Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Racconti Diversi

David Fiesoli

Racconti Diversi

Biondo

Una volta, era in auge la morte,

ti nascondesti in me.

Paul Celan

Giù, come birilli. Li vedo dalla finestra, cadere sotto i colpi dei fucili, mentre corrono tra i filari delle vigne, nei campi della pianura, in cerca di un nascondiglio.

Ma abbiamo abbattuto anche i pochi frassini, le sparute betulle, i carpini sul ruscello.

Qui, seppur senz’alberi, avremmo vissuto ancora a lungo, tra queste pareti solide battute dal sole e carezzate dalla pioggia: la nostra casa grande.

Ridono, gli aguzzini: hanno squartato gli animali, stanno ammazzando gli uomini in corsa, penetreranno le donne rinchiuse. Poi toccherà a noi. Ci tengono per ultimi.

Alzati, biondo.

Non si ode che spari, e risa, e ancora spari. Se ridono, nessuno si è salvato. Tra i filari delle vigne il rosso dei cadaveri infanga l’erba, dovresti vedere. Quasi sempre, mirano alla testa. Le più vecchie si spaccano come angurie.

Non vieni alla finestra, biondo? Hai paura che qualcuno dei nostri aguzzini si volti e ci veda, che impugni l’arma e ci accorci la vita di qualche minuto sparandoci attraverso i vetri? Mi immagino la tua testa sbalzata indietro, in uno sprecato sventolare di capelli; sbattuta per terra, col ciuffo che non copre il foro del piombo, che non ricade sulla tua faccia imbruttita dal tentativo di evitare la morte.

Invece adesso, biondo, come sei bello.

Sì, hai ragione, stare alla finestra a vedere chi muore è un atto di vigliaccheria. Eccomi, ti sono accanto: stringimi, abbracciami. Fammi asciugare le tue lacrime con le dita, senti dalla mia mano come sono salate.

Bravo biondo, bravo. Non c’è più bisogno di turarsi le orecchie: le tue mani servono altrove. Servono a scacciare quest’ora di luglio, a serrare la stanza, a inchiodare le finestre e le porte.

E mentre i passi si avvicinano, nascondi senza vergogna la tua testa sotto il mio maglione.

Cabras

…nel mare allora andando in un’oscurità maggiore

sogna l’alito di Dio e vedine la chiarità che salva.

Remo Pagnanelli

Lasciare lettere d’addio è un vizio borghese, e sulla scrivania del suo studio non c’erano più né fogli né penne. Così Donato Cabras scelse di essere famoso: chiudendo in un cassetto le penne a sfera, i lapis, la collezione di Bic e i pennarelli a punta fine. Tutti tra il pattume, gli strumenti della sua ambizione: inchiostro e parole sui fogli accumulati e inutilmente rilegati in copertine rosse o bianche, talvolta nere. Metrica accartocciata tra le pieghe dei fogli liberi, gli ultimi scritti. Tutti macchiati di avanzi, tutti sporcati di scarti, tutti partecipi del buttato via e dell’eliminato, eppure pronti a scommettere con l’eternità: le parole nella discarica, i libri triturati dalle lame dei netturbini, i versi appassiti nei cassonetti.

La fatica in pasto ai gabbiani.

Sì, perché al contrario di quanto si farnetica, e lui lo aveva scritto in un suo testo, i gabbiani non sono quei patetici uccelli che aleggiano libertà azzurrine su mari immaginari; non sono quelle bestiole gentili e malinconiche che abitano l’utopia dei cieli insegnando agli uomini il grido della gioia. Al contrario, sono uccellacci fetidi che si nutrono di spazzatura, che mangiano topi e si ingozzano di quel pattume regalato dagli uomini, aleggiano sulle discariche noncuranti del tanfo che sale e si gettano a capofitto tra il sudiciume. Ogni tanto ne rimane qualcuno incastrato con il collo in uno di quegli anelli di plastica che servono per tenere insieme le lattine di birra, e muore tra la spazzatura. Altro che Jonathan Livingstone. Arpie, piuttosto.

È l’equivoco della letteratura, d’altronde, quello di sembrare lo strumento supremo dell’espressione libera: ma la parola scritta, pensava adesso Cabras, è asservita alla parola parlata, è succube di quella inventata dal dio dei ladri. Bisogna assassinare il muscolo della lingua. E ora, che bisogna dar spazio alla fama, è tempo di fare silenzio. Donato Cabras scelse quindi il tacere: volle liberare i versi dalle circostanze, sicuro che la fama non ha voce per gridare, certo che le lettere restano libere finché non si leggono ad alta voce. Donato Cabras non volle nemmeno dar colpe: non scrisse neanche il nome del ladro. Lo trovarono con il collo incastrato in una di quelle corde che servono per tenersi in esercizio saltandole, le gambe penzoloni e la nuca che toccava il lampadario.

