Codice Oleario

Fraintendimenti sugli oli da olive

Tutto è partito da un commento del lettore Carmelo Scalìa: "non riesco a capire che ci azzecca l'olio di sansa". Un confezionatore di prodotti sottolio demonizza invece l'olio di oliva perché ritenuto un "olio chimico". E’ la dimostrazione che esiste una grave lacuna culturale che riguarda soprattutto gli addetti ai lavori. I consumatori? Non hanno colpe

Luigi Caricato

Fraintendimenti sugli oli da olive

In coda a un recente articolo di Olio Officina Magazine, in cui ci si concentrava su un olio di sansa di oliva descritto, su un sito di e-commerce americano, con qualche licenza espressiva un po’ esagerata nelle aggetivazioni (Verde, robusto, dal sapore unico) è stato postato un commento critico da parte di Carmelo Scalìa.

Con tutta sincerità, ritengo sia giusto pubblicarlo a parte, e in tutta evidenza, riservando addirittura un articolo dedicato, proprio per dare maggiore risalto a un modo di pensaree che io non condivido in senso assoluto.

Leggo tra le righe ma non comprendo, nulla da togliere all’imprenditore in questione, ma decantare un olio di sansa di oliva mi sembra troppo. Non riesco a capire che ci azzecca, nel mondo di Olio Officina, l’olio di sansa? Legittimiamo anche quello, non ci basta l’extra vergine a prezzi ridicoli, mettiamoci pure la positiva informazione sull’olio di sansa e siamo proprio alla frutta, tra non molto qualche altro operatore sarà censito favorevolmente per la produzione di un ottimo olio di semi, anche quello da parte del mondo dell’olio.

Fin qui il commento di Carmelo Scalìa, breve ed essenziale, quanto mai esplicativo di quel che pensano in molti.

Dalla lettura del commento si evince chiaramente che esista ormai in Italia una reale idiosincrasia verso gli oli di sansa di oliva, come pure verso gli oli di oliva.
C’è l’evidente difficltà ad accettare e accogliere, attribuendo la giusta dignità che pure meritano tali categorie merceologiche, riconducibili tutte – va pur ricordato – al frutto dell’oliva. L’avversione è dunque verso tutto ciò che non rientra nella categoria principe dell’olio extra vergine di oliva. La stessa categoria degli oli vergini di oliva, pur presente nei frantoi italiani in gran quantità, è addirittura scomparsa dagli scaffali, tranne in qualche rarisssima eccezione.

Il tema degli oli da olive in tutte le loro espressioni merceologiche – ve ne sarete accorti – mi sta particolarmente a cuore. Di conseguenza, vorrei evidenziarlo ancora una volta in questo articolo, per chi non avesse finora letto i miei tanti libri e articoli, in tutto questo tempo che mi occupo di oli da olive. Per me, e sono orgoglioso di ribadirlo, è importante far tesoro di tutta l’ampia gamma degli oli da olive: tutti gli oli, nessuno escluso. Ovviamente va riconosciuta la piramide della qualità, che dovrebbe essere ben evidente a tutti, almeno si spera. Poi, è chiaro che l’olio extra vergine di oliva debba essere il vero centro propulsore, la vera forza attrattiva dei consumi, ma senza svilire tutto il resto, senza addirittura manifestare una avversione. Poi, certo, chiunque è libero di pensarla come meglio crede, ma rinunciare alla complessità di un prodotto dai molteplici espressioni quale è l’olio che si ricava dalle olive mi sembra un limite culturale piuttosto evidente.

Grazie al commento di Carmelo Scalìa, ho ancora una volta l’occasione di scrivere il mio pensiero al riguardo, senza che vi siano più equivoci o interpretazioni sbagliate, o, peggio, maldicenze e calunnie (la prima delle quali si riassume in una frase alquanto evocativa, che solo persone intellettualmente e moralmente povere possono formulare: “venduto all’industria”.

L’articolo che ha scatenato la reazione di Carmelo Scalìa evidenzia effettivamente l’errore eclatante commesso da chi ha gestito il sito di vendita on line, avendo esagerato nella descrizione dell’olio di sansa di oliva. Ed è proprio per questo che ne ho scritto, porprio per evidenziare l’errore. Questo tuttavia non significa che vadano demonizzati gli oli che non siano extra vergini, sarebbe un errore grave.

