Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Oltre le quinte… Intervista con Elio Pandolfi

Mariapia Frigerio

Oltre le quinte… Intervista con Elio Pandolfi

Un carnet fitto fitto, quello di Elio Pandolfi, tra apparizioni televisive, serate teatrali, pubblicazione della sua vita in libreria per i tipi di Gremese, a cura di Caterina Taricano, con introduzione di Steve Della Casa, dal titolo sintomatico Che spettacolo!

Ospite di Gigi Marzullo ad Applausi, lo sarà di Mara Venier a Domenica Inil 14 aprile 2019. In scena al Teatro Flaiano in Io mi ricordo, lo sarà nuovamente – sempre a Roma – il 28 aprile al Teatro Il Salotto di Pulcinella.

Pandolfi è un artista poliedrico, dotato di una memoria incredibile: attore, cantante, ballerino, doppiatore. Ha lavorato per la radio, la TV, il teatro, il cinema, il doppiaggio. Ha toccato, insomma, tutti gli aspetti dello spettacolo. Uno spettacolo che nel titolo della sua autobiografia è seguito da un punto esclamativo, perché c’è tanto entusiasmo nei suoi ricordi per «quell’amore per lo spettacolo che mi ha accompagnato tutta la vita».

Ed è questo l’aspetto che più colpisce, la passione nel ricordare un mondo in parte scomparso di cui è stato uno degli artefici, tanto che potrebbe valere anche per lui il titolo dato da Jean d’Ormesson alle sue memorie, Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella.

Perché, come in ogni vita, c’è anche in quella di Pandolfi «malgrado tutto» qualcosa che non va, qualcosa che lo amareggia come il fatto di essere stato considerato, con giudizio superficiale e ingiustamente riduttivo, una “macchietta”, quando invece andrebbe ricordato come uno dei principali protagonisti della nascente televisione in bianco e nero, avendo dato il via, nel 1954, alla compagniafissa di rivista insieme, tra gli altri, con Pietro de Vico, Febo Conti, Sandra Mondaini, Antonella Steni.

Elio Pandolfi con Antonella Steni

La sua voce al telefono trasmette la gioia di chi ha amato il suo lavoro e di chi ancora lo ama.

«Settantun anni di carriera, pensi! Il cervello ancora va, meno il corpo… Settantun anni perseguiti con tenacia e forza», dice. Un amore che, nonostante la sua ragguardevole età, lo fa ancora essere giovane. Parlare della sua carriera è quasi impossibile (tutto è comunque meticolosamente registrato su Wikipedia e sul suo libro di ricordi), perciò cercheremo di ricreare con lui il mondo artistico che ha vissuto attraverso il ricordo degli attori che ha incontrato, le sue memorie più intime, i suoi giudizi in libertà su persone (più o meno note) che il lavoro gli ha fatto conoscere.

Si sa che lei è un grande cinefilo. Quando ho letto la sua biografia, immediatamente mi è venuto in mente il film Mio figlio professore.

Ah, certo, ricorda la mia giovinezza. Con Aldo Fabrizi nella parte che poteva corrispondere a quella di mio padre Saturno, il custode, e Giorgio De Lullo in quella del figlio. Sì, sono nato in una scuola, l’Istituto Tecnico Commerciale Vincenzo Gioberti, mentre quella in cui girarono il film era il Visconti che aveva frequentato la mia amatissima Bice Valori. Ricordo che a 24 anni chiesi a mio padre di prendere il suo posto. Ovviamente mio padre me lo proibì. Il film di Castellani lo vidi proprio con mio padre, ma non mi entusiasmò. Fu un film che passò…

All’inizio del suo libro, nel giro di poche pagine vengono citati due registi: il raffinatissimo Giuseppe Bertolucci e il più noto fratello Bernardo.

Giuseppe ha fatto poco o niente. Bernardo era troppo di troppo, mi ha sempre lasciato un po’ perplesso. Novecento è stato una barba senza pari, un polpettone di una certa importanza storica, ma i film che trattano di politica non mi interessano come, del resto, non mi interessa la politica.

Mi parli dei grandi della commedia all’italiana.

Nel dicembre del 1944 iniziarono al Gioberti le prove con la filodrammatica della scuola per rappresentare Addio giovinezza. Era regista Giorgio De Lullo. Nino Manfredi era il suo aiuto. Fu così che lo conobbi. Poi mia sorella Marisa, a soli 24 anni, morì di tifo e lo spettacolo si bloccò. Ci ritrovammo in seguito all’Accademia d’Arte Drammatica. Manfredi era bravo. La nostra amicizia durò fino al 1956, ma quando prese il volo si staccò. Comprò casa all’Aventino e io fui messo al bando. Non si sa perché…

Di Alberto Sordi ha qualche ricordo?

