Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Su “Tentativi di certezza” di Maura Del Serra

Daniela Marcheschi

Su “Tentativi di certezza” di Maura Del Serra

[Un saggio di Margherita Pieracci Harwell]

Dei Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009 (Venezia, Marsilio, 2010) di Maura Del Serra, che raccolgono il miele distillato in un decennio di estate matura, troviamo una prima chiave nelle exergues – da Wislawa Szymborska: “il savoir vivre cosmico / […] esige […] da noi […] / una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote”; e da Derek Walcott: “Il destino della poesia è innamorarsi del mondo / nonostante la storia”. Partecipazione stupita – dunque – , e stupita vuol dire già ammirativa, quindi innamorata, innamorata del mondo, di quel gioco “con regole ignote” che è nel nostro cosmo la vita, a cui è tuttavia d’obbligo partecipare, così come la poesia non può non innamorarsi del mondo, malgrado la storia. Meraviglia (stupore ‘religioso’, awe ), innamoramento, che è già necessariamente partecipazione: questa la legge ineludibile della poesia, che l’artista crea nel dolore poiché non ha palpebre per risparmiarsi la visione costante del “nonostante” la storia, inconoscibilità delle regole.

Margherita Pieracci Harwell

Così, queste poesie, come tutte le poesie di Maura Del Serra che l’hanno condotta fin qui, si tessono di estasi e di orrore, ma, miracolosamente, salvando la lievità, delle immagini – e forse anche del cuore – come annuncia, con le scene figurate del suo ventaglio, il preludio Trovarsi. Già il preludio, però, ha due antine, e la seconda (Canzonetta per il ventunesimo secolo) molto meno lieve, che pure accenna una promessa di bene, cioè di “significato”- perché la Del Serra ha una profonda vena di ragione, alla quale non sorride un bene che non sia intellegibile. Del resto si sa, dalla sua produzione precedente ed anche da quanto traspare della sua vita, che questa poetessa si muove con passo sapiente tra mondi opposti: l’assoluta vulnerabilità del segnato da Dio (il poeta), e il saggio governo di una casa, una famiglia, squisitamente “normali” pur nella loro rara armonia.

Maura Del Serra

Coerente, questo libro composto di otto parti – perciò si può cominciare dal parlarne in generale, ma poi, da vicino, è chiaro che la coerenza nasce dall’equilibrio di opposti, costituiti più che dai singoli componimenti dalle sezioni, fondate non sulla cronologia ma sulla mood che ad una ad una diversamente le governa.

La prima sezione si muove, come il libro intero, sui due fili dell’orrore del vuoto (l’eterno vuoto dell’ “ignoto” su cui si libra l’uomo, ma anche, in particolare quel vuoto che si esprime oggi attraverso la tecnologia, presuntuoso e pungente nei suoi aghi metallici), e della speranza; ma se il primo filo non trionfa, certo è forte qui l’ombra del travaglio. Il titolo, Forza maggiore, si chiarisce nella poesia eponima, collocata quasi al centro della raccolta. Da identificare forse con la “necessità” weiliana (attenuata in savoir vivre cosmico dalla Szymborska del primo exergue), questa forza “prima” è anch’essa insieme bene e male: ci schiaccia, ma in ciò ci modella, scolpisce attraverso le lacrime le linee uniche di un volto, ancora indecifrato ma già redento in tal modo dal suo peso. Il “noi” di questi versi suggerisce l’universale destino umano, ma a plasmare i singoli volti (destini), la “forza” si vale di colui che si cela appena nell’“io” della prima e della seconda composizione. Partecipe e redentore insieme del male di vivere, l’io non può essere che il poeta-madre, che “partorisce” dal noto l’ignoto – così si comprende che l’“ignoto”, parola tante volte, pur dolorosamente, ritornante, è anche un nome del bene – “il nuovo” -, come lo è la “figura” dei “giardini di sapienza”, pur restando “sapienza” un opposto di “ignoto”, in questo salvifico labirinto di oximora. Il poeta è, del resto, protagonista assoluto di questi versi, “inerme tedoforo esiliato nel suo lume sottile”, lui che solo ricuce le “lacrime brucianti dei violini” alle “risa dei flauti cristallini”, che solo esplora “il mare rotondo della storia”, in bruciante “passione di memoria”: passione di eternità in chi è pure “destinato a sparire” – “in breve vivo in breve morto”-, eppure incarna la promessa che nulla in realtà si perde, “poiché ogni cosa dura / nella memoria dell’essere”. Fino a parere che trapassi, il poeta, proprio nella memoria “luce della parola”, “ombra di Dio”, che “fa guerra / fiorita di coscienza a ogni eclissi della terra / nel bruto male, nell’informe oblio”.