Golia (Elogio del Cane)

“Che amo l’uomo, non ditelo in giro”

Cristina Annino

Gioca. Affonda i denti nella palla da tennis, per portarmela. Ha atteso con me la fine di questo mese giallo, e si prepara a bere la prima pioggia, quando si deciderà ad arrivare e lo troverà fuori dall’uscio di casa, a guardare.

Dorme con il muso sulle mie gambe, e mi offre spesso la gola.

Mangia la terra a zolle, perché non dovrebbe?

Si ascolti il cane, e lo si osservi, per essere da lui educati ad ascoltare e ad osservare. Si presti attenzione ai suoi rimproveri, che sono giusti perché sempre utili, scevri dalla tirannia del tempo, e privi d’affanno. Ci si faccia rimproverare dal cane, che non ci chiama padroni, e lo si rimproveri sempre con lo stesso garbo.

Sia lode al cane per la sua costanza, e la pertinacia della sua difesa, quando alza la testa fra l’amico e l’estraneo e sta attento ad ogni gesto, fino a quando sia chiara qualunque intenzione, a cui segue se buona un ondeggiare di coda.

Sia lode al cane, per la sua conoscenza delle lingue che traduce in simultanea, per l’udito allenato alla verità che deduce dal tono di voce, per la sua capacità di intuire gli inganni e di accettare il destino, per il suo rifiuto di capire cosa vuol dire abbandonare, lasciare, e tradire.

Sia lode al cane, a cui insegna l’odore di piscio, sebbene non legga Proust.

Leucosia

“Io sono sconosciuta in questa terra,

che posa profonda sotto il peso del mare,

il sole la guarda con raggi serpeggianti,

e l’aria fluisce tra le mie mani”.

Edith Södergran

La nuova casa, stavolta, era una roccia salda, che si stagliava contro la montagna a ridosso, vicino al piccolo porticciolo prostituito ai souvenir, pieno di trattorie e bancarelle da poco. Era una casa color ocra, a contrasto con il nero degli scogli ferrosi. Era una casa sul mare, di quelle con le fondamenta sott’acqua, innalzate tra le piccole e tortuose strade piene di improvvise terrazze a picco sugli scogli, di angoli inattesi dietro qualche pianta di ficus o di ibiskos, e scorci diroccati sull’acqua. Dalla finestra senza imposte, Leucosia si era abituata ad osservare, tutti i giorni in fondo al molo, due pescatori in attesa, uno anziano e appesantito, l’altro giovane e basso di statura, immobili sotto il caldo, la pioggia, o il sole che combatteva le nuvole a strati. Più oltre il paese, con i resti di una piccola fortezza sporgenti sull’acqua, quasi a galleggiare.

Il pomeriggio era appena iniziato. Leucosia sapeva che avrebbe dovuto affrettarsi invece di starsene alla finestra.

«Non c’è molta gente nemmeno sul lungomare», pensò Leucosia. Più tardi, dopo il lavoro, il lungomare illuminato avrebbe raccolto passi veloci, voci concitate.

Il giorno si fa freddo verso sera….

Leucosia aveva già raccolto i fogli delle sue canzoni e li aveva legati con il solito nastro. Dalla finestra senza imposte, voltò le spalle al mondo e guardò dentro casa: avrebbe potuto essere un eterno rifugio, le pareti di solida pietra non tradivano spaccature, il marmo sulla cucina era rimasto intatto, le travi di legno sui soffitti non erano marcite, il bagno, una volta tolte le ragnatele, pareva una grotta di roccia. Ma Leucosia era di nuovo costretta a radunare le sue cose alla rinfusa. Di corsa dalla strada sarebbero arrivati i gendarmi, le milizie: lei li chiamava le corde ai polsi, i tappi nelle orecchie.

Leucosia ricordava il giorno in cui era arrivata in quel porto di mare, con la sua chitarra nascosta in una valigia e le sue poesie legate dal solito nastro. Incantata dai colori, aveva pensato: mi fermo qui per un po’, dove ci sono tanti colori c’è bisogno di musica.

Si era fatta degli amici, che venivano a sentirla cantare di nascosto. Nemmeno il tempo di salutarli, adesso. La polizia, avvisata da chissà chi, l’aveva scovata a dormire in quella casa, sotto le coperte che si portava dietro di città in città, e uno in divisa le aveva detto: «Signorina bella, lei sa che è proibito occupare le case degli altri».

«E di chi è questa casa?» aveva chiesto Leucosia.

«Lei non si preoccupi, di sicuro non è sua. Quindi, prenda la sua roba e se ne vada».