Lo incontrai la prima volta a Milano, nel 1953. La seconda a Castiglioncello, in una festa a casa sua. Ricordo che ci appartammo a parlare di lirica di cui entrambi eravamo appassionati.

Sordi interpretò per la televisione il Don Abbondio ne I Promessi Sposi, nell’89, con la regia di Salvatore Nocita. Prima di lui, sempre per la televisione, lo aveva interpretato Tino Carraro, nel 1967, con la regia di Sandro Bolchi.

Tino Carraro! Cosa vuole che le dica? Era un grande attore: punto e basta. Tutto oro colato quello che faceva. Era uno di quei grandi che, quando recitava in teatro, come si dice in gergo, «arrivano in platea».

Sempre a proposito di sceneggiati, uno a cui lei partecipò agli albori della televisione, nel 1957, fu Orgoglio e pregiudizio dove esordì Virna Lisi. Vi recitava anche Sergio Tofano.

Era taciturno, silenzioso, appartato. Con me, però, parlava sempre. Facevamo lunghe passeggiate insieme. Un grande signore. Una persona squisita.

Secondo Manlio Cancogni, grande giornalista e scrittore, a una certa età c’è la bellezza di poter dire quello che si pensa. Penso che lei sia d’accordo.

Non c’è dubbio: io sempre detto quello che pensavo.

Parliamo allora di donne.

Partiamo da un ricordo spiacevole legato a Sandra Mondaini. Avevamo fatto insieme in televisione la celebre coppia di bambini Filiberto e Arabella, con tanto di LP. Poi, per la Canzonissima del 1961, lei la volle riproporre con Paolo Poli. Senza dirmi niente. Fu una pugnalata. Perché? mi chiesi. Una donna, la Mondaini, molto determinata e questa determinazione è stata motivo del suo successo. Era inoltre piuttosto duretta, non tenera.

Il marito, Raimondo Vianello, ad esempio, avrebbe voluto restare nella casa di Roma. Lei decise, invece, per Milano 2. E fu così che lui morì a Milano e non a Roma come tanto avrebbe desiderato. Fu poi trasportato a Roma, al Pincetto dove era pure la Magnani, nella tomba dei Rossellini, prima di essere traslata a S. Felice Circeo, dove è sepolto anche Alberto Lupo.

Di tutt’altra pasta, invece, Lauretta Masiero con cui lavorai in Carlo non farlo nel 1957 con Carlo Dapporto e il Quartetto Cetra. Era una meraviglia di semplicità, di carineria. Mi invitava quando aveva Gianluca piccolo, il figlio avuto da Dorelli.

Entriamo adesso nel mondo del grande Visconti.

Potrei partire da quello che Visconti diceva di me: «Pandolfi è misurato». Mi stimava moltissimo, mi regalava libri e organizzava serate con me protagonista nella sua villa sulla Salaria (ricordo ancora, in fondo a un corridoio, un grande Guttuso). Erano le cosiddette “serate Pandolfi”.

In quelle serate presentavo i miei film amatoriali come Ombre, girato nella scuola dove ero nato, in cui interpretavo da solo tutte le parti. Luchino commentava: «Ma conosci ogni regola del cinema!».

In “platea” c’erano Gino Cervi, Andreina Pagnani, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Tina Lattanzi, Francesco Rosi: tutti i migliori attori e futuri registi.

Fui scritturato da lui, nel 1957, per L’impresario delle Smirne dove cantavano musiche di Nino Rota. Ilaria Occhini aveva proposto Alfredo Bianchini, ma Luchino disse: «Voglio Pandolfi: carino, gioioso, più buono, elegante».

La Occhini non era una compagna. Si dava arie perché era la nipote di Papini. Per parlare con lei bisognava fare domanda in carta bollata. Fortunatamente, però, c’era anche la grandissima Rina Morelli che in scena diveniva immensa.

Pensavo ora di fare “botta e risposta” su alcuni nomi che lei ben conosce. Partiamo con il regista Alessandro Blasetti.

Un personaggio indimenticabile. Per Altri tempi mi fece un provino per interpretare lo sposino giovane. Era un uomo molto affabile. Ricordo i viaggi in treno con lui. Era un regista con cui si lavorava bene, che dava soddisfazione. Indossava sempre gli stivali. La sera pretendeva deliziassi tutta la troupe con quello che sapevo fare.

Ora passiamo a un giovanissimo, a Cosimo Messeri.

Ne ho un ricordo positivissimo: carino, grazioso, ridanciano. Mi chiamò per una particina in un suo film, Metti una notte.

Quasi d’obbligo, a questo punto, chiederle del padre, il bravo Marco Messeri.

Bravo? E beh, una meraviglia!

E di Paolo Poli cosa dice?

