Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Un amore che non innamora

Amore, di Pippo Delbono, è ancora una volta il tentativo di portare la vita dentro al teatro, ma qui il regista, poeta della marginalità e della differenza, ha perso mordente. È uno spettacolo in cui le immagini che si alternano colpiscono, ma non emozionano, ricevendo così tiepidi applausi da parte del pubblico presente alle Fonderie Limone

Mariapia Frigerio

Un amore che non innamora

Nella scena rossa di Joana Villaverde, con un albero spoglio sulla destra di vago sapore beckettiano, si alternano suonatori e cantanti di fado in uno spettacolo sul Portogallo, nato da un progetto che ha unito due persone legate da amicizia: Pippo Delbono e Renzo Barsotti, produttore teatrale italiano da anni attivo in quel paese.

Nell’intenzione dell’autore, Amore avrebbe dovuto essere un viaggio musicale e lirico da compiersi con una geografia esterna – Portogallo, Angola, Capoverde – e una interna, quelle delle corde dell’anima, accompagnate dal fado, che con la malinconia e lo struggimento delle sue note, pervade tutto lo spettacolo, fatto di musiche, canti, voci e immagini.

C’è Dolly Albertin che danza; c’è l’angolana Aline Frazão che canta una canzone d’amore, anche se non romantica come quelle europee, di un’Angola colonizzata dal Portogallo; ci sono tableaux vivants che riecheggiano Pietà e Biennali di anni lontani; c’è Pedro Jóia con la sua chitarra e si potrebbe continuare con il lungo elenco dei tanti partecipanti, quelli che sono sicuramente un gruppo di compagni di viaggio, di generazioni diverse. Così, accanto ai nomi già citati, vanno ad aggiungersi Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Miguel Ramos, Pepe Robledo, Grazia Spinella.

Va ricordato che Pippo Delbono è un grande innovatore, che riesce a dare una svolta alla sua ricerca poetica mettendo in scena persone provenienti da situazioni sociali di emarginazione.

È così che con Barboni, del 1997, vince il Premio speciale Ubu [il più importante riconoscimento di teatro in Italia, NdC] con la motivazione «per una ricerca condotta tra arte e vita».

La sua prerogativa è di riuscire a far lavorare nei suoi spettacoli, indistintamente, sordomuti fatti uscire dal manicomio (emblematico il caso di Bobò, al secolo Vincenzo Cannavacciuolo), protagonista, appunto, di Barboni o, insieme, operai e attori come in Itaca.

Dall’incontro poi con Pina Bausch, spesso danza e teatro si fonderanno nelle sue produzioni.

Amore è ancora una volta il tentativo di portare la vita dentro al teatro, ma qui Delbono, poeta della marginalità e della differenza, ha perso mordente.

Anche quando si presenta al pubblico, all’inizio dello spettacolo, vestito di bianco, per raggiungere la sua postazione al microfono in fondo alla platea, la sua voce fuori campo (è lo stesso Delbono a ricordare agli spettatori essere proprio la sua di voce e non una registrazione) che accompagna lo spettacolo con versi d’amore tratti, tra gli altri, da Prévert, da Rilke, da De Andrade, non coinvolge.

Così come le immagini in scena che colpiscono, ma non emozionano.

Si odono urla di gabbiani, scrosciare di acqua, ma l’insieme è un cocktail non ben shakerato.

La parola “amore” ricorre per tutto lo spettacolo, un amore che tutti ricercano anche quando «un uccello rapace ce lo strappa» come un lutto, da cui, ci viene detto, prende spunto lo spettacolo.

E allora come non pensare all’explicit di quel meraviglioso libro che è Il ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder?

«C’è un mondo dei viventi e un mondo dei morti, e il ponte è l’amore, la sola sopravvivenza, il solo significato».

Forse queste parole sarebbero state degne di sugellare lo spettacolo che, ahinoi, ha avuto solo tiepidi applausi.

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