Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Quando il quotidiano diventa magia
Un sapiente uso delle luci, capaci di dettare con precisione le pause, e un palco disadorno, accolgono Zio Vanja, interpretato da Giuseppe Cederna che, con impeccabile puntualità, alterna l’essere un uomo dolente, ma anche speranzoso, e infine disilluso con una finezza interpretativa di rara efficacia. In un clima di perenne attesa, dove si respira un’aria stagnante, l’arrivo del professore Serebriakov, stravolgerà gli equilibri della vita di campagna dei personaggi. Sarà solo al momento della sua partenza che tutto tornerà come prima. Si è così chiusa la stagione teatrale del Giglio, emozionando, ancora una volta, il folto pubblico in sala
«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico»…
Così, come nei versi pascoliani, ci sono autori per cui il tempo non passa, che restano nella nostra vita, che ne fanno parte, che sono, più di altri, di incredibile attualità.
È il caso di Čechov.
L’attore Roberto Herlitzska, altro celebre zio Vanja, ci disse, al proposito, un suo paradosso: «Shakespeare nei suoi momenti migliori sembra Čechov!».
È un mistero, infatti, rappresentare la vita così com’è e farla diventare universale.
Perché il fascino del mondo cechoviano sta nel suggerire grandi cose attraverso piccoli gesti della vita quotidiana e con la rigorosa quotidianità del linguaggio.
È, il suo, un teatro di atmosfere sospese eppure profondamente immerse nella realtà.
Sarà un caso che nel Gabbiano si nominino Maupassant e Zola e qui, in Zio Vanja, Turghenev, il più francese degli scrittori russi?
Nei suoi testi tutto scorre nella monotonia del tempo e i suoi antieroi “grandeggiano” nella noia, nelle insoddisfazioni delle proprie vite, nelle loro esistenze sprecate.
Il sipario si apre su una scena minimalista che mostra pochi necessari oggetti: credenza, tavolo e letto.
Poi, come in sogno, oltre un velo nero, compaiono (e scompaiono) un’altalena, una botte gigante, un pianoforte, un albero.
C’è inoltre l’uso sapiente delle luci, di Emiliano Pona, che dettano le pause, i silenzi cechoviani.
Così, su questo palcoscenico volutamente disadorno, viene narrata la vita nella casa di campagna di Vanja, amministratore della piccola tenuta di sua nipote Sonia, di sua madre, maman, di Telegin, ex possidente, del dottor Astrov.
Nel fluire sempre uguale delle loro giornate l’arrivo del professore Serebriakov, padre di Sonia, e di Elena, sua bellissima seconda moglie, porteranno scompiglio.
Ugualmente non succederà niente.
Si vivrà, tra rinunce e inerzia, in un clima di perenne attesa, bloccato da un senso di immobilità.
È un dramma, Zio Vanja, che Čechov considerava quasi un vaudeville e in effetti si può passare dal riso al pianto anche grazie alle capacità mimiche e circensi di Giuseppe Cederna, vero e proprio atleta della scena.
C’è in effetti qualcosa di clownesco in questi personaggi tristi che tendono disperatamente alla felicità.
Per respirare quest’aria stagnante è emblematico ciò che la bella Elena – che pure farà innamorare Astrov e Vanja – dirà di sé: «Sono un personaggio secondario. Muoio dalla noia».
Così come sono emblematiche le parole di Vanja: «Quando manca la vita vera si vive di miraggi» e quelle che anticipano il Firs del Giardino: «La mia vita se n’è andata».
Quando alla fine il professore e la bella moglie partiranno, tutto si ricomporrà.
Elena, che aveva suscitato l’amore dei due uomini, seguirà il marito, Sonia innamorata del dottore tornerà con zio Vanja a interessarsi degli “affari” di casa.
E come dice Vanja: «Tutto torna come prima».
Poche parole, pochi oggetti, luci e ombre per rappresentare le grandi illusioni irrealizzate che Roberto Valerio ha messo in scena con energia e movimento in una sintesi che esalta, aiutato da attori eccellenti Alberto Mancioppi, il professore, Elisabetta Piccolomini, la maman Marjia, Pietro Bontempo, Astrov e Massimo Grigò, Telegin.
Ma Mimosa Campironi, la giovane Sonia, riempie la scena con la sua devozione allo zio Vanja, con la consapevolezza per la sua bruttezza, con il suo amore non ripagato per il dottore, indaffarata sempre in qualcosa, disponibile sempre per qualcuno.
Cammina veloce, quasi corre per l’intero palco per tutto il tempo dello spettacolo, placandosi solo alla fine, con il suo monologo che si può riassumere in quel «Ci riposeremo».
Mentre la bella Elena di Vanessa Gravina incarna la statuaria immobilità del tempo contrastando con l’energia di Sonia-Campironi.
Una matrigna e una figliastra che troveranno modo di parlarsi e capirsi.
Per finire con zio Vanja in cui Giuseppe Cederna conferma tutte le nostre aspettative, regalandoci uno uomo a seconda delle circostanze dolente, speranzoso, disilluso, con una misura e una finezza interpretativa di rara efficacia.
Sarà per l’intramontabile Čechov (quasi sempre quando in un film c’è uno spettacolo teatrale il testo rappresentato è suo!), sarà per la bravura degli attori con i bellissimi costumi di Lucia Mariani, sarà per la bellezza della scena ai “minimi termini”, ma di nuovo abbiamo provato l’emozione della magia del teatro.
Così, dulcis in fundo, si è chiusa la stagione teatrale del Giglio.
In apertura, Zio Vanja. Foto di Gabriele Acerboni
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.