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Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Parlare di una grande fotografa per parlare di donne

Ruth Orkin. Una nuova scoperta è una vasta antologica della grande fotoreporter americana in cui si possono ammirare più di centocinquanta foto. Abbandonato il sogno di essere una regista, si serve della fotografia non potendo seguire il suo vero desiderio per questione di tempi e di mentalità. Elegante e raffinata, ma anche profonda e coinvolgente, crea con le sue foto un linguaggio innovativo in grado di andare oltre la fissità dell’immagine

Mariapia Frigerio

Parlare di una grande fotografa per parlare di donne

Dietro le foto scattate da fotografe c’è sempre una storia di donne.

E le storie di donne non sono mai storie facili.

Si pensi a Letizia Battaglia e alle sue lotte, al lavoro nascosto della bambinaia Vivian Mayer e ora al sogno di essere regista di Ruth Orkin, che si serve della fotografia non potendo seguire il suo vero desiderio per questione di tempi e di mentalità.

Forse per quegli anni il percorso di un’aspirante regista si mostrava irto di ostacoli e lei, come la madre (l’attrice del cinema muto Mary Ruby), avrebbe dovuto alimentare l’industria dei sogni, non crearla.

Eppure il film Il piccolo fuggitivo, girato insieme al marito Morris Engel nel 1953 (ma perché c’era sempre bisogno di un uomo alle spalle?), è stato uno dei primi film sull’infanzia, quello a cui hanno guardato autori come il Truffaut dei 400 colpi.

Il piccolo fuggitivo

Del resto era del grande cineasta francese il soggetto e non poteva che essere così, visto che il regista della Nouvelle Vague è stato il maestro indiscusso del mondo dell’infanzia e, soprattutto, dei dolori ad essa legati.

Basterebbe ricordare, oltre al già citato I 400 colpi del ’59, Il ragazzo selvaggio del ’70 e Gli anni in tasca del ’76.

In ogni caso una pellicola d’avanguardia quel Piccolo fuggitivo che grande influenza avrà non solo sullo stesso Truffaut, ma anche sulla Nouvelle Vague in generale e di cui la Orkin sarà montatrice.

Richie Andrusco, 1953

In questa vasta antologica della grande fotoreporter americana (Boston 1921 – New York 1985) si possono ammirare più di 150 foto.

Fotografa elegante e raffinata, ma anche profonda e coinvolgente, supera la delusione di non potersi esprimere come regista creando con le sue foto un linguaggio innovativo, in grado di andare oltre la fissità dell’immagine, con lo scopo di raccontare le vicende che si nascondono dietro a gesti semplici e quotidiani, in una confluenza tra il linguaggio del cinema e quello della fotografia, dove quasi i due linguaggi si fondono.

Osservatrici chine su una statua, Roma, 1951

Grande viaggiatrice, la Orkin ci ha lasciato foto di città come luoghi di sguardi mobili, bambini in vari atteggiamenti, i “doppi” (due donne che guardano un’opera d’arte) fino alle vere e proprie coppie. Poi ancora i suoi ritratti.

Bambina con la mano protesa, New York, 1948

Cresciuta dietro le quinte della Hollywood anni Venti e Trenta, a dieci anni riceverà in dono la sua prima macchina fotografica, una Univex da 39 centesimi.

La sua passione resta però l’immagine in movimento, ovvero il cinema: quello che le è precluso.

Ninalee Craig

Inizierà il suo apprendistato come fattorina alla MGM che le darà modo di osservare ciò che la circonda e apprendere molti insegnamenti che metterà in atto nelle sue immagini fisse.

In parallelo, all’inizio degli anni quaranta, studierà fotogiornalismo al Los Angeles City College e lavorerà come fotoreporter per riviste come «Life», «Look» e «Ladies Home Journal».

Ma la fascinazione del cinema emerge in tutta la sua opera e questo appuntamento mancato con la sua vocazione la porterà a inventare un linguaggio a cavallo tra i generi.

Robert Capa in un caffé, Parigi, 1951

Nel 1939, quando attraversa gli Stati Uniti in bicicletta, da Los Angeles a New York, realizza quello che potrebbe definirsi il suo primo “road movie”, tenendo un diario che diventa una sequenza filmica in sé.

Viaggio in bicicletta, 1939

La sua carriera però decolla con il suo trasferimento a New York, quando lavora come fotografa nei locali notturni e aumenta la sua collaborazione con le grandi riviste.

Don’t Be Afraid to Travel Alone è poi una serie di foto incentrata sulle esperienze che la Orkin e Ninalee Craig (studentessa d’arte americana incontrata a Firenze) hanno vissuto viaggiando da sole nell’Europa del dopoguerra.

Nell’epoca in cui si diffonde il fotoromanzo, emblema della cultura di massa, la Orkin inventa una sequenza estremamente teatrale. E fa dell’amica Ninalee (Jinx) la sua “attrice” feticcio, proponendole di farle da modella per un reportage sulle avventure di una giovane americana che viaggia da sola per l’Italia, affrontando svariate situazioni.

Museo, Donne che osservano opere d’arte

Un reportage che verrà pubblicato l’anno successivo, nel 1952, sulla rivista «Cosmopolitan» con il titolo Quando si viaggia da sole, corredato da consigli su «denaro, gli uomini, e le regole per spostarsi in piena sicurezza e senza preoccupazioni quando viaggiate sole».

Ecco come il reportage diventa un piccolo film.

L’idea di doppio è sempre presente nelle immagini della Orkin usato come espediente per veicolare l’illusione del tempo, per far coesistere nella stessa immagine due fenomeni discontinui, due o tre forme simili che divengono sequenze filmiche in nuce.

L’amore per il cinema – il vero amore della sua vita – si evidenzia anche nei ritratti che sono ritratti spontanei che creano una sorta di complicità tra il personaggio e la sua fotografa.

Montgomery Clift sul set di ‘Io confesso’, Hollywood, 1950

Davanti al suo obiettivo, inutile dirlo, quasi esclusivamente gente dell’ambiente cinematografico (da Hitchcock a Woody Allen, da Lauren Bacall a Marlon Brando): omaggio al mondo che tanto l’affascinava.

Woody Allen,al Metropolitan Museum of Art, New York, 1963

Ed è proprio Allen che, chissà, si potrebbe essere ispirato a una sua foto del ’55 per la celebre locandina del suo Manhattan.

Central Park South in controluce, New York 1955

All’interno e in apertura, foto di Mariapia Frigerio

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