Non l’ho mai frequentato: era difficile incontrarlo. Non bisogna dimenticare che entrambi lavoravamo. Certo che non si possono dimenticare spettacoli come Rita da Cascia e La Nemica.

Continuiamo con un regista giovane, vincitore d’Oscar: Paolo Sorrentino.

Al di là del rapporto che ebbe con me (mi mandò a chiamare per un provino e mi trattò come un esordiente: non mi prese e non mi fece sapere nulla, sostituendomi con Roberto Herlitzka), trovo che lo caratterizzi un atteggiamento presuntuoso, di grande maleducazione. Si atteggia a sostituto di Fellini, ma Fellini era ben altro artista, mentre La grande bellezza è una noia.

Chi altri vuole ricordare, ora, nel bene e nel male?

Philippe Noiret che mi ringraziò per averlo doppiato in Colpo di spugna di Bertrand Tavernier.

Mariangela Melato che, oltre ad essere bravissima, era spiritosa, divertente, allegra. La conobbi in uno spettacolo memorabile del 1970, Alleluja! Brava gente!, commedia musicale di Garinei e Giovannini. C’erano Renato Rascel, Giuditta Saltarini, Jerry Bruno (uno dei Brutos). Io facevo un cardinale tedesco che parlava romanesco. Da quello spettacolo venne fuori il grande Gigi Proietti.

Sarah Ferrati, di cui nessuno più parla, e con cui lavorai nel 1952 in Sogno di una notte di mezza estate, con la regia di Alessandro Brissoni. Lei interpretava Titania, io Checco Flautino. Poi c’erano nomi memorabili nella storia del teatro italiano come Gianni Santuccio, Giorgio Albertazzi, Camillo Pilotto, Elsa Albani.

Wanda Osiris, una signora nel vero senso della parola. Nel 1954 in Festival di Age, Scarpelli, Verde e Vergani, con la supervisione di Luchino Visconti, lavorava con quattro comici, e di ognuno aveva dato una incisiva definizione. Per lei Raffaele Pisu era “esuberante”, Alberto Lionello aveva “la puzza sotto il naso”, io ero un “pacioccone”, Nino Manfredi “il più simpatico”. C’era poi Henri Salvador che cantava musiche di Trovajoli.

Invece Luciano Pavarotti no, non lo ricordo volentieri, perché mi voltò le spalle.

È una dote per lei l’umiltà?

Come no! Se si è bravi si deve restare umili, mentre molti attori, appena arrivano al successo, si atteggiano, diventano scostanti. Cosa che non accadde al mio caro Marcello Mastroianni, a cui il successo non fece cambiare la sua natura di uomo semplice. Ho avuto una grande amicizia con lui e con la moglie Flora Carabella. Ho filmato con la mia Super 8 le sue case: quella di Roma, di Castiglioncello e di Lucca.

Lei ha fatto anche l’operetta.

Certo! Dal 1972 al 2008 alternamente. Avevo già debuttato anni prima, nel 1967, al Teatro San Carlo di Napoli con Sandra Mondaini e la regia di Vito Molinari. Poi lavorai molto a Trieste. Ricordo Al cavallino bianco e La principessa della Czarda, dove ero in compagnia con Graziella Porta: così carina, disinvolta e con temperamento da vendere.

Cos’altro mi può dire di Graziella Porta?

Che la ricordo con tanto affetto! E sa perché? Per il valore che aveva. Un gran valore. Era puntualissima ed era portatrice di un nuovo tipo di comicità. Era la nuova comica importante e sapeva fare di tutto. Ma la fortuna, si sa, ha gli occhi bendati…

Riprendiamo il nostro “botta e risposta” con tre torinesi. Partiamo da Renato Rascel.

Era un mostro di bravura, ma umanamente…

Fred Buscaglione?

Adorabile, sorridente, una brava persona.

Erminio Macario?

Simpatico.

Se ora, abbandonando Torino, le chiedessi di Totò?

Un gran signore. Punto e basta.

Qualche personaggio che non ha avuto il successo che avrebbe meritato?

Ci sono personaggi che ingiustamente scompaiono, di cui, purtroppo, non si parla più. Uno di questi è Ferdinando Maria Poggioli. Bisognerebbe ricordarlo per almeno due film di cui fu regista: Sissignora e Gelosia, tratto da Il Marchese di Roccaverdina di Capuana.

Poi Dorian Gray, sostituta di Wanda Osisris. Era bravissima e morì suicida.

La sua voce ha un grande ruolo nella sua carriera. Il doppiaggio è una delle sue tante abilità e la sua voce è stata donata a uomini e donne, a personaggi di film di animazione, a Caroselli. C’è qualcosa che mi sfugge?

