Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Una società dagli occhi chiusi

Nella sua nuova rappresentazione, À Huis Clos, Kery James mostra al pubblico una Francia ferita da una giustizia debole. Uno spettacolo forse un po' didascalico, ma che fa pensare che più che le porte ad essere chiuse siano invece i nostri occhi, concluso tra gli applausi e fischi di ammirazione da parte di un folto pubblico eterogeneo – dai giovanissimi agli adulti di ogni età – entusiasta della performance teatrale

Mariapia Frigerio

Una società dagli occhi chiusi

Famoso tra i più giovani come rappeur, di cui rappresenta l’aspetto più sofisticato, Kery James (al secolo Alix Mathurin), nato in una famiglia con gravi difficoltà economiche, si fa conoscere già da giovanissimo per i suoi testi definiti giustamente “a fior di pelle”: che la pelle di cui si parla sia il colore o i drammi subiti da chi nasce senza alcun privilegio, poco importa.

James è autore, compositore, sceneggiatore, poeta.

Già aveva scritto per il teatro À vif (titolo sintomatico) in cui sulla scena si affrontavano due avvocati provenienti da «due France» differenti, in un teatro politico che ridà importanza alle parole.

I due giovani avvocati erano Soulaymaan, proveniente da una banlieue parigina e Yann, da un ambiente agiato.

Nel nuovo spettacolo, À Huis Clos, Kery James usa nuovamente il suo personaggio feticcio, Soulaymaan, per mostrare al pubblico una Francia ferita da una giustizia debole.

Dopo l’uccisione di suo fratello maggiore, ucciso alle spalle dalla polizia, il giovane avvocato, ormai disilluso e pronto a tutto, persino a perdere la vita, decide di armarsi per un faccia a faccia con il giudice (interpretato da Jérôme Kircher) che ha scagionato l’assassino di suo fratello.

E prendendolo in ostaggio proprio nel suo appartamento per domandargli le ragioni di quanto ha fatto, Soulaymaan riprende, in un dibattito a ruota libera, quel teatro politico in cui ricompaiono le due visioni del mondo, ovvero quello delle «due France», in un testa a testa che non scende a compromessi, sullo sfondo degli errori della polizia.

La scena è circolare con uno scrittoio (su cui ci sono le foto della moglie e della figlia del giudice), poltrone, un tappeto: un ambiente confortevole.

Due telecamere ruotano su binari intorno ai due protagonisti e in alto un telo riproduce in diretta le loro espressioni (che altrimenti andrebbero – per la distanza – perdute, così come i particolari delle foto e del vaso).

Si può discutere su questa scelta del regista Marc Lainé che, da un certo punto di vista, può disturbare il pubblico costringendolo a dividere la sua attenzione tra scena teatrale e schermo.

L’invenzione di Marc Lainé è però di far comparire lo stesso pubblico sulla grande tela per un coinvolgimento totale.
Tela su cui compaiono anche – quasi didascalicamente – i titoli dei cinque capitoli in cui lo spettacolo si divide: une vie conté, a chacun son monde, Kintsugi (de l’art de reparer), de l’amour, un ailleurs.

Soulaymaan ha una pistola con cui minaccia il giudice su cui riversa la sua rabbia, la rabbia di un emarginato.

C’è, quasi ovvio, il discorso sulla polizia che orina su un quattordicenne: una polizia che gode a umiliare.

Ma c’è anche la quotidianità. Il cellulare del giudice suona ed è la figlia Marie.

Ci sono discorsi filosofici sul Kintsugi, ovvero sull’arte del riparare. Così il vaso del giudice riparato con l’oro diventa metafora della resilienza.

Ma Soulaymaan non accetta questo discorso, perché sostiene che solo quelli come lui sono la resilienza, mentre il giudice è un piccolo borghese del c***, che vive come i suoi simili in un simulacro di pace.

E aggiunge che persino Hugo, nei Miserabili, considerava tali solo i “miserabili” bianchi. Quindi si vive in una finta democrazia, urla al giudice.

E a questo punto rompe il vaso.

Nel loro continuo discutere (più aggressivo quello di Soulaymaan, mentre il giudice risponde con la voce del francese medio) arriveranno a un corpo a corpo per terra.

Poi, dopo che Soulaymaan avrà teso la mano al suo avversario, il clima si distenderà.

L’avvocato chiederà al giudice di parlargli di sua figlia. Il giudice risponderà che, come sempre, esistono problemi tra genitori e figli. Sono le famose incomprensioni generazionali.

E quando l’avvocato gli chiederà come definirebbe l’amore, il giudice gli spiegherà il dolore che lui e la figlia hanno dovuto sopportare per il cancro della moglie e madre.

Si rivela così, dopo l’estenuante lotta verbale, l’umanità di entrambi.

Soulaymaan costringe il giudice a chiamare la polizia, mentre gli consegna la pistola con cui lo ha minacciato per tutto lo spettacolo.

Una pistola che si scopre essere scarica…

Una bellissima serata questa al teatro Chaillot nella Salle Firmin Gémier.

Una serata da ricordare per l’eterogeneità del pubblico: dai giovanissimi fans agli adulti di ogni età.

Molto bravo Kery James nel doppio ruolo di autore-attore, ma superba la raffinata recitazione di Jérôme Kircher che del giudice “prigioniero” ci fa vivere ogni emozione.

Uno spettacolo forse un po’ didascalico, ma che fa pensare che più che porte chiuse siano i nostri occhi a essere chiusi.

Applausi e fischi di ammirazioni da parte non solo dei giovanissimi, ma del pubblico tutto.

Poi, come nella migliore tradizione di teatro politico, alla fine dibattito con attori e regista…

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia

Iscriviti alle
newsletter