Ma non ci e dato dimenticare che la dignità del poeta è proprio nel non potere sciogliersi in una sola figura – Prometeo incatenato al punto di passaggio da questa realtà a un’altra, fattosi “porta”, come recita con assoluta pertinenza il titolo della breve poesia che segue a Forza maggiore: “Di là la musica d’oro leggero, / le nozze mute di tempo e eterno, / le creature versate in essenze, / l’estate sfolgorante nel cristallo d’inverno. / Di qua stridori d’ansia, millenarie cadute / e dolore di esistere dentro la propria fine”. Sulla stessa lunghezza d’onda – dopo gli stridori della Tecnodivinazione e della Pubblicità, che ci conducono alla tenerezza per le vecchie artigianali chiromanti (“quella fragile mano peritura / che crea il destino e in lui si trasfigura”) – si avvera infine la compresenza in Voce di voci. Nell’acqua “dolce di sale” i due mondi opposti dell’acqua dolce e dell’acqua salata sono, come attraverso la “porta”, immersi l’uno nell’altro: “Acqua dolce, la voce spande “Sarà per sempre”, / […] Acqua salata, “Tutto passerà” […] / Acqua dolce di sale, la voce solitaria / del poeta è la sete della nube nell’aria, / le ossa del pianeta avvolte alla sua stella”. E ancora si ripete che solo la voce del poeta saprà in lingua non umana “forgiare Parole per tacere “ solo il poeta saprà, “in ogni anonimo, festivo sguardo” tessere e alzare lo stendardo “che spalanca in creazione l’imperiosa prigione”. Solo questa poetessa che noi ora leggiamo, “eterna bambina senza attese”, che nuotò come Alice nelle sue lacrime, in quell’ Acquario memoriale sa vincere la lacerazione del tempo : “fa dei passi presenti un nido d’echi, ripiega / in croce d’anni le braccia protese”. “L’arte può far[le] vivere ogni vita / […] ma di una sola vita [lei può] testimoniare, / sentirla eterna”, quella per lei e attraverso di lei “è la storia, e niente la cancella”.

Ho presentato fin dalla prima sezione questa lunga rete di citazioni, perché ne balzi l’evidenza di una poesia che sgorga da una vita vera, semplice e irripetibile, costellata di lacrime e risa (di violini e di flauti), ma decantate in uno svariare di immagini e di musiche che si fermano in un unicum tra tutti riconoscibile. Vita paradigmatica, iscritta nel suo “presepe marino pistoiese”, dove qui appena si adombra la perenne-precaria vicenda umana degli affetti basilari e già si proietta nei miti eterni – perché questa è poesia colta, tutta tessuta di antica sapienza, come di meditatissimi pensieri, nella lievità di note e figure.

Le sezioni successive non si scartano da queste premesse e si continua a infilare perle di citazioni, ma occorre anche cogliere il “cuore” di ognuna. Il polittico per la via ignota, che forma la sezione II, propone immediatamente, nel titolo, quella parola, “ignoto”, che costella Forza maggiore. Si apre “spiegando” il contrasto sotteso a tutta la raccolta, tra “familiare” e “straniero”, dolcezza dell’“eden domestico” e “crepa” fulmineamente aperta sul “tormento della mortalità” – contrasto solo a metà sanato in “catene rifatte grazia e rima”. Il poeta è ora, nella notte, nell’interregno, come abbandonato dal suo dio, “l’oro del senso alato / è piombo nel crogiolo rovesciato”. “Alzavo lieve la mia sfera d’aria / nella sfera d’inchiostro […] / ora discendo a balzi, racchiusa in quella sfera / d’aria, la scala che l’inchiostro annera / con parole perdute / di vite non vissute…”