«Ma questa casa è abbandonata. Io non faccio nulla che…»

«Se le chiedo il permesso di soggiorno, i documenti, scommetto che non li ha – la interruppe la divisa – Vuole che l’arresti e la rimandi al suo paese, o preferisce tornarsene via da sola? Si può sapere da dove viene?».

Leucosia se n’era andata senza rispondere, mentre il poliziotto le gridava dietro stia attenta, non le conviene, non mi costringa.

La notte seguente, Leucosia era di nuovo in quella casa, con intorno un po’ di gente a sentirla recitare le sue poesie con la chitarra. E giorno dopo giorno, notte dopo notte, il numero di quelli che s’incantavano alla sua voce era cresciuto.

«Si va a casa di Leucosia stasera», si sentiva dire per le strade.

«Si va a sentire Leucosia cantare», si diceva sottovoce per le scale, nelle piazze e dentro i bar.

Il mondo fa il bagno nel sangue – intonava lei, alla chitarra – Il mondo fa il bagno nel sangue perché Dio possa vivere…, cantava sulla terrazza davanti agli amici, mentre i due pescatori, immobili e con le ceste sempre vuote, l’ascoltavano dal fondo del molo.

Leucosia sperava che il tempo le fosse più amico stavolta, ma non era durato che poche settimane. Più amici venivano ad ascoltarla, più si accorciavano le giornate. E quando tutti per strada fischiarono i suoi motivi, la polizia non poté rimandare. Prima scomparirono gli amici, poi la gente sul lungomare sotto alla sua casa. Qualcuno la avvertì: vengono ad arrestarti, o a rimandarti da dove vieni, se vieni da qualche parte.

Invano i ricordi la imploravano di restare: lei li portava con sé. Ne aveva di secolari, da cantare e raccontare, in qualunque posto li avessero dimenticati. Lei li portava con sé come una bestia la so

Tre donne in centro

E’ cresciuta in silenzio come l’erba

come la luce avanti il mezzodì

la figlia che non piange.

Vittorio Sereni

Tanto tempo fa, tre donne discutevano delle cose che cadono.

Cadono gli uomini in guerra, le foglie, gli aerei, le case sotto i terremoti, le città assediate e le valanghe dalle cime a primavera. Cadono le ricorrenze, a rammentare gioie o nostalgie, o a fomentare tristezze se chi avrebbe dovuto festeggiarle con noi è caduto a sua volta: la caduta per eccellenza è il lutto. Ma le tre donne preferivano parlare di quando cadono gli amori: passioni sbattute per terra all’improvviso, stramazzate senza motivo, colpite alle spalle dagli uomini che suicidano l’idea che le donne si fanno di loro.

«Lo voglio come una città – diceva Gloria – Deve coltivare la parola e nutrire le piazze, gridare ai forti e sussurrare ai deboli. Deve poter dare riparo ai suoi figli quando ne avessero bisogno, e li difenderà con la spada e la lancia. Le sue strade devono illuminarsi come il cielo che rosseggia all’alba, e a tutti gli angoli dovranno risuonare, quando c’è tempesta, le campane del rifugio. Il buon consiglio e il braccio forte, questo desidero».

«Lo voglio come una montagna – diceva Diana – lontana e inaccessibile. Deve costringere al cammino e restar lontano dai rumori, coprire le grida e disperdere gli intrusi. I suoi boschi saranno impenetrabili, e li difenderà con l’arco e le frecce. Lì mi troverò io, a caccia nel territorio su cui la luce disegna soltanto le strisce che le fronde degli alberi le consentono di disegnare. Così, la prima volta che lo toccherò, sarà sulla nuda terra. Il cuore e la mente, questo desidero».

«Io – diceva Wanda – volto quasi sempre le spalle alle città che mi si vorrebbero stendere davanti: odio anche la mia. L’aria rarefatta della montagna gela le idee e soffoca la voce. A gridare di lassù, risponde solo l’eco, ed io lo detesto perché pare ci sia qualcuno e non è vero. A me piace l’inverno, il secco stormire delle poche foglie gialle ancora attaccate ai rami, il pesticciare dei piedi sull’erba. Io penso a una finestra e ad un abbraccio: non amo e desidero che il fuoco di casa».

Gloria ha trovato una città che le voleva costruire intorno una cinta di mura come una fortezza inespugnabile a cui chiedere le chiavi per uscirne. Si era dovuta difendere da quelle mura che le si stringevano intorno a soffocarla e le ci erano voluti anni per spezzare tutti quegli specchi che le mostravano il volto di un uomo che lei non riconosceva nemmeno più. Aveva impiegato anni per capire che non avrebbe potuto rispettare i sensi unici, i divieti d’accesso, le soste forzate. Anni, per comprendere che aveva scelto la città sbagliata.