Ho doppiato di tutto come lei sa: Stanlio, Groucho Marx, Paperino, grandi attori come Spencer Tracy, Peter Ustinov, Charles Laughton, David Niven, Antony Perkins, Michel Serrault. Sono stato il Toto nel Carosello di Toto e Tata. Le Tont nel film d’animazione La bella e la bestia. Tutto documentato. Grande emozione, però, mi ha dato fare il narratore nel Don Chisciotte della Mancha, in anni relativamente recenti, 2006-2007, con le musiche Jordi Savall, il più grande solista di viola da gamba, con orchestra e coro catalano.

Toto e Tata

Mi dica qualcosa su di sé che possa restituirmi un ritratto di lei più completo rispetto a quanto già scritto nel suo libro o nelle varie apparizioni televisive.

Modestia a parte, ero bello tanto da posare per l’Accademia delle Belle Arti. Avevo un bel fisico, ero molto sportivo, ma avevo anche grande amore per le persone sole. Così come ho sempre avuto un grande amore per la mia famiglia. Penso alla morte di mia sorella… Per me la famiglia è sempre stata al primo posto. Mi sono dedicato ai miei genitori fino alla loro fine.

Fra le tante cose ho fatto, mi piace a questo proposito ricordare una trasmissione per Radio Rai, Mi racconti una fiaba?, in cui lavorai per quattro anni, dall1987 al 1991. Pensi, per quattro anni tutte le sere alle 20.20! È naturale che nascesse un meraviglioso rapporto con il pubblico, e fu un vero successo. Avevo genitori che mi scrivevano. Ricevevo anche lettere da autisti di TIR. Era meraviglioso questo rapporto con le persone. Persone sconosciute che il potere della voce sapeva rendere amiche.

Che città, che luoghi hanno fatto parte della sua vita?

Ho amato molto tre grandi città. In primo luogo Roma che era una città bellissima, una città da sogno. So tutto di quella Roma a cui ho lasciato il mio cuore e in cui si parlava il dialetto del Belli. Oggi non è rimasto più nulla di quella città. Pensi che c’era un ponte, il Ponte dei Fiorentini, che portava al Gianicolo, che fu distrutto dai fascisti. Piansi quella volta. Si pagava un soldino per attraversarlo. Poi Napoli: una meraviglia. Con Marcello Mastroianni eravamo pazzi per Napoli. Marcello diceva che vi avrebbe voluto abitare. Io so recitare e cantare in napoletano. La lingua napoletana è affascinante e sensuale.

Infine Trieste così nobile, austera. Bellissima come il suo dialetto e la tradizione dell’operetta.

E, naturalmente, Vivaro Romano, il paese di mia madre.

Vivaro Romano

Le chiedo, a questo punto, di guardare il mio documentario del 1958, Aria di paese, dedicato proprio a Vivaro Romano che è nel Lazio, ma quasi al confine con l’Abruzzo. La prego, lo guardi e poi mi ritelefoni.

D’accordo. Guardo e richiamo.

[Obbedisco alla sua piacevole richiesta. Per più di mezz’ora seguo il documentario a cui, purtroppo, come già lo stesso Pandolfi mi aveva segnalato, manca l’audio. Ugualmente non viene meno l’emozione che suscitano certe inquadrature, alcuni primi piani: il bimbo alla fontana, il ragazzo, le strade, la gente del luogo, la madre dell’attore su una terrazza. L’aprirsi e il chiudersi dello stesso filmato con una suggestiva ripresa dall’alto sul paese. N.d.C]

Eccomi di nuovo. Ho visto e, come promesso, l’ho richiamata. Ho gli occhi pieni di immagini incantevoli. È molto bello. Sono commossa. Ho ammirato alcuni giochi di luce che mi hanno rimandata per incanto a certi film di Renoir.

Sono contento, molto contento…

Mi sento, ora, in debito con lei per il tempo che le ho rubato, per la fatica a cui l’ho involontariamente sottoposta, come quando capivo che aveva bisogno di bere e mi chiedeva un attimo di pausa prima di risentirci di nuovo…

C’è ancora una cosa, però, che vorrei dirle, anzi due!

Qualche tempo fa il prof. Umberto Broccoli mi disse: «Pandolfi, se fosse nato in America sarebbe stato il non plus ultra». A questo complimento che mi lusingò vorrei aggiungere che la mia diversità è stata proprio quella di aver saputo fare di tutto e non quella di cui si chiacchiera.

Poi vorrei confessarle che io, anche se pochi lo hanno capito, dentro di me mi sento e mi sono sempre sentito un attore drammatico.

Le sono grata delle sue confidenze che ci hanno reso partecipi di uno spaccato di mondo in parte scomparso. Per questo non mi resta che dirle: «Grazie, Maestro, delle nostre belle chiacchierate! Grazie della sua umanità! E chissà che presto non resista alla tentazione di richiamarla…».

UN RACCONTO PER IMMAGINI

Elio Pandolfi Barbara Florian

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