Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

“Per un tentativo di recensione” di Dante e Heidegger

Essere per la morte e viaggiare dentro la morte, fra necromanzia e magia, nella Divina Commedia di Marino Balducci

Francesco Rizzo

“Per un tentativo di recensione” di Dante e Heidegger

Dentro, sotto, nella grotta, da un lato. Fuori, sopra, in cielo, dall’altro. Sono gli antitetici luoghi di un misticismo trasversale, dell’ambivalente corrispondenza magica.

Agendo in uno si agisce in altro. All’interno della Commedia Marino Balducci individua i fili di una velata negromanzia capace di dispiegare l’oltre, l’altro, in seno al mistero del non-ancora, dell’essere per l’altrove. Balducci lascia intuire, seguendo i criteri della completezza e dell’affondo critico, l’importanza delle tante sfaccettature ermeneutiche ancora inesplorate del capolavoro dantesco.

Il viaggio nell’aldilà si configura sia come invasione di spettri, che intervengono ad ammonire della degradazione morale, a esaltare e glorificare, per negazione, il piano luminoso della ‘bella politica’, sia come intrusione della luce nella concavità umbratile del femminile, la quale offre il pretesto, il sostrato materico, su cui agire la riforma delle essenze o la loro trasformazione in altro. Per esperire il senso autentico dell’esistenza bisogna essere disposti a sospendere ogni forma di chiusura autoriflessiva e aprirsi radicalmente all’eventualità della propria inessenzialità, alla propria morte.

Se per Heidegger l’essere-per-la morte acquisisce all’uomo l’autenticità del vivere, la realizzazione delle possibilità scelte consapevolmente in virtù della possibilità del risucchio nell’impossibilità dell’Esserci, ciò, questo discorso, è inimmaginabile senza i precisi connotati figurativi importati dall’architettura medievistica che ha rintracciato gli spazi della comprensione estetica nella visione oltretombale.

Per aver messo a punto, montando e smontando, assemblando e rivedendo, siffatto modello topologico, mai abbastanza sarà omaggiato il Sommo Poeta che ha osato dare un ambiente al dissidio luce/tenebra, logico/irrazionale, egocentrico/alterante finendo per portare dentro il testo lo scandalo del fuori, dell’altro, dell’indicibile, che non solo è stato finalmente detto, ma pure collocato, dotato di diritto di cittadinanza – e questo è magnificamente scandaloso –. Non può forse il XXVI dell’Inferno essere inteso alla stregua di un dibattito sui limiti della conoscenza razionale e sulla possibilità di superarli grazie a una vis preumanistica che scavalca il dato?

Balducci applica i termini di questa intuizione anche alla spiegazione del peccato originale sforzandosi di superare definitivamente i residui di manicheismo che qui e là tarlano la navicula della fede cristiana.

Se Eva disubbidisce, lo fa per curiosa intelligenza, e se lo fa, lo fa solo perché è inscritto in lei, nella profondità del suo animo dove giace il progetto dell’abbandono, della libertà ad oltranza. Giustamente si osserva che, perché si affermi il trino, c’è bisogno preliminarmente di porre la divisibilità dell’Uno o, detto altrimenti, l’Uno deve essere già da sempre non un uno ma un tutto, compressione del plurale.

In Dante appare già una specie di preludio alla dirompenza umanistica, l’accettazione del rischio di dannarsi per seguitare nel folle volo dell’azione umana. Del verso di Inferno XXVI, 125 «de’ remi facemmo ali al folle volo», quale interpretazione dare se non quella per cui, nonostante l’inganno della conoscenza, Ulisse, uomo d’azione e non solo d’ingegno, non riesce a frenarsi, a cedere al timore dell’incerto. Se si trattenesse sarebbe un bruto, una gigantesca fera che non vuole morire, che si contenta di vivere come morta in vita – magistrale traccia, nel Novecento, ne è fornita dall’imponente romanzo Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo –.

