La dignità dell’olivo
Abbiamo iniziato a cogliere le olive dai cespugli nella macchia, poi cominciammo a coltivare gli olivi, piante dalle mutevoli forme e dimensioni. Nati per la campagna, sono stati infine reclutati, composti in ridicole forme o in istallazioni retoriche, per le esibizioni urbane nelle piazze
Coltiviamo gli alberi di olivo da 8000 anni, scena della storia e sintesi della ricchezza culturale del Mediterraneo. “L’aspro gusto pungente delle olive nere tra i denti” evoca, per Lawrence Durrel, “le sculture, le palme, le collane d’oro, gli eroi con la barba, il vino, le idee, le navi, il chiaro di luna, le gorgoni alate, gli uomini bronzei, i filosofi”.
Abbiamo iniziato a coglierle dai cespugli nella macchia, abbrustolite al fuoco nelle grotte lasciavamo i semi in eredità ai paleobotanici che ci raccontassero degli olivi selvatici che segnavano il paesaggio preistorico.
Poi cominciammo a coltivarli: era facile, bastava interrare una grossa porzione di ramo o una delle protuberanze della ceppaia degli alberi più generosi e l’attecchimento era assicurato.
Più tardi imparammo ad innestarli. Nei tempi greci e romani segnavano i confini, coltivati insieme alla vite si allargavano in ampi spazi. Alcuni storici ritengono che in periodo arabo, quando l’olio lo importavamo dall’Africa, fossero poco coltivati ma, nonostante ciò, chiamiamo saraceni gli alberi più grandi e antichi.
Per i caratteri del tronco non possiamo conoscerne l’esatta età (quanti alberi millenari sono “solo” centenari!). Ci fidiamo allora dell’autorevolezza letteraria di Leonardo Sciascia: “È quell’olivo dal tronco contorto, attorcigliato, di oscure crepe; come torturato, e par quasi di sentirne il gemito. Annoso, antico: e si crede siano stati appunto i saraceni a piantarlo, ad affoltirne la valle tra l’Agrigento di oggi e il mare”.
Di Luigi Pirandello: “una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul mare africano”.
Di quella, più recente, di Andrea Camilleri: “pareva un àrbolo finto, di teatro, nisciùto dalla fantasia di un Gustavo Doré, una possibile illustrazione per l’Inferno dantesco”.
Le forme muscolose danno un’illusione di vita millenaria, nuovi fusti continuamente si producono da gemme che nascono disordinatamente dalle escrescenze legnose che ingrossano il tronco al ciocco e arrivano a sommarsi fino a sostituire quello originario.
Con sobrietà da studioso, l’archeologo Biagio Pace costatava però che “il popolo li chiama saraceni con un sommario giudizio storico esteso a tutte le cose antiche, per dichiararle fuori dal nostro tempo e dalla nostra civiltà”.
Gli olivi prendono in natura e in campagna forme e dimensioni che dipendono dal portamento della varietà coltivata, dai caratteri dell’ambiente, dalle tecniche di potatura. In Calabria raggiungono 15 metri di altezza, a Pantelleria strisciano al suolo.
Ovunque (le pitture nella storia dell’arte ne sono continua testimonianza) la sacralità e la dignità degli olivi sono riconosciute e Linneo riconobbe un valore che andava oltre i confini del Mediterraneo e chiamò la specie Olea europaea.
Pirandello, per l’incompiuto atto finale de I Giganti della Montagna, negli ultimi giorni di vita, trovò lo sfondo conclusivo con parole, accompagnate da un sorriso, che il figlio Stefano raccolse: “C’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”. E poiché io non comprendevo bene, soggiunse: “Per tirarvi il tendone…”. Lo stesso che bisognerebbe tirare a nascondere quei disgraziati olivi che, nati per la campagna, sono stati reclutati, composti in ridicole forme o in istallazioni retoriche, per esibizioni urbane nelle piazze palermitane.
La foto di apertura è di Olio Officina
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