Nel medio abisso “la grazia è un’acqua carsica che fugge le labbra” – mito di Tantalo passato attraverso l’immagine del fiume carsico, benedetta nell’Inno alla gioia da Margherita Guidacci. Già era venuto alle labbra il nome della poetessa di cui Maura Del Serra ci ha ridato l’Opera dopo decenni d’ombra. La Guidacci delle rime baciate, la Guidacci, ahimé, in questa sezione, di Neurosuite, del ricordo felice nella desolata miseria: Nella caverna: “Era profonda e chiara / la sussistenza, / oggi vuoto una coppa / di malata innocenza – / annegano nel Lete / tutti i vergini uccelli della sete- / […] l’eternità del sale alto sul fondo del mare / mi pungeva la mente a parte a parte – / ora nell’aria turbinano a lutto le buie fitte carte / del Karma presagito, / terribile infinito”, fino alla Canzonetta dell’impersonalità: “io fui mutata in mare / senza pesci, abissale / insondabile riva / che mi pronuncia viva / senza dirmi” e a Specchio d’aria: “Volano immobilmente le betulle / nella finestra intrecciate. Si stacca / l’ora dal qui, l’osso ruota sul cardine”. Siamo travolti dal fiorire delle immagini, dallo sgorgare del ritmo, eppure permane il rotto gemito: “Sono il grano che già patì la falce / e trascolora fruttuoso, o le stoppie /disdegnate dai carri, gli aghi ciechi di sete? / Non lo saprò…” (Incoscienza). La Guidacci, anticipavo, ed ecco Maura del Serra chiamarla: Variazione su un tema di Margherita Guidacci: “La vittoria è una vetta, ma la sconfitta è un continente / un continente dove in cerchio vano m’aggiro, / sete negata ad ogni conoscenza, / a vero vuoto che irraggi presenza, / a ombra densa che partorisca luce”. Così, senza capovolgimenti, Cattura: “dentro / il mio ghiaccio improvvisa si acumina la luce / di un amo teso vero la gola” o Commiato: “Qui, perduta nel mio cuore bambino, / mi disciolgo da te come dal labbro preghiera, / circumnavigo il pozzo del mio niente, / vuoto coppe di lacrime posate sulla ghiera…”, fino al respiro di Terrestre: “dentro il cieco destino / sbendato dalla fata libertà, / lottiamo nella selva a partorire l’umano…”, che al capovolgimento prelude: – Sotto-sopra: “…lavo il contuso pensiero / dai colpi di teatro della sorte – / con volo millimetrico, con danza solitaria, / io disegno la stella della Sera”.

“Tutto è il prezzo di tutto”, sono le Parole del valitudinario; pur sanguinosa, si disegna la vittoria: “Le mie dita future al buio toccano / gli indicibili fiori nascosti dalle spine”; e in (Enigma) “Coronata di cenere rovente / io tra i sopravvissuti dell’Amore / vedo il loto a otto petali”, e in (Qui) , anche se è solo un augurio: “In me torni a formarsi goccia a goccia la luce”. Ne sgorga la Canzone per rinascere: “mia bocca buio-muta, fatti barca, / porta le ceneri delle parole, / che tanto amasti, fino al Grande Fiume”; quindi: “brucia il grido d’assenza, / alza il tuo dio maggiore / sul pulviscolo cieco dell’inappartenenza, apri la solitudine del plurimo Vero: / è fede il Nome d’arte di ogni scienza”. “Ero la danzatrice che diviene la danza” – canta Maura nelle Tre età – sarò “il diadema postumo d’altra costellazione /…/ Sono il poeta, il dolceamaroamore, / la musica del giorno che finisce e comincia” “Noi scriviamo col sangue su uno specchio, / come Pitagora la nostra vita, / e gli angeli la leggono riflessa nella luna” (Un padre antico). Maestro, Pitagora; maestro, come per la sua Margherita, anche l’albero: “Imita le radici, l’immobile filiale fedeltà al ventre della zolla, al pane / imita il tronco […] anellare nebulosa / […]; il ramo, che vola da fermo / nel vento […] su tastiere di luce, / […] la foglia, ciclica navicella /delle stagioni […] / imita il riso prezioso del fiore, / il suo calice fragile che scolpisce la stella”. Rifiata nel grembo delle parole – ghirlande di pietre, luce all’occhio, ali al cuore, scintille, colonne, mappe del labirinto, tavole della legge; sfiora le Voci dalla strada, poi “scend[e] / nel silenzio dove altre voci intend[e]”; “senza tempo […] viv[e] nel [suo] tempo, spremendo / un latte lucido di redenzione / dalle opache mammelle della forza – / goccia a goccia, pagandolo in monete d’addio” in un trafiggente presagio che è speranza: “cadrà in scaglie il sonno / policromo dei giorni dolceamari” finché “l’esilio scuro [le] si schiari”: “…alla temperatura della fede / si forma il cuore, inviolato e solo, / il petalo precipite risale / mulinelli di gravità mortale”. Il cuore, inviolato e solo, della poetessa “ospite lenta, buffa / sulla sua antica zattera con ruote / che per un uomo e una bimba divenne / una barca, ed imbarcò grano, erbe e frutti / e vesti di parole per l’anima di tutti, / infine si ancorò all’arcobaleno / e nel suo ponte celeste fu seno”.

