Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Tra meraviglia e oscurità: il pensiero delle origini

Ritornare ai classici. La meraviglia quale noi la intendiamo è solitamente imparentata con la bellezza, la poesia, il meraviglioso, l’ammirevole, l’idilliaco; per i Greci invece era qualcosa di stupefacente, sì, ma soprattutto di sconcertante e sconvolgente. Poteva addirittura fare paura, provocare un malessere fisico. È a questa sensazione di sconvolgimento che Matteo Nucci dedica le sue considerazioni nel saggio Il grido di Pan, volto a indagare l’opera dei pensatori più antichi e ad affrontare una verità ineludibile: alle radici della cultura classica non c’è la luce, ma l’oscurità

Anna Ferrari

Tra meraviglia e oscurità: il pensiero delle origini

“È tipico del filosofo questo stato d’animo: la meraviglia. Non esiste altra origine della filosofia se non questa”. Così dice Socrate a Teeteto, il giovane matematico, molto caro a Platone, che dà il titolo a uno dei suoi dialoghi più famosi ma anche più complessi.

La meraviglia come origine della filosofia. Lo stupore che si manifesta come un’emozione confusa e che spinge l’uomo a mettersi in cerca delle ragioni delle cose. Lo aveva ribadito anche Aristotele, affermando che l’umanità ha cominciato a dedicarsi alla filosofia proprio perché tutto ciò che vedeva la meravigliava.

Occorre però mettere in chiaro il significato delle parole. La meraviglia quale noi la intendiamo è solitamente imparentata con la bellezza, la poesia, il meraviglioso, l’ammirevole, l’idilliaco; per i Greci invece era qualcosa di stupefacente, sì, ma soprattutto di sconcertante e sconvolgente. Poteva addirittura fare paura, provocare un malessere fisico.

Nel dialogo citato sopra Teeteto osserva che in certi momenti, quando segue i discorsi di Socrate, gli vengono le vertigini.

È a questa sensazione di sconvolgimento che Matteo Nucci dedica le sue considerazioni nel bel saggio Il grido di Pan (Einaudi, Torino 2023), volto a indagare l’opera dei pensatori greci più antichi  e ad affrontare “in un appassionato corpo a corpo”, come egli stesso scrive, una verità scomoda ma ineludibile: alle radici della cultura classica non c’è la luce, ma l’oscurità; non la ragione con i suoi percorsi limpidi e lineari, ma l’insondabilità contorta del labirinto. Ci sono miti tenebrosi e inquietanti (quelli del labirinto stesso, con il Minotauro, Dedalo, Arianna, quello di Edipo, quello di Pan…).

C’è, soprattutto, la dolorosa presa di coscienza del nostro essere animali mortali, che dagli altri animali mortali si distinguono solo per essere gli unici a provare meraviglia e a porsi conseguentemente delle domande, prima fra tutte quella eterna sulla vita e sulla morte: “solo all’essere umano è dato di pensare alla propria mortalità”.

Partendo da queste premesse, e con un linguaggio di limpido nitore nei cui snodi si palesano però all’improvviso l’imprevedibile e lo sconcertante, tenendo costantemente il lettore con il fiato sospeso in attesa della prossima sorprendente meraviglia, Matteo Nucci affronta il pensiero delle origini e non evita di sprofondare nella sua oscurità.

Ma lo fa riuscendo a reggersi in equilibrio tra la vertigine di cui parla Teeteto e la chiarezza, consapevole che appunto precisamente “la chiarezza è ciò che manca al ciarlatano”, come già aveva osservato con durezza Lucrezio: “Gli sciocchi ammirano e amano tutto ciò che appena distinguono, celato sotto contorte parole”. Come a Lucrezio, anche a Nucci gli sciocchi non interessano.

Chiarezza non significa però facilità, uno dei falsi miti del mondo di oggi. Nulla, nel pensiero delle origini, di quei filosofi che – chissà poi perché – chiamiamo presocratici (e perché, invece, non preplatonici, considerando che Socrate non ha scritto neanche un rigo?), nulla nella drammatica complessità della loro riflessione appare facile, né riconducibile alla nitidezza di quella ragione che per troppo tempo la cultura occidentale ha identificato, tout court, col pensiero greco.

Recuperare l’oscurità, l’enigma di quelle posizioni appare dunque irrinunciabile. E non solo da oggi: quando nel 1951 Eric Dodds pubblicò il suo fondamentale saggio I Greci e l’irrazionale germogliarono i semi di una tardiva ma proficua fioritura di indagini volte a sfatare il mito della Grecia come patria assoluta del logos, della divina facilità, della luce della ragione capace di prevalere sempre e comunque davanti all’oscurità e a ciò che razionale non è.

Alla Grecia apollinea si contrapponeva quella dionisiaca, alla luce subentravano, o per lo meno si alternavano, le tenebre. Il mondo classico era un po’ meno classico e perdeva in molti campi la sua aura di modello ideale per ritornare sulla terra, con tutte le caratteristiche positive ma anche negative di qualsiasi altra civiltà umana.

Nei settant’anni che sono passati da allora – e anche il libro di Matteo Nucci lo dimostra – questa prospettiva più concreta e aderente a una realtà variegata e multiforme non solo non ha perso la sua valenza euristica, ma ha portato qualche volta, come succede a qualsiasi fenomeno storico e umano, a nuovi eccessi in direzione opposta.

Oggi, in particolare, la Grecia antica non è più idealizzata ma, al contrario, spesso additata al pubblico ludibrio perché portatrice di valori non più moralmente e socialmente condivisibili (l’esaltazione della guerra, lo sfruttamento della schiavitù, la segregazione della donna in posizione subalterna, la denigrazione dello straniero e del diverso e così via); e anche di quei valori, come la libertà e la democrazia ateniesi,  che un tempo – esagerando, e quindi sbagliando – si ritenevano peculiari della grecità e tali da porla in posizione preminente rispetto alle altre civiltà, si è ridimensionata la portata, contestualizzandoli e riconoscendone i limiti storici: Atene era più democratica di altre città, certo, ma non era veramente democratica, per lo meno non nel senso moderno del termine; quella Graecia capta che si diceva avesse conquistato il suo ferum victorem non era forse esattamente ed esclusivamente quel faro ineccepibile di assoluta civiltà che per tanto tempo abbiamo voluto illuderci che fosse.

La Grecità, insomma, non si scrive più, oggi (e potremmo aggiungere: per fortuna), con la G maiuscola.

Una volta di più, lo studio dell’antico rivela aspetti insospettabili del mondo di cui è figlio. I vari classicismi e neoclassicismi che si sono succeduti nella storia dell’Occidente hanno esaltato, fino a renderlo mitico e quindi astorico, fuori dal tempo, il mondo greco, idealizzandolo oltre misura e facendone un modello di solo splendore, senza lati oscuri.

Oggi, al contrario, sembra che le ombre prevalgano sulle luci. In entrambi i casi, però, che sia il lato illuminato o quello in ombra a prevalere, studiare l’approccio all’antico permette di capire non (sol)tanto l’antichità in quanto tale, ma il presente che su quell’antichità si ferma a riflettere.

E questo, mi sembra, è già di per sé motivo sufficiente per dubitare dell’efficacia della cancel culture, seguendo pedissequamente la quale rischieremmo forse di precluderci una via d’accesso al nostro stesso mondo, e di capire un po’ meno non tanto il passato, quanto, soprattutto, i tempi in cui viviamo.

In apertura, foto di Olio Officina© 

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia

Iscriviti alle
newsletter