Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Un viaggio in paradiso

Bruno Abraham-Kremer ha sempre rappresentato in scena autori a lui affini. Ora torna al Théâtre Lucernaire di Parigi con Parle, envole-toi! Ou comment le théâtre m’a sauvé la vie, con un testo di cui è autore, attore e regista. In una storia di sofferenza e di passione, lui è tutti: dall’infermiera che cura il padre, allo stesso padre morente e, prima, giovane e impositivo, alla madre, alla professoressa. L’emozione alle stelle del pubblico è esplosa in applausi interminabili

Mariapia Frigerio

Un viaggio in paradiso

Vorrei partire da un ricordo personale. Un ricordo parigino.

Era il febbraio 2012 quando mi recai al Théâtre du Petit Saint-Martin per vedere La promesse de l’aube.

Ero attratta dall’idea di vedere in scena la riduzione di un romanzo del mio amatissimo Romain Gary.

Confesso che dell’attore, che dopo averlo ridotto lo interpretava, non sapevo nulla.

Presi così posto (posti liberi) dietro un signore che mi accorsi di conoscere: era l’attore Lionel Abelanski, Shlomo, il “matto”, in quel raffinatissimo film che è Train de vie [la filmografia francese è ricca di molti altri suoi film, NdC].

Colsi l’occasione per complimentarmi con lui, per dirgli tutta la mia ammirazione.

Ricordo come fosse oggi come mi ringraziò per averlo riconosciuto e come mi fece inoltre notare che Bruno Abraham-

Kremer era anche lui uno del film.

Era Yankele, il notabile. Ma soprattutto aggiunse che lui era «il più bravo».

Ed è proprio da questo «il più bravo» che vale la pena partire.

Bruno Abraham-Kremer ha sempre rappresentato in scena autori a lui affini. Basterebbe ricordare L’angoisse du roi Salomon di Romain Gary nel 2018 al Théâtre Lucernaire [di cui scrivemmo per «Avvenire» il 3 ottobre dello stesso anno, NdC], il già ricordato La promesse de l’aube o Nicolas de Staël, la fureur de peindre, tratto dallo scambio di lettere tra René Char e il pittore, quello stesso Nicolas de Staël a cui il Musèe de l’Art Moderne sta dedicando in questi giorni una splendida mostra.

Ora torna al Théâtre Lucernaire con Parle, envole-toi! Ou comment le théâtre m’a sauvé la vie con un testo di cui è autore, attore e regista con l’inseparabile Corine Juresco.

Questa volta però l’attore non si serve di personaggi creati da altri dietro cui nascondere o con cui condividere le sue storie, ma decide di raccontare sé stesso.

Così deve tornare alla sua infanzia per scoprire come la passione di recitare gli abbia salvato la vita.

Ma facciamo un passo indietro.

Gli spettatori entrano in teatro. Lo spettacolo di Abraham-Kremer è in una delle sale del Lucernaire, una… in cima in cima.

Quasi come nella Bella addormentata nel bosco il pubblico sale le scale a chiocciola di legno che sembrano non finire mai.

Un’insegna con freccia verso l’alto indica “Paradis”. Quando il pubblico crede di avere terminato l’ascesa delle scale lignee, ecco che gli si prospetta un’altra scala a chiocciola: in ferro, questa volta.

Alla fine entra nella sala il cui unico arredo è una panca, una di quelle che servono per esercizi ginnici. Null’altro. E sarà l’unica compagna del suo “gioco”, ovvero della sua recita.

Bruno Abraham-Kremer compare dalla stessa porta da cui sono entrati gli spettatori, dirigendosi deciso verso la panca che altro non è che il capezzale del padre che gli domanda: «Come ti è venuta l’idea di fare teatro? Nessuno in famiglia ha mai fatto una cosa simile!».

E da qui parte lo spettacolo di Bruno Abraham-Kremer che per rispondere al padre torna indietro nel tempo, indaga nella sua infanzia, nella sua giovinezza fino a giungere all’età matura.

Lui è tutti: dall’infermiera che cura il padre, allo stesso padre morente e, prima, giovane e impositivo, alla madre, alla professoressa.

Dà voce e movenze a tutti, così come da bambino – solo nella sua camera – giocava ai cowboy e agli indiani, in quegli spettacoli straordinari frutto della sua fantasia che lui viveva come se fossero veri, ricoprendone tutti i ruoli con lo stesso piacere.

Ma seguiamo in breve quanto ci narra in scena l’attore: una storia di sofferenza e di passione.

A cinque anni, durante un viaggio nei paesi dell’Est voluto da sua madre, in visita alla sinagoga di Budapest, scoprirà di essere un bambino ebreo.

Dopo questo viaggio i genitori si separeranno in un periodo in cui le separazioni non erano ancora diffuse.

Quando la madre se ne andrà lasciandolo al padre con cui non avrà mai un dialogo facile, per lui sarà la catastrofe.

La sua vita di solitudine e abbandono troverà riparo nella strada, ma anche nei giochi solitari che la fantasia gli consente.

Adolescente isolato e ribelle frequenterà i bar di Pigalle e nello stesso tempo il liceo Bergson, dove avverrà l’incontro magico con una professoressa che gli farà amare il teatro.

E ancora il trasferimento a Nizza per studiare diritto (anche se lontano da casa) e far piacere a suo padre e ci sembra proprio di vedere, con le sue parole, la Promenade des Anglais. Poi ancora il Festival di Avignone, l’incontro fondamentale con Peter Brook.

Se ci dovessero essere dei riferimenti culturali alla sua vita, immediatamente vengono alla mente l’Antoine Doinel di Truffaut dei 400 coups e il Momo di La vie devant soi di Gary, perché se questo teatro è un esempio di teatro autobiografico, quando l’autobiografia è grande rispecchia la vita di tutti noi e da particolare, diviene universale.

Definito sensibile, intelligente, potente e delicato al tempo stesso, stupendo, magnifico, straordinario, Bruno Abraham-Kremer ha salvaguardato una parte del suo animo di bambino che a poco a poco ha scoperto che «recitare è un cammino verso la libertà», un cammino che gli ha salvato la vita dall’infelicità.

In questa sua confessione intima, in cui alterna foga ed emozione, humour e tenerezza, ci rivela anche che lui nasce Bruno Kremer, ma essendoci già un celebre Bruno Cremer [attore francese, di una generazione più vecchio, celebre, tra l’altro, per la sua interpretazione del commissario Maigret, NdC] lo costringono a cambiare nome. È così che decide di aggiungere a Bruno Abraham, nome del nonno materno.

Verso la fine della rappresentazione spiega al pubblico come il teatro possa essere fatto di niente: senza nessuna scenografia speciale, basta un uomo che abbia voglia di raccontare.

Lo spiega a un pubblico che ha seguito tra riso e lacrime.

Per lasciarlo poi con una sorta di formula magica che Peter Brook aveva per gli attori: «Don’t forget, to play is to play!» e aggiungendo che lui ha provato a non dimenticarlo.

L’emozione alle stelle (non dimentichiamo che siamo stati per un’ora e trenta in “paradiso”) è esplosa in applausi interminabili.

Aveva proprio ragione Lionel Abelanski quando disse che era il più bravo…

All’interno e in apertura, foto di Mariapia Frigerio

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