Si conclude con i colori dell’arcobaleno la lunga storia frammentata del poeta che colse fiori tra le spine. È durata in tante metamorfosi per due intere sezioni. Ora il travaglio dello scavo si allenta, il canto si stende, sereno, nel dono. È la terza sezione – Dediche – dove a tratti brilla la gioia semplice, fiorita sotto l’arco-in-cielo sull’Arca. Ma per questa lieta navigazione il poeta si impone una disciplina di umiltà – A se stessa, di notte: “non voltarti: sii fede / che sa, perché non vede”. Sono doni ai familiari e agli amici, ricordi e celebrazione di eventi. Il primo dono è per la madre giovane, da cui aveva, come ogni figlia, tentato di fuggire “su praterie d’arazzi aperti a corse abbaglianti,” per tornare, tardi, a raccogliere lo sguardo sul cartoncino di una foto anni Quaranta, dove si staccano le trecce attorte e la trina bianca del collettino. Poi quella stessa madre, “indulgente e terribile come sorella morte”, si trasfigura in Demetra: “Adesso che sei fiore della memoria, io posso / intatta riconoscerti senza angoscia e sventura: / la catena di sangue ricongiunta / darà limpido fuoco stellare d’altra vita…” Si riconosce nel padre, che “nel sonno intonav[a] / romanze d’opera […] / e nella veglia ergev[a] sapienti cattedrali / di legno, in sfida al tempo, col [suo] orgoglio bambino”. Si specchia in lui per quell’“orgoglio bambino” – che echeggia il “cuore bambino del poeta”, “eterna bambina senza attese”-; canta la somiglianza, senza veli: “il tuo amore testardo, malnoto, ora è vicino / alla tua figlia estrema che distilla / minime cattedrali di parole in un miele / amaro d’ansia, dolce di preghiera”. Accanto ai genitori torna l’infanzia, col ricordo della “rondine impazzita / di terrore e fuliggine nel tubo della stufa”, profetica “anima espiante“ che cerca “metafisiche finestre per svolare” e le si posa leggera in petto mentre Maura trapassa in sua madre “quella sera, ogni sera”. Ecco un’altra, tutta lieta, visione di sè: “Come quando minuscola intrecciavi i tuoi nidi / segreti di parole, tutta implicita ai piedi / dell’angelo romanico affrescato da tuo fratello” – nel tempo rivelato: immagine che svaria nel primo incanto di giovinezza “come quel primo bacio tra l’odore innocente / di quel viso incantato nella frusta piazzetta”, da cui nascono le poesie per Moreno: “Argento respirabile del diletto passato / e quello della folgore che la quiete ha trovato” ; “Un cerchio di profilo si tramuta in segmento. / Il pensiero al suo culmine è follia o sentimento. / La quiete è l’angelo del movimento./ Io e te, doppio cristallo che racchiude ogni vento” (Nuclei); fino a quel Tutto che sigilla la sezione con una vittoria del bene: “Cuori indivisi nei corpi disciolti, / ripetiamo a chi viene “Tra lutti e batticuore, / tra spine e cecità, qui tutto, tutto è il migliore”.

