Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Tra Mary Poppins e Jane Eyre, Vivian Maier è fotografa d’eccezione
Sì, non è stata una fotografa amatoriale. È quello di “autodidatta” il termine che meglio la rispecchia; e un talento indiscusso l’ha sempre accompagnata alla ricerca di nuovi volti e luoghi. Il suo occhio, infatti, non ha mai colto qualcosa per puro caso, o per fortuna, ma ogni soggetto, ogni frangente che ha immortalato, è stato frutto di una paziente attesa del momento giusto. La mostra Vivian Maier. Inedita accoglie oltre 250 scatti ed è articolata in sette sezioni, dagli autoritratti alle forme
Natalia Ginzburg sosteneva che non ci sono scrittori uomini e scrittori donne, ma scrittori e basta. Verissimo.
Questo vale anche per la fotografia.
Ed è il caso di Vivian Maier che, fotografa “amatoriale”, va inserita nella storia della fotografia accanto a grandi come Robert Doisneau, Henri Cartier-Bresson, Letizia Battaglia e che, proprio ultimamente, è stata menzionata nel bel libro di Margherita Rimi, Il popolo dei bambini.
Si è detto “amatoriale”, ma è tale solo in quanto, per mantenersi, aveva necessità di fare la bambinaia.
Sarebbe più giusto parlare di lei come di fotografa autodidatta, perché non fotografa mai a caso o per colpo di fortuna, ma aspetta il momento giusto per scattare la foto. Ne è un esempio il signore la cui testa diventa il palloncino del bambino.
La mostra che titola Vivian Maier. Inedita, curata da Anne Morin, mostra più di 250 suoi scatti, di cui diversi nella città sabauda, nell’unico giorno della sua visita, il 21 luglio del 1959, e si articola in sette sezioni: autoritratti, strade, ritratti, gesti, cinetismo, colore, infanzia, forme.
Per capire il senso delle sue fotografie è estremamente utile quanto un grande regista, il francese Robert Bresson, scriveva nelle sue Note sul cinematografo del 1975 e che in mostra si legge in una delle sale: «Un tuo film non è fatto per una passeggiata degli occhi, ma per penetrarvi, esserne assorbiti interamente».
Affermazione valida e condivisibile con l’opera della fotografa che è di grande potenza espressiva e il cui linguaggio si muove tra la fotografia umanista (sensibilità che le deriva forse dalle sue origini francesi) e la Street Photography americana.
Il tessuto urbano delle grandi città americane come New York, dove tornerà a vivere dal ’51, e Chicago, dove si trasferirà dal ’56, sono la scenografia in cui si muove la fotografa nei suoi momenti liberi dal lavoro.
Con la sua fedele Rolleiflex fotograferà in bianco e nero persone comuni, gesti quotidiani, miserie e nobiltà di un’umanità varia. E ancora autoritratti riflessi nelle vetrine o composti dalla sua lunga ombra al sole, visi di bambini lontani dagli stereotipi.
Sovente le sue rappresentazioni sono quelle di un’infanzia dolente, quelle del dramma dell’infanzia.
La Rolleiflex, studiata per essere portata all’altezza della vita, le permette non solo di fotografare senza dare nell’occhio, ma anche di guardare in faccia ciò che fotografa, di essere in qualche modo compartecipe della sua rappresentazione.
Queste foto dal formato quadrato sono state giustamente definite “silenziose”, così come quelle che effettuerà a colori, anni dopo, “sonore”.
Ed è vero: quasi un mutamento ideale di colonna sonora segna il suo passaggio alla Leica 35 mm con il nuovo formato rettangolare, che dà un certo dinamismo nella composizione dell’immagine, molto più vicino a quello del cinema che Vivian affronta nello stesso periodo.
Si compera infatti una telecamera Super-8 e da alcuni brevi filmati in mostra, con il suo interesse per le inquadrature dei piedi in movimento, si vede come queste anticipino le idiosincrasie nannimorettiane.
Una vita particolare, quella di Vivian Maier (New York 1926-Chicago 2009), fotografa emersa dall’oblio, bambinaia di Chicago riapparsa dal necrologio dei suoi tre ex bambini [i Genzburg, NdC] che la definiscono una persona “davvero speciale”. Vale la pena ripercorrerne le tappe fondamentali.