Lo ripeto ancora una volta: non c’è da spaventarsi per le differenti classi merceologiche degli oli da olive. Ciascuna di esse ha il suo valore, sempre secondo una scala gerarchica riconosciuta dallo stesso legislatore e valida ormai a livello internazionale.

L’olio extra vergine di oliva è la categoria di qualità per eccellenza, ed è sicuramente soggetta a molte speculazioni, come si può ben notare dall’andamento dei prezzi sugli scaffali. Prendersela tuttavia con gli oli non extra vergini è un errore grave, perché rappresentano una importante risorsa. Si tratta semmai di restituire il valore perduto a un prodotto come l’olio extra vergine di oliva che negli ultimi anni ha perso valore commerciale soprattutto per colpe degli stessi operatori del settore, prima ancora che per responsabilità della Grande distribuzione organizzata.

Non dobbiamo spaventarci per le tante differenti classificazioni mercoleogiche esistenti, e nemmeno ci debbono incutere timore gli oli da seme. Su Olio Officina Magazine, una rivista laica e non ideologica, si da’ spazio oltretutto a tutti i grassi alimentari, senza alcun pregiudizio, tenendo sempre in considerazione la scala gerarchica di valore, distinguendo così di volta in volta tra i vari grassi destinati a un uso alimentare.

A proposito degli oli da seme, su Olio Officina Magazine abbiamo recensito un ottimo olio da seme, quello ricavato dal pistacchio di Bronte: QUI

Non c’è da spaventarsi, dunque. Occorre semmai lavorare affinché si acquisisca una cultura alimentare che permetta a tutti di distinguere tra le varie qualità.

E’ evidente che la qualità per eccellenza sia quella riconducibile alla categoria merceologica dell’olio extra vergine di oliva, intorno alla quale mi sembra non vi sia alcun dubbio. C’è invece da rilevare come non tutti i consumatori riescano ancora a distinguere tra le varie qualità di un olio extra vergine di oliva, questo sì. Il consumatore non è preparato, ma nemmeno – aggiungo io – lo sono gli addetti ai lavori. Per il consumatore, affidarsi alla generica dicitura riportata in etichetta non è sufficiente. Meglio imparare semmai a valutare la bontà degli oli attraverso una educazione al gusto, proprio come è avvenuto con il vino attraverso il paziente lavoro dei sommeliers, i quali hanno reso il vino più comprensibile nelle varie declinazioni delle qualità.

Per il resto, il produttore – spesso (giustamente) lamentoso, per via della scarsa remunerazione – dovrebbe tornare a studiare sui vecchi e nuovi libri, per rendersi conto di come, dall’olivo e dall’oliva, sia possibile trarre ancora tanti vantaggi economici, se solo si riuscisse a dare il giusto peso e valore a ciascun elemento riconducibile all’oliva, senza con ciò trascurare nemmeno le foglie di olivo. Tutto porta ricchezza, ma se il valore degli oli da olive si è perso – e nessuno può sostenere il contrario – dobbiamo umilmente scorgere le responsabilità di quanti hanno sbagliato, studiando gli errori (gravi) finora commessi.