A sanare questo diverbio insolubile, questa aporia dell’esserci, tra la sicurezza del giardino paterno e la seduzione dello scavalcamento, dell’estraneazione da sé, intervengono nell’ordine la magia, la negromanzia, il profetismo delle pseudo-scienze rinascimentali, l’esistenzialismo. L’interscambiabilità virtuale – nel senso della potenza aristotelica, che necessita di perfezionarsi in atto – avviene ad opera del sapere misterico prossimo alle scienze occulte e negromantico che restano bandite financo dopo la rivalutazione cristiana dell’astrologia e di certa magia riabilitate proprio nel corso del XIII secolo a partire da alcuni testi di respiro scolastico come, ad esempio, lo Speculum astronomiae – testo attribuito alla penna di Alberto Magno –.

Così il peccato è inestricabilmente legato al concetto di culpa felix, tappa obbligata nell’itinerario di sublimazione dell’Eden. Deve esserci obbligatoriamente il negativo, la negazione dell’unità intimamente connessa all’idea del mondo-casa, per istituire la legittimità del bonaventuriano itinerarium ad Deum, della processione che non saluterebbe nascita senza polarità dialettiche. Non può esserci speranza in un aldilà se non si ammette che non può esistere sbarramento alla possibilità della magia di aprire porte vietate, serrate – come serrata era la porta di Gibilterra prima che Colombo la aprisse, porta di cui Dante pure vaneggiò l’infrazione ben prima del Genovese nell’episodio di Ulisse –.

È la speranza irrazionale, sensuale, corporale, quella di Dante, e poi di Heidegger, di poter non chiedere venia della vocazione all’alterazione, all’allontanamento da sé, rappresentati, da una parte, dal folle volo e dall’altra dall’uscita dalla chiusura inautentica, dall’opacizzazione dell’in sé dell’ente che altrimenti – senza via d’uscita – condannerebbe alla schiavitù del lasciarsi prendere – vedere, toccare, conoscere, fotografare, riprendere, nella rincorsa dei generi espressivi e della risposta poietica – che caratterizza il teoretico, l’inadeguatezza del teoretico, perché solo nell’essere buttato oltre l’opaco, oltre il massiccio sé nel verso della sinderesi assume consistenza la bussola orientativa della prospettiva esistenziale di Dante e Heidegger.

Penetrare il mistero della morte forti di una riflessione consumata sull’invadenza della morte, sulla condizione di autenticità della vita, è il tracciato entro cui l’Autore si muove con escursioni esegetiche che delineano euristiche inusuali, azzardi e abbagli ermeneutici. Ed è grazie agli azzardi e agli abbagli se ancora una volta la Divina Commedia assume nuove coloriture, impreviste, nascoste, originali. Ci viene offerta, per certi versi, una lettura dissacrante, eterodossa, però franca, non ideologica, documentata, che mescola le carte, che riammette lo scartato nelle strategie di decodifica.

Nero, meretricio, femminino, negromantico, materico fanno da sostrato su cui erigere una vera paideia del bianco, del virginale, del beatificante, dello ieratico, dello spirituale attraverso un ingorgo concettuale in cui convergono le strade della contaminazione, del Dasein resettato nel rosso, nel muliebre, nell’accoglimento del silvano, del mestruale, dello spiritico, nell’incontro delle dimensioni entro cui l’Ente è stretto.

Non potrebbe essere un magnifico e ossessionante punto di ricaduta del Cristianesimo, della letteratura cristiana, l’idea di ritornare alla sostanza, al sottostante, alla maldestra voragine che ha condensato le possibilità del volgare per commutarle in celeste sfogo, soffocante preghiera, guarigione che guarda oltre, altro, altrove? Decisivo nel cammino delineato è l’affratellamento tra Dante e Heidegger, il quale con la stessa brillantezza con cui ha ribattezzato il linguaggio filosofico greco nel contesto alterato del post-idealismo ha evidenziato che l’autenticità dell’Esserci si alimenta nello scandalo del fuori testo, del fuori gioco, del terrore della morte, ovvero in vita piena, gratia e plena, pregna di grazia, di quella luce che penetra l’abisso che accoglie. L’abisso si identifica con l’eternità della ripetizione del canovaccio della luce liberata e della luce catturata. Troppa luce rischia di appiattire l’uomo, di sacralizzarlo – cosa che non può essere per statuto –, il buio impenetrabile lo demonizza, così che senza bagliore la via non si lascia adottare dalla verità della vita.