Balza alla memoria l’antica zattera “che per un uomo e una bimba divenne un’arca”, e ritroviamo intrecciato all’uomo e alla poetessa quello che Cristina Campo chiamava “il filo d’oro del figlio”: la bimba nata mentre il temporale “in oscuro tripudio di profezie batteva”, la figlia che offre a padre e madre uno specchio alzato nelle mani fidenti. Ora la ritroviamo, Irene, la figlia donna e già quasi madre che ha spiccato il suo volo, nell’ostinata memoria del suo primo grido gentile che a Maura echeggia sempre nelle vene (come non si allontana la misteriosa immagine di Congedo che trascende la perdita: “Vidi l’arcobaleno / sul tuo piccolo seno / per secoli dormire / e mai da me partire – / finché fu notte in pieno mezzogiorno / e non ci fu ritorno per le nostre due vite / nei secoli murate, nei millenni smarrite. / Pure, remota quell’iride ancora / dell’attimo all’origine di te m’innamora”). Lo sbocciare di Irene in un fiore compiuto in sé oltre la pianta che lo nutrì, è visione radiosa per la madre che vi contempla lo sbocciare perennemente nuovo della vita: “Noi, d’improvviso figli di voi figli, gettiamo / tutti i nostri tesori rugginosi / per il vostro sorriso di maestà innocente” (Eros, ai giovani amanti). Ma la vita vittoriosa va oltre; nasce il piccolo Zeno: “Si riaccende col tuo germoglio oscuro / il nostro anno dell’anima, e fa tenera estate / di latte i sensi, ancora dall’etere nutriti / nel sangue di mia figlia in tropicale rigoglio. Il linguaggio dell’Eden suonerà senza orgoglio / nel tuo vagito…”.

Il lettore fedele sapeva che Maura Del Serra aveva cantato la gioia piena, la vita trionfante, accanto allo smarrimento dell’ignoto che conduce i poeti, nati sotto Saturno, a sanguinare nella contemplazione senza veli del baratro. Ma mai così limpidamente accostati erano stati i due mondi, mai così inequivocabilmente la dolce vita normale aveva vinto, offrendo a quel lettore la certezza salvifica che il poeta paga sì la insonne lucidità dello sguardo, ma solo a volte ne è bruciato fino al fondo del cuore quaggiù. Ci sono meravigliose eccezioni: una era stata quella che mi è sempre apparsa come la sorella-madre di Maura: Margherita Guidacci, che trascende la Neurosuite nell’Inno alla gioia, ed infine nel Primo Natale di Francesca: “Nel tuo riso radioso risuona / tutta la musica degli Angeli, / tutto l’annunzio di speranza, mentre / sulla tua vita sorgiva la cometa / passa la prima volta come nel cielo di Betlemme”.

Ora non ci stupisce che ai domestici lari chiamati a vigilare su questo piccolo eden – il gatto Rumi e la gatta Lilla – siano date fattezze più che umane: “feto di terra e cielo: le tue fusa / sono il trionfale “sesamo” che scioglie le porte / umane doloranti in serafica delizia…” “Con le orecchie che vibrano al ritmo del susino / e del ciliegio in fiore accesi al vento, / […] guarda il paradiso-giardino /come l’ape la rosa: da signora, da sposa”. Tutto attorno, in questo cosmo ben ordinato, il cerchio degli amici – lo svedese con cui fissare il mare “con gli occhi non più ebbri ma persuasi / dalla luce di questo mondo, forse dell’altro”; il cavaliere che da sempre ebbe in cuore amorosa giustizia, seppe “gettarsi ridente e solitario / nella fiamma perenne di rovi sulla vetta”; L’amico battagliero: “La tua è l’allegra guerra / del fedele d’amore e cortesia / che mulina la spada nel torneo, dove il prezzo / è la rosa colore del suo sangue”. Poi le donne: Daniela, “tulipano orgoglioso e gentile / con le spine di seta, che semina a nutrire / la cerchia delle sue mura lucchesi”; la piccola ape industriosa Cristina, che “crea il fiore, fila il nettare[…] / tesse sull’alveare / guglie gotiche rare”; la perla campestre Margherita.

Quindi, i grandi amici morti: Oscar Wilde, “il [suo] proscritto amore lacerato coi veli / di Salomè sulle sbarre di Reading”, che cessa di essere personaggio solo tragico per l’evocazione finale “del goffo nom de plume della madre,” Speranza, l’estrema virtù nel fiabesco vaso / che ora ci porge, lucida e segreta, la [sua] mano”. Sereno Kavafis, “gli occhi persiani” levati al cielo, tra le scartoffie, “fissando una sua Itaca d’alabastro”; limpido lo sguardo di Kafka, nell’ “…elezione a un’ isola abissale / patria di una materna imprendibile sirena […] / (“il lampo dei tuoi occhi strugge il male, Milena”). / Per lei, con il coltello nel respiro / si aprì come conchiglia, […] lanciandole la perla.” Neppure il ricordo di Giordano Bruno è tutto tragico: a 400 anni dal rogo, trasmigrato “in altri corpi, nel soffio profondo, / innumere dell’anima del mondo”, trasformato oggi forse nel pane che si vende al forno di Campo dei Fiori. Così si chiude, in pace, questa sezione offerta ai cari affetti, con le parole dell’ortolano al monaco buddista: “tutto è il migliore qui”.