Innanzitutto l’importanza per lei della famiglia materna, francese e di una nonna, Eugénie Jaussaud, “disonorata” in quanto non sposata, che si lancerà in una carriera di cuoca francese per gente americana ricca e famosa, continuando a dichiararsi vedova per nascondere il suo stato di ragazza madre.
Poi una grande proprietà in Francia, chiamata Beauregard. La figura della madre, Marie, che seguendo le orme materne, fornirà informazioni false e farà credere a tutti di essere nata da genitori legittimi e che, per prima, possiederà una macchina fotografica.
I quattro nonni emigrati in America in cerca di fortuna, il padre violento e un matrimonio di brevissima durata con la madre di Vivian, Marie, che non riesce ad adattarsi alla maternità e metterà il primo figlio, di soli cinque anni, in un istituto.
Insomma una storia di figlie non volute, di maternità sofferte.
Poi la curiosa vicenda della prozia Florentine, unica proprietaria di Beauregard, che redige un testamento escludendo la nipote Marie a favore della piccola pronipote Vivian di otto anni, decisione in cui inconsapevolmente influenza la storia della fotografia. Senza i proventi di Beauregard Vivian non avrebbe potuto permettersi macchine fotografiche, la Super-8 e il viaggio di sei mesi intorno al mondo con tappa a Torino.
Purtroppo la madre Marie è malata di mente. Il fratello di Vivian, Carl, conferma che Marie non cucinava, non puliva e non faceva il bucato. Probabile così che i lavori di casa toccassero alla giovane.
Vivian però si sente fotografa e vorrebbe, in una sua permanenza in Francia, avviare un business di cartoline: paesaggi francesi e ritratti.
Tornata a New York trova un impegno fisso come tata, ma non abbandona l’idea di integrarsi con i fotografi della città cercando opportunità commerciali. È attratta dal fotogiornalismo: pattuglia, infatti, stazioni di polizia e perlustra quartieri malfamati. Inoltre è una grande appassionata di cinema.
Dal 1956 verrà assunta per undici anni dai Genzburg.
Sarà il periodo più felice della sua vita.
Tuttavia nasconde anche ai Genzburg il suo passato (chi avrebbe accettato in casa la figlia di un padre violento, di una madre instabile e con un fratello tossicodipendente?): dice solo di essere nata in Francia e di essere figlia unica.
Nei giorni liberi continua a praticare la fotografia di strada e gli autoritratti.
Si muove in bici o col Solex.
Nel ’59 prende un congedo di sei mesi e parte per un viaggio – da sola – intorno al mondo.
Nel passaggio in Francia andrà a trovare quel nonno che non aveva sposato la nonna, ma a cui si sente legata pur conoscendolo a malapena. Trascorre del tempo con lui a Gap, nella casa di riposo della città, dove scatta foto anche agli altri residenti e alla struttura.
Verso gli anni ’70 alcuni problemi legati alla sua difficile infanzia iniziano ad affiorare: inizia a collezionare vecchi giornali, comportamento che col tempo si intensifica fino a diventare vero e proprio disturbo dell’accumulo.
Una compulsione patologica che si può associare a difficoltà e privazioni emotive dell’infanzia: si accumulano beni per riempire un vuoto.
Purtroppo il disturbo da accumulo si aggrava assumendo nuove forme: comincia a fotografare pagina per pagina tutti i giornali conservati.
I suoi ultimi anni li passa guardando dal suo appartamento, trovato con l’aiuto dei ragazzi Genzburg, il lago Michigan.
Muore a ottantatré anni.
Se si dovessero trovare le cause del suo successo queste sarebbero sicuramente da attribuire non solo al suo indiscusso talento che le ha fatto cogliere l’universalità della condizione umana in un corpus di fotografie incomparabile, ma anche alla tenacia e alla grande forza di carattere che le hanno fatto voltare le spalle a un’infanzia difficile e a una famiglia problematica e che le hanno permesso di crearsi un’esistenza indipendente e felice.
In apertura, Tipo Marilyn. Foto di Mariapia Frigerio
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