La montagna aveva abbandonato Diana. Così rarefatta, che ogni suo slancio si impantanava nella fanghiglia di neve e ogni entusiasmo scivolava su una lastra di ghiaccio. Aveva rischiato, Diana, di restare sola ad ascoltarsi l’eco davanti a un uomo muto. Aveva rischiato di seppellirsi sotto una valanga quando aveva provato a gridare più forte. E aveva pensato che sarebbe stato meglio congelarsi sotto la neve che lasciar scendere lentamente il gelo su quelle vette altissime dove aveva creduto di poter trovare libertà e aveva incontrato il vuoto.

Da qualsiasi sua finestra, Wanda vede una casa. E da qualsiasi casa vorrebbe vedere una collina, come quando era piccola e sognava insieme alle sorelle l’uomo da sposare. Ora che metà della sua vita l’ha trascorsa in una di quelle città che piacevano tanto a Gloria, Wanda si è stancata di trovarli tutti lì al suo risveglio: il marito che assonnato cerca la maniglia della porta del bagno e piscia quasi sempre sulla tazza del water, e i figli che tornano e vanno da quella casa come se sposarsi fosse un incidente di percorso e viaggiare qualcosa di dovuto. Wanda sa che qualsiasi finestra, casa o giardino lei abitasse, li troverebbe tutti lì al suo risveglio. Gloria, rimasta sola, le dice spesso: «Wanda, vattene». Diana, che si è costruita una corazza di roccia, le consiglia di non dar loro troppo retta.

Ma la prima fu la madre, che quando la sentì parlare con Diana e Gloria, la mise in guardia: «Wanda ma cosa credi, che esista l’uomo che vai cercando? Anche tu, come tutti, dovrai adattarti. Lo vedrai, la passione sparirà con gli anni. Quel che resta sarà affetto, sarà abitudine». Erano in cucina, e dalla finestra si vedeva il profilo delle colline alla poca luce del tramonto appena caduto. Le tazze bianche sul tavolo non contenevano più caffè, ma solo il cucchiaino con quale le donne lo avevano addolcito: tutte, esclusa la madre, poco abituata ad addolcire qualsiasi cosa.

«Quel che resta sarà abitudine», si ricorda adesso Wanda. Pensare a suo marito trasformato in abitudine dopo oltre trent’anni di matrimonio le pare irrispettoso, ma quel che la disturba è un uomo che passa il suo tempo sdraiato, e qualunque cosa gli venga in mente, è da sdraiato che vuole farla.

A spezzare i pensieri giunge la sera, l’ora della passeggiata in centro. In mezzo agli antichi palazzi, tra viuzze tortuose e strade lastricate, la città torna ad essere piccola e vecchia, una di quelle da girare solo a piedi, e le montagne non si vedono più, coperte dalle case e dalle chiese. Davanti alle vetrine dei negozi o a una tazza di caffè come fossero in cucina, sedute nei bar a chiacchierare, riescono a confessarsi senza dire di sé. E si passano le parole come gli anni della loro vita, le scambiano con apparente noncuranza senza preoccuparsi di nascondere quello che a chi le ascolta e a chi le guarda pare un vacuo chiacchierare e invece è messaggio dell’anima, perché quando le tre donne parlano tra loro e sono sole, condiscono le frasi con gesti ampi che rasserenano tutta la giornata in quelle poche ore di passeggiata. È un rito dal quale qualsiasi uomo è escluso per natura: le sorelle in centrocittà si scambiano messaggi incomprensibili a chi non divide il destino di derubato. È solo tra di loro che ridono dei sogni, si commuovono e raccontano quello che rimane da raccontare come se dicessero l’un l’altra quali sono i trionfi che non hanno avuto. Ciò che le unisce è la guerra che combattono insieme contro le cose che cadono, e la terribile, dolorosa consapevolezza che la madre aveva ragione a disossare le parole.

Ma ora Wanda non permette alla paura di rubarle altro tempo: lo recupera con Gloria e con Diana in centrocittà, lo riversa in frasi e nelle tazze di caffè, lo santifica con le parole che indossa e che scambia con le sorelle mentre passeggiano in centro, dopo aver abbandonato nelle stanze di casa figli mariti e mucchi di ossa. Le cose che cadono non atterrano più gli entusiasmi, quando le tre donne sono insieme: si può solo intuire, la forza di quella lenta andatura condita da chiacchiere e risate, sorrisi e vetrine. Ci si può solo chiedere perché Wanda è ancora in piedi, come Gloria sia riuscita a fuggire dalla città-fortezza, e in che modo Diana sia diventata una roccia capace di sopportare il peso di una montagna.

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