Altrettanto luminosi i Tre ricordi seguenti, che formano la brevissima IV sezione: il bellissimo In memoria di Sandro Penna, nel centenario della sua nascita: “Implume tra le rotaie roventi / saltella un passero, e subito, alato / vola nel treno assordante e affollato, / volgendo in su tutti quei visi assenti”. E La barca, in memoria di Mario Luzi, “vasello snelletto e leggiero / col [suo] angelo gotico al timone”, che trasporta nel suo seno con amore il poeta, attraverso una rotta faticata e illuminata, a ricongiungersi, “al culmine del monte, all’“umile [sua] madre cristiana. L’ultimo congedo è l’Epitaffio per Ingmar Bergman, ancora un vascello e un mare, che sono qui l’ultimo legno di Ulisse e il mare della sua Itaca “dove immobile visse / con [lui] il dio muto, il giudice di disegni sottili /come la luce dietro le [sue] palpebre chiuse”.

Anche Grida è una breve sezione (la V), ma la calma delle sezioni III-IV, si è di nuovo mutata in pianto, anzi in Grida, più che di protesta di orrore, che si accompagnano alle “urla della guerra fratricida”: nello sfondo le uova pasquali snaturate in bombe, dell’aprile (Eliot: “aprile è il mese più crudele”) della guerra nel Kossovo (1999) . Accanto, in straziata seppur fidente invocazione: “Allacciate le braccia nell’intaglio del fiore / danzano al vento carico di miele sud-croato / sette meli nel seno del tuo prato”, mentre il poeta leva “al cielo fragile di guerra un[suo] cuore / d’amicizia tra i busti glauchi dei suoi poeti”, e una audace proclamazione di certezza: “Mio fu il seme caduto sulla roccia, / svettato in ponte di bambù oscillante / su fragorosi turbini […] / Mio sarà il seme di terra profonda / altorisorto in tiglio centenario, / candelabro al suo lago, ponte ai regali uccelli / di un’azzurra stagione” (Posterità. Laghi di Plitvice). Dietro questi nomi par di udire la voce della Margherita Guidacci del Taccuino slavo, assieme allo spessore di sanguinante “impegno” da cui erano sgorgati L’orologio di Bologna e La via Crucis dell’Umanità. Perché, ben oltre le cadenze, le assonanze, oltre l’eco delle interne lacerazioni di Neurosuite, la Guidacci è stata per Maura Del Serra maestra d’ impegno, di quella sua particolare maniera di impegno, fatto più di lacrime e sangue, appunto, più di compassione identificata senza riserva che di parole, in una maestra delle parole. Anche in Maura compassione “senza confini”, anche lei cassa di risonanza offerta a tutti i dolori, lontani e vicini. Ecco la Genova ferita del 2001, dove rimase ucciso il ragazzo Giuliani; e l’Amore e morte cui fanno da sfondo le Twin Towers di Manhattan sbriciolate nel 2001; ecco l‘Irlanda di Howth ove ritrova l’anima di Joyce, e, appunto, quella della Guidacci; e l’Apocalisse incarnata dallo Tzumani del 26 dicembre 2004, che cancellò “paradisi turistici e limbi del Terzo Mondo”; ecco Hina, – la ragazza pakistana sgozzata dai maschi della famiglia a Brescia – “ farfalla imprigionata nella gabbia ancestrale / di una fede accecata / […] principessa fatata, / contro l’aguzza cupola murata, sognando / un calice nuziale con il suo calabrone, / lo straniero-non più-straniero, re di [lei] stessa”; e Pechino, “la spietata fortezza mediatica d’Oriente” che ci si offre per le Olimpiadi come “specchio in trionfo mercantile / sul muto sangue sparso dell’utopia civile / […] più che mai ignota, mai così vicina”. Ed infine Gea la nostra patria, non più così grande, e l’altra, così piccola ormai, a cui si dedica, in chiusura, l’Epigrafe italica.

