asti, dai Padri Giuseppini. Poi le superiori a Torino. Avrei voluto fare il Liceo Artistico, forse il più vicino alla mia passione per il teatro, ma mio padre mi indirizzò all’Istituto Avogadro, una scuola per periti industriali. Mi barcamenai. Fui anche bocciato un anno. In pratica non facevo niente, andavo solo al cinema. Mi iscrissi poi alla Facoltà di Chimica che frequentai per due anni, ma, dovendo dare un esame di fisica, che detestavo, passai a Geologia.

Ami il cinema, ma hai iniziato con il teatro.

La prima esperienza in teatro è stata con Anna Bolens [attrice, regista teatrale e doppiatrice, NdC] che fu la mia maestra in quanto mi insegnò dizione e pause. Veniva ad Asti da Torino e faceva lezione di dizione nel Palazzo della Provincia. Era una donna piena d’iniziativa. Lì la conobbi.

Non fu solo la mia insegnante, fu anche mia amica. Ma era un’attrice di vecchia generazione e io amavo un altro genere di teatro. La sentivo “antica”.

Riguardo al teatro io avevo, in un certo senso, la coda di paglia.

Puoi spiegare meglio.

Quando lasciai Anna Bolens e la sua compagnia, il più delle volte mi chiedevano un curriculum. Io non l’avevo, non avendo diplomi perché non provenivo da scuole come L’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma o la Scuola del Teatro Stabile di Torino. Ecco perché amo fare i provini.

La sensazione della coda di paglia mi passò completamente con Franco Branciaroli con cui mi trovai benissimo, quando nel Peer Gynt, interpretai Begriffenfeldt, il direttore del manicomio del Cairo. Né lui né altri dopo di lui, infatti, mi chiesero più il curriculum.

Con Branciaroli hai fatto anche L’ispettore generale.

La regia era sua e di Marco Sciaccaluga. Era il 1993 e mi piacque molto, perché è bello far ridere a teatro.

Poi, sempre in teatro, hai fatto Il diario di Anna Frank, con Franco Passatore che, a quell’epoca (1989), collaborava con il Teatro Stabile di Torino.

Facevo il dottor Dussel, il dentista, ospite dell’alloggio segreto e compagno di stanza di Anna.

Fino ad arrivare ai tuoi spettacoli con Claudio Longhi, che da poco è direttore del Piccolo di Milano.

A lui sono arrivato col Caligola di Camus, nel 2003, e nell’anno successivo, sempre con lui, ho fatto, dello stesso autore, La peste.

È stato lo spettacolo che in assoluto ho amato di più, perché mi ha reso felice e mi ha dato grandi soddisfazioni. Facevo Cottard, il commerciante.

C’erano anche Franco Branciaroli, Lino Guanciale, bravissimo attore, diventato popolare nelle fiction televisive, Massimo Popolizio, Bob Marchese e Warner Bentivegna, che, per il suo ruolo di Padre Paneloux, fu tra gli insigniti del Premio della Critica Teatrale 2004, assegnato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro.

È sempre con Longhi che nel 2005 ho fatto il mio ultimo spettacolo teatrale, Lo zio, un testo di Franco Branciaroli con cui debuttammo al Teatro Gobetti di Torino. C’erano, oltre a Branciaroli, Ivana Monti, Debora Caprioglio, Lino Guanciale.

Penso che si debba fare teatro fino a quando ci si diverte o, almeno per me, è stato così.

Tu sei un grande lettore.

Diciamo meglio che ho amore per alcuni libri e per le belle edizioni. Amo, ad esempio, i libri pubblicati da Adelphi. Ma non amo accumulare e i traslochi sono un’occasione per regalarne alcuni.

Un autore che amo molto e che lessi quando ancora era visto come un “demonio” per la sua ideologia è Céline. Penso in particolare a Bagatelle per un massacro.

Ho sempre pensato che Céline si potesse fare a teatro e ne parlai con Franco Branciaroli, a cui avevo regalato di quell’autore Colloqui con il professor Y, un’intervista fittizia a un giornalista inesistente: l’ideale per una pièce con due personaggi. Lui mi rispose che non si poteva fare: Céline!

Più tardi, con la regia di Luca Ronconi, portò in scena Féerie-Pantomima per un’altra volta di… Céline.

Per tornare ai libri che amo aggiungerei L’avversario di Emmanuel Carrère, Eco, In nome della rosa e il meraviglioso La peste di Camus.

Ho avuto poi una folgorazione vera e propria per l’Albania, per questo paese per certi versi arcaico, legato al codice Kanun che regolamenta la vita del nord dell’Albania, e per Ismail Kadaré, scrittore di culto e per il suo Il generale dell’armata morta, poi per Aprile spezzato.

Hai fatto pubblicità?

Sì, su internet per McDonald’s. Era Le bibite a 1 euro. La girammo in pieno centro a Milano, nella zona di Brera, al liceo Parini. Io facevo il professore con gli allievi.

La mia agenzia di Roma mi segnalò poi come testimonial Balocco, visto che cercavano un personaggio di aspetto vagamente alla Sean Connery, a cui dicono assomigli.

La pubblicità Balocco di quel periodo era girata da Daniele Luchetti.

Mi rivolsi a Lorenzo De Nicola regista de Il lavoro, di cui mi fido, per fare il provino.

Fu scelto invece Aldo Stella, doppiatore e attore teatrale.

Non sono adatto alla pubblicità. Mi dicono che ho una faccia forte, che mi s’inarca l’arco sopraccigliare e la pubblicità deve arrivare a tutti. Io, per età, potrei fare il nonno o il bisnonno, ma non quello televisivo! Non ho la faccia rassicurante dei nonni-TV.

Conoscevi Paolo Poli. Cosa mi dici di lui?

Era un personaggio prigioniero del suo cliché: era sempre e solo Paolo Poli. Lo conobbi ad Asti perché era amico di Eugenio Guglielminetti.

Vorrei terminare, visto il tuo amore per il cinema, chiedendoti il tuo film cult e i tuoi attori preferiti.

Per quanto riguarda il film è sicuramente Il petroliere: un capolavoro assoluto.

Per gli attori Daniel Day-Lewis è il più grande di tutti, un attore di altissimo livello, garante di film importanti. Ha la capacità di trasformarsi, di essere diverso da un film all’altro.

Dei nostri, forse, Gian Maria Volonté.

Hai scordato le attrici…

Nessuna come Daniel Day-Lewis, neppure Anna Magnani che non mi fa vibrare, con cui non divento un tutt’uno.

[Un momento di pausa, NdC] Una però c’è… ed è Isabelle Hupper.

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