Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Quando Orfeo si voltò indietro

Ritornare ai classici. Il celebre cantore della mitologia greca si volta perché il futuro per gli Antichi non è davanti a noi (di fronte vediamo con chiarezza  il nostro passato) bensì dietro le spalle: il desiderio di vedere il proprio futuro con Euridice lo tradisce e punisce

Anna Ferrari

Quando Orfeo si voltò indietro

Nel mito classico le più grandi prove d’amore sono quelle che si dànno al confine tra vita e morte. Come non ricordare Alcesti e la sua dedizione allo sposo, che la porta a offrire la propria vita in cambio della sopravvivenza di lui? Lei sola, dell’intera famiglia, ha il coraggio del gesto estremo, superando in tale sua generosità anche i genitori di Admeto, pur anziani e che avrebbero da perdere assai meno di lei. Non diversamente, Orfeo è disposto, per amore di Euridice, ad affrontare il tremendo viaggio nell’oltretomba, dal quale in pochissimi sono tornati e che segna con la sua esperienza traumatica l’esistenza di chiunque vi si sia cimentato. Il binomio amore-morte, così fecondo di implicazioni in tutte le letterature occidentali e che si presta a infinite interpretazioni offrendo lo spunto a innumerevoli varianti narrative, trova già nel mito greco le proprie radici.

Il mito di Orfeo offre però sul tema alcuni spunti singolari e diversi dagli altri racconti che muovono dallo stesso assunto, ossia quello di mettere in risalto la disponibilità al sacrificio, e al sacrificio estremo, da parte di chi davvero sa che cosa sia l’amore. Su uno di questi spunti vale la pena di soffermarsi.

La storia è nota: il mitico cantore tracio ottiene di scendere nel mondo dei morti per riprendersi la sposa Euridice, morsa mortalmente da un serpente mentre cercava di sfuggire alle insidie del pastore Aristeo che si era invaghito di lei. A Orfeo, disperato per quella perdita, viene consentito di entrare nell’Ade e di farne ritorno con Euridice a condizione che, nel risalire dagli inferi, la preceda e per nessuna ragione si volti indietro a guardarla. Orfeo, però, non sa resistere e suo malgrado si volta, provocando così il definitivo sprofondamento della sposa nell’oltretomba.

Perché Orfeo si è voltato? L’interrogativo intrigava i poeti antichi: qualcuno, come Platone, suggeriva una risposta feroce, presentando un Orfeo pavido e vigliacco:  “Orfeo, il figlio di Eagro, lo rimandarono via dall’Ade a mani vuote, dopo avergli mostrato un fantasma della moglie per la quale era sceso, ma senza dargliela, perché era parso loro fiacco, da citaredo qual era, e privo del coraggio di morire per amore come Alcesti e anzi macchinatore di espedienti per entrare vivo nell’Ade. Proprio per questo gli imposero una punizione e fecero sì che la sua morte fosse opera di donne” (Platone, Simposio, 179 d: Orfeo fu ucciso dalle Baccanti della Tracia, che lo fecero a pezzi e ne sparsero i resti per i campi). Secoli dopo, Gesualdo Bufalino, in Il ritorno di Euridice (1986), avrebbe a sua volta avanzato un’ipotesi non molto lusinghiera: un Orfeo che si volta apposta perché la triste storia del suo perduto amore offra materia di canto a lui stesso e ai poeti dei secoli a venire.

Non tutti però interpretavano la sua figura così cinicamente. Seneca, in una delle sue tragedie, sembra ipotizzare che semplicemente Orfeo fosse smemorato: “Orfeo, immemore, si volse indietro”, dimenticando la raccomandazione che gli era stata fatta, si legge nell’Ercole sull’Eta, al verso 1085 (la smemoratezza di Orfeo è suggerita anche da altri poeti, tra i quali Virgilio). Essere immemore non è un limite di poco conto per un poeta, specie nel mondo antico, dove la poesia era strettamente legata alle arti della memoria: in una tradizione poetica che affondava le sue radici nell’oralità, e nella quale i poemi epici erano tramandati da generazioni di aedi e rapsodi  senza uso della scrittura, non era un caso che il primo poeta ricordato, Omero, fosse cieco e facesse affidamento unicamente sulla propria memoria.  La mitologia classica conosce due principali forme di personificazione della memoria. La prima è rappresentata dalla figura di Mnemosine, figlia della Terra e del Cielo (Esiodo, Teogonia, 135), che si unisce per nove notti a Zeus e da lui genera le Muse, protettrici delle arti, “perché fossero l’oblio dei mali e il sollievo degli affanni” (ivi, 51 ss.;  anche 915 ss.). La seconda è una delle Muse ricordate da Pausania, il quale ritiene che in origine esse fossero soltanto tre. Di queste, che erano le personificazioni delle arti degli aedi, una era chiamata Mneme, appunto la memoria (Pausania, IX, 29, 2).