Gli Assoli (VI) hanno inizio con un altro confronto, sereno, del poeta con le stagioni della sua vita : “Fu la mia infanzia fulgida di bocci roventi, / la giovinezza un’alta grigia nube stellata. / Ora rotolo docile coi venti, / solitaria, in ignote lingue amata” . Ma l’aggettivo “solitaria” dell’ultimo verso si dipana, in Spersonalizzazione, in “grigie” immagini di confinamento – ritorna quel sommesso colore di tortora che fu della nube stellata di giovinezza, venato di malinconia sia pure nel morbido lusso del velluto, o nella protezione della cameretta petrarchesca. Venato di malinconia, perché la solitudine è separazione da un “tu” che fu prima “oceano di latte”, “pergolato di sussurri segreti”, “zirlare di uccelli nel fuoco”. E, di nuovo, il confronto delle stagioni, di Passato e presente: prima “nell’attimo eterno / vibrare celeste “ del suo “inferno d’immaginazione”, ora il giardino “terrestre, simmetrico e muto”, ove “la spada, disciolta in fontana, / oscilla con nota sovrana / scrivendo nel cielo la sete comune.” La solitudine è il prezzo da pagare per dar voce alla sete comune, o per essere improvvisamente colmati da un “fuoco di senso”, nelle splendide geometrie della Stoccolma dei suicidi. La poetessa, dalla “luce d’acqua velina” dei lontani paesi ove è “in ignote lingue amata”, riemergerà nel seno della città che il tempo fece sua – con l’ Ospedale fregiato dalla robbiana narrazione dell’ “eterna vicenda di soccorso e malattia”, guardato da un leone camuso le cui fauci esprimono “vivo ruscellare / che colma una conchiglia materna“: quella città, quel meraviglioso ospedale, felicemente policromo, “Lete dove affondarono d’improvviso i [suoi] cari, / Eunoè da cui emerse la [sua] bimba raggiante,” e che le darà “oltre l’abbraccio nudo della [sua] scalinata / nuova veste bianco-infante / e una zattera bianca per infiniti mari.” Passato-presente, dunque, partenze e ritorni in questi dolce-tristi Assoli, come avvolti in grigio sipario di velluto. Canta una partenza o un ritorno la Canzone per le isole Cicladi? “Sul mare color vino / di Omero, qui approdata / a cercare un destino / d’arte e amicizia alata” — o Radici: “Il dolce fiore greco – oro e viola – / colto nel sole acuto della spiaggia d’Atene , / ora nel mio giardino dà il suo miele / immemorabile, radica la sua dorica gloria / tra i miei cipressi”. Partenza e ritorno coincidono nel Bacio della fata: “Nascosta dentro il bosco circolare del sole / la tua casa ci accoglie, fata Luce, / quando la mente si spoglia ed il corpo / nerospinoso di tempo si stacca /al tuo tocco che a semi roventi ci riduce”.

Come tutto il libro, ma in sommo grado, questa sezione è rutilante di sapientissime immagini, immagini eterne e ardite, classiche o surreali – “Al centro del mandala, Pazienza dell’istante, sei il sangue dell’aereo tessuto di certezza, / il mozzo della ruota cosmica turbinante”; “Non avrò peso, sarò la sostanza / che in su cadendo s’avvita al pensiero / non umano, e vi suscita in mistero / l’ombra che danza” (e l’esempio valga anche per le escursioni di sapienza metrica). Come è densa, questa poesia, di sapientissimi giochi di rime e assonanze e di arditi neologismi – spesso, ma non solo, inaspettate combinazioni di più parole in una, così lo è di “concetti”, che nei versi finali a rime baciate scoccano in sorprendenti imprevisti, come in certi sonetti petrarcheschi che anticipano il barocco: “sei […] / la piuma intima all’aria che la luce accarezza / e pulsi in vena d’oro che riempie la miniera / dove tutta mi sbriciolo per rinascere intera”; “l’omofonia di bellezza e di forza / ci possiede con la necessità / che il pozzo ha della ghiera […] / il cristallo di neve del gelo che attanaglia / boschi e città. / Indecifrabilmente / quel gemellaggio svela / la rima identica della pietà”. Sorprese anche nella sequenza delle composizioni: al centro l’oximoro di Assolo in coro, dove si condensa un motivo ricorrente in tutto il libro, anzi un doppio motivo: il poeta che si fa porta e il poeta che paga con la vita il dono della visione, quest’ultimo articolato nelle immagini molteplici di Sacrificio – immagini tutte del male di vivere, ma un male di vivere (“sacrificio”) che è redenzione, che ci salva. Ci salva anche, come è ripetuto in Teatro, dall’ossessione umana della perdita, poiché ”nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”. Nulla si perde di quel che chiamiamo passato (“Gemmati tabernacoli del tempo, / chiudono in calici aerei il vino / del quotidiano stillato in destino – I ricordi); ma anche il futuro è reale e ci appartiene, cioè ci è dato riconoscerlo come nostro, non fosse che in una scritta sul muro, cioè mascherato nei mezzi d’espressione dei giovanissimi – “Provochiamo tempeste, ma preferiamo il sole” -, scritta in cui il poeta capta, goffa e bruciante, la “nostalgia dell’apollinea ragione”. Il transfert per cui “nel cuore / più non si perde, ignavo, nessuno spettatore”, il poeta riesce ad operarlo sempre con quel suo metodo dell’illimitata condivisione: la “mente bambina” giocando con ingenua letizia con le parole in fitte rime e assonanze anche interne, dona il suo “eden di eterna mattina / alle vite trafitte, irredente, non vissute”. Oltre l’eden della mente bambina la dimensione del poeta accoglie il calvario della ruota in cui “mille volte” il calice andò in frantumi; mille volte sfociati i fiumi hanno sete; mille volte “già fatta cosmo in cuore / la mente torna grumo uterino di dolore”. Perché l’arte della condivisione si radica nella perseveranza ostinatamente sofferta.