Concludo con un aneddoto. A Milano ho incontrato qualche giorno prima di Pasqua, nel corso di un evento cui hanno partecipato piccole e medie imprese di Toscana, Liguria e Sardegna, il titolare di un’azienda che confeziona, anche per conto terzi, prodotti sottoli. Mi ha fatto vedere le confezioni dei muscoli sott’olio, prodotti a Sarzana. Un tempo confezionava i vasetti esclusivamente in olio extra vergine di oliva, ma il mercato non li accettava, perché il consumatore percepiva l’extra vergine come troppo marcato al gusto. Così ha dovuto rimediare sostituendo la soluzione grassa con oli di seme di girasole. Al che mi è venuta spontanea la domanda: “perché non un olio di oliva, visto che ha un gusto neutro rispetto all’extra vergine?”
La risposta, immediata: “perché è un olio chimico”. Proprio così: secondo il titolare di questa azienda l’olio di oliva è frutto di un’operazione che richiede l’intervento invasivo della chimica.
Al che io ho replicato: “l’olio di girasole, che lei utilizza, come crede sia ottenuto, senza nemmeno un passaggio in raffineria? Per opera dello Spirito Santo?
Scena muta da parte del titolare dell’azienda.
E io, a incalzarlo: “lei è libero di utilizzare il liquido grasso di copertura che più desidera, ma sa, almeno, che sia l’olio di oliva, sia lo stesso olio di sansa di oliva, sono di gran lunga di una qualità nutrizionale superiore rispetto all’olio di girasole?”
Il titolare dell’azienda confezionatrice di sottoli resta muto, e un po’ sorpreso, si difende: “ma io non so da dove vengano gli oli di oliva, non sono italiani”.
E io, prontamente: “perché, in Italia non c’è olio lampante a sufficienza per ricavarci olio di oliva? E se anche fosse un olio di oliva importato, lei pensa che l’olio di girasole provenga nella quasi totalità dall’Italia?”.
Silenzio imbarazzato del titolare dell’azienda, poi dopo qualche decina di secondi confida il nome dell’azienda da cui acquista l’olio di semi di girasole.
Al che io dico: “ma la stessa azienda di cui lei si fornisce commercializza anche l’olio di oliva. Sostituisca allora l’olio di girasole con l’olio di oliva, indicandolo in etichetta darebbe valore al suo prodotto, il consumatore resta attratto dall’indicazione di olio di oliva, anziché di quella dell’olio di girasole”.

Ricevo l’invito a visitare l’azienda, ci andrò appena mi sarà possibile. Ciò che conta qui evidenziare, è che la demonizzazione degli oli non extra vergini, seppure riconducibili comunque all’oliva, alla lunga porta a questi rifuti, a queste chiusure mentali. E’ forse questo che noi vogliamo? Sottrarre valore alla filiera dell’olio di oliva in tutte le sue manifestazioni? Io credo che ogni persona dotata di un minimo di intelligenza debba riflettere su tale aneddoto. Stiamo defraudando e depauperando, per mancanza di cultura e per negligente assenza di buon senso, tutto ciò che porta ricchezza, solo perché siamo così poco attrezzati culturalmente. Arrivare a demonizzare gli oli di oliva che non siano extra vergini è follia pura, dimostrazione plateale di incultura. Mi spiace dirlo, ma tra i tanti detrattori degli oli di oliva e gli oli di sansa di oliva e gli oli vergini di oliva, quelli più scatenati sono proprio gli addetti ai lavori: olivicoltori, frantoiani, e non solo loro, anche le aziende di marca in alcuni casi si sono arrese all’evidenza e curano poco gli oli non extra vergini.

Che terribile vuoto culturale! A volte mi chiedo se abbia senso aver scritto tanti libri e tanti articoli a favore degli oli da olive. L’ho fatto per onorare il duro lavoro di mio padre, ora riflettendo sull’angosciante vuoto culturale da cui sono circondato, mi sembra che sia stata una colossale perdita di tempo. Potevo occuparmi d’altro. Ma cosa pensano i detrattori degli oli da olive diversi dall’olio extra vergine di oliva? Pensano forse che nella mia difesa dell’olio di oliva o dell’olio di sansa di oliva o dell’olio di oliva vergine io punti a preferire questi oli nei condimenti a crudo in sostituzione dell’olio extra vergine di oliva? Non sanno, costoro, che vi sono altri impieghi alternativi e possibili: nelle fritture industriali, nei prodotti da forno, nei diversi preparati, e, in generale, là dove si legge indistintamente, nell’elenco degli ingredienti, la dicitura “olio vegetale”. Non sarebbe da preferire l’indicazione olio di oliva o olio di sansa di oliva o olio vergine di oliva?

E’ proprio vero, per me almeno è così: c’è una grave lacuna culturale che sta devastando l’Italia, ma tale vuoto culturale riguarda soprattutto gli addetti ai lavori. I consumatori non hanno colpe, anche perché i consumatori sono consumatori di qualsiasi merce, e non si può pretendere da loro che possano conoscere approfonditamente tutto di tutto.

Così, per restituire finalmente valore agli oli da olive, occorre partire dalle basi, di cui molti dimostrano di essere carenti. Colmare le vistose lacune in materia di oli, mi sembra il primo passo da compiere tra i tanti necessari da fare. Occorre muoversi, altrimenti crolla tutto il sistema.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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