Per finire, la donna scura francescana di Paradiso XI, 65, la paupertas, come si ricava dalla Legenda maior di San Bonaventura e da altre fonti francescane meticolosamente consultate e interpretate da Balducci, rappresenta la mancanza, la privazione, ma anche il sudiciume, la sessualità che fonde dentro la terra le creature, avvicina l’idea del vuoto da colmare, della voragine – infernale da attraversare necessariamente se si vuole scalare il Purgatorio e approdare al Paradiso, voragine come sesso femminile che eleva quando più vi si sprofonda ove sprofondare non occorre come termine volgare ma come metafora di concreto spiritualismo –. Andare sotto, sporcarsi nel mondo per poi aspirare all’apoteosi della santificazione.

C’è ovviamente una radice alchemica che porta a disegnare il percorso di transustanziazione dal bronzeo al lucente celestiale. Il racconto della donna scura potrebbe inoltre fare il verso al racconto socratico del Simposio che citando Diotima riferisce dei natali di Amore, Poro e Penìa. La mancanza è scavo, vena erotico-magica, feroce come una barbara, come una Medea, feroce perché piena di principio, di ancestrale principio non addomesticabile. Potremmo dire che è questo tratto amoroso, questa genetica erotica che fa aderire il magico al barbarico, al mondo oscuro che imprigiona, o può imprigionare, il Sole.

La vera scoperta francescana è segnata dallo spalancamento delle porte d’Occidente all’Uno orientale, al rientro in Uno del tutto. Non è forse la meta più ambiziosa della magia unire ciò che nel reale non è unito e dividere ciò che nella realtà sembra unito? Non è forse questo un chiaro oltraggio al principio di non contraddizione e tout court alla logica aristotelica? Il mago è colui che compie il miracolo di dividere e unire contra legem naturae, anzi nonostante le apparenti prescrizioni della legge di natura. Dante, Francesco, Heidegger rappresenterebbero in tale prospettiva i promotori di una filosofia della morte vivente, anticipabile, risolvibile, manipolabile attraverso l’installazione nell’Essere dell’‘intenzionalità’ che getta e rigetta in altro e in oltre. L’autentica vita sfugge e va oltre, sempre più oltre, in altro, in ni-ente.

Essere per la morte e viaggiare dentro la morte, fra necromanzia e magia, nella Divina Commedia

Ogni attimo del nostro esser-ci (del nostro essere qui) si manifesta e si trasforma: morendo diventa diverso. E noi abbiamo il compito di riconoscerci nel mutamento, interrogarlo e dare ad esso continui significati, peraltro mai assoluti e in perenne trasformazione. Bisogna curarlo, condurlo… come pastori. Ci avviciniamo all’Essere che è Verità nel respirarne e testimoniarne l’impermanenza. Dobbiamo valorizzarla, ma non possiamo enuclearla. Sempre dinamico e inconclusivo è il nostro percorso ermeneutico. La Verità è una notte infinita e indefinibile: abisso. Così, lo scegliere il buio per ritornare alla luce sembra paragonabile, nella Divina Commedia, all’essere-per-la-morte heideggeriano.

Il concetto di “altro viaggio” che appare nel primo canto del poema dantesco è infatti un antilogico, apparentemente pazzesco, andare nel buio all’inferno per ritrovare una magica, unificante via luminosa. Dante sceglie la morte, la interroga continuamente al fine di riscoprire un senso profondo di Vita e Verità, un senso sfuggito dal nostro tempo e dal nostro mondo di uomini vivi affidati a certezze inautentiche e superficiali. Il tema della necromanzia, interrogazione dei morti e della morte come esperienza finalizzata alla scoperta di verità occultate determinanti per il destino dell’uomo, viene così analizzato in questo libro in un percorso evolutivo dalla magia nera infernale, con i suoi limiti e i suoi fallimenti, alla magia estetica purgatoriale, che valorizza il fare artistico dell’individuo come avvicinamento all’Essenza, e poi attraverso la piena conquista del luminoso oro alchemico paradisiaco, paradossalmente individuata da San Francesco nel suo abbraccio dell’oscurità.

 

Durante le celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante: 1321-2021, un progetto che include la prima parte di questa monografia ha vinto il secondo e il terzo premio (sezioni “Teatro” e “Critica Letteraria”) del Concorso di Letteratura e Poesia – Dante: Uno di Noi / Regione Toscana – Firenze.

Francesco Rizzo

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