Eden e calvario, ché doppia è ogni cosa per lei – “doppio [le] pulsa il cuore coi due moti”. Il destino è scandito nitidamente in L’altro : “Chi sanguina parole, chi non vede / senza lacrime, chi solo cammina / su lame di cristallo, chi non crede ma sa / nelle scolpite viscere ciò che non muta, fa / delle pietre d’inciampo pietre di fondamento…” . Ma il due – che fu passato-presente, ombra-luce, noto-ignoto, estasi e sanguinante dolore – si riassorbe nell’uno: “L’allodola con un’ala sola / che da ferma trasvola / dove l’ordine sposa l’avventura, / dove l’estasi bacia la paura – un’ape vorticosa / fissa a un’unica rosa – /…/ questo vissi nascendo / e ora, alta sullo scoglio della sera, comprendo: / si sprigiona dal piombo di catene / il tuffo nell’oceano empireo del bene”. Tutto è limpido, specchiato come il mare nel bicchiere dell’ “età certa”, dell’età che non dà ombra, come Maura aveva capito già da dieci primavere. Il guru Dolore ridusse la poetessa a “tronco che vive e sente”, per trasportarla “fra i tuoni / verso l’ignota cima benedetta / dove, vivendo, a se stessi si muore: / e apers[e] – [ancora una ‘petrarchesca’ sorpresa finale] – a un jet policromo la traccia”. Gli Assoli – certo “un”, se non addirittura “il”, cuore del libro – si compendiano una volta ancora nel ciclo: “Adesso mi risvegliai, / poi mi risveglio, molto tempo orsono / mi sveglierò dove la terra versa / una tenera pioggia dal profondo, / e l’Anima del Mondo alza ridendo / il mio feto rugoso tra le braccia”. Perché ancora una volta tutto si sciolga (si cancelli), “cesella il mondo l’arte del pensiero, / ma lo salvano i Pescatori d’acqua, / gli umili e lievi guerrieri del vero / vestiti di pietà, materni come mammella, / cuori di cuori: in loro / la fredda storia è nido, e la sete del pianeta / immemorabilmente sanguina e si cancella”.

La VII parte – Senso unico – è l’ultima nuova. Poiché Brevi, l’VIII, è composta di Scintille, uscita nel 2008 in una splendida edizione numerata, e Specchi (microcellula drammatica) aveva anch’essa già visto la luce nella stessa edizione. A differenza di quanto accadeva per Forza maggiore, dove la poesia che spiega il titolo si incontra a metà della sezione, qui la nostra perplessità su come il titolo sia da interpretare, e in specie se abbia significato positivo o negativo, è subito sciolta dalla prima composizione, eponima: “Il senso unico, indescrivibile / in nomi ed esseri, indecifrabile / a riti e formule, splende istantaneo / nella radice dell’invisibile / […] ed è giorno chiaro”. Dunque il segno è inequivocabilmente positivo. E se il nome non può descrivere l’essere (cioè la realtà che è custodita nella cosa – come per Proust, ma anche per Gertrud Stein), ne è pur sempre la bandiera. Colpisce come il potere rivelatore del nome sia legato alla luce (sulle orme di Goethe citato, ma, ancora, come nel Proust di Jean Santeuil). Ma il mondo nuovo

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