Orfeo, dunque, sarebbe stato colpito da una specie di amnesia. Del resto anche altrove Orfeo è presentato come abbastanza smemorato: dal suo viaggio nel mondo dell’aldilà, per esempio, ha portato notizie ingannatrici, facendo un po’ di confusione e dicendo tra l’altro che l’oracolo di Delfi era comune ad Apollo e alla Notte, “ingannato dalla sua memoria” (Plutarco, De sera numinis vindicta, 566  C).

A meno che sia stato proprio il mondo dell’aldilà a contaminarlo con la dimenticanza, carattere inscindibile dal regno di Ade, definito, ancora da Plutarco, “dimora dell’oblio” (Consolatio ad Apollonium, 15 = 110 D).  Lo stretto legame tra memoria e oblio è infatti molto evidente nella configurazione dell’oltretomba, soprattutto nella concezione dell’aldilà propria di talune sette misteriche orfico-pitagoriche. Come con straordinaria forza poetica è descritto nel mito di Er alla fine della Repubblica di Platone, nell’aldilà l’acqua di due sorgenti – quella che scaturisce dal lago della Memoria e quella del fiume della dimenticanza, il Lete – si offre alle anime dei defunti. Bevendo alla prima si raggiunge lo stadio della beatitudine, sfuggendo al ciclo delle nascite, mentre la seconda provoca la dimenticanza di tutto ciò che si è visto nell’aldilà e l’oblio totale della propria precedente esistenza, rendendo quindi possibile una nuova reincarnazione.

L’oblio dunque è una delle coordinate dell’oltretomba, e questo basterebbe a spiegare la smemoratezza di Orfeo. Ma l’oblio è anche uno degli esiti del trascorrere del tempo, ed è proprio la dimensione del tempo che occorre tenere presente per comprendere meglio il comportamento del cantore tracio. Qui ci viene in aiuto un passo di Svetonio, che apparentemente non ha nulla a che fare con il mito di Orfeo ma che pone l’accento su un dettaglio importante ai fini della nostra riflessione. Parlando di Domiziano, Svetonio scrive che l’imperatore, poco prima della fine, sognò che gli era spuntata una gobba d’oro sulla nuca; da ciò dedusse il vaticinio di una maggiore prosperità dello Stato dopo la sua morte, cosa che di lì a poco si verificò davvero, grazie alle qualità di moderazione e integrità dei prìncipi che regnarono dopo di lui (Svetonio, Vite dei Cesari, VIII, 23, 2).

L’elemento che interessa è la gobba d’oro posta sulla nuca: essendo dietro le spalle, nella nostra mentalità fa pensare al passato (ciò che abbiamo  alle spalle è infatti, per noi, relativo al tempo trascorso che ci siamo lasciati dietro). Per gli antichi, invece, ciò che si ha alle spalle è riferito al futuro: il futuro infatti, come tutto ciò che si trova dietro di noi, non si può vedere, perché gli occhi non possono vedere alle nostre spalle. Il passato viceversa è davanti, perché lo si può vedere nitidamente (anche se, verrebbe da dire, neppure davanti si può vedere proprio tutto, e infatti molti elementi del passato ci sfuggono, come dimostra il fatto che a distanza di secoli e millenni siamo ancora qui a cercare di capire il mito di Orfeo).

Il fatto che Orfeo si volti indietro ci proietta dunque immediatamente, con un’associazione che per gli antichi doveva essere naturale, nella dimensione del futuro. Le coordinate importanti della scena mitica non sono dunque quelle spaziali (la strada impervia che conduce fuori dall’oltretomba, Orfeo che avanza davanti a Euridice che lo segue, o la folla di fantasmi che si accalcano nel mondo infero, o ancora la porta del Tenaro che permette di uscirne, come scrivono Ovidio nelle Metamorfosi, X, 13-15, e Seneca nella tragedia La follia di Ercole, 586-587), ma quelle temporali: Orfeo si volta perché cerca di vedere il tempo futuro che lo attende con Euridice rediviva. La sposa non fa parte della sua storia ormai finita per sempre, ma sarà la protagonista di una lunga vita che ancora Orfeo potrà in futuro trascorrere con lei. In quel voltarsi indietro di Orfeo, che era in realtà un guardare avanti nel tempo, gli antichi che ascoltavano il mito di Euridice non vedevano solo la smemoratezza, l’incertezza, la passione di un innamorato: vedevano il naturale, ansioso, irreprimibile interrogativo sul che cosa sarebbe successo dopo. E interrogarsi sul futuro, chiedersi come andrà a finire, è forse quanto di più umano faccia in tutta la sua storia il mitico cantore tracio, che per la sua nascita, la sua natura, la sua arte e tutto il resto tanto umano non è.

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