Codice Oleario

La sbornia dei monovarietali

E’ bene fare un po’ di chiarezza per evitare confusione e false attese. Il mercato degli oli monovarietali in Italia non ha ancora una normativa chiara e specifica, purtroppo. Tranne in pochi casi, nel maremagnum delle cultivar, per via organolettica è problematico accertare la varietà generatrice attraverso chiari fingerprints

Ettore Franca

La sbornia dei monovarietali

Nei millenni, l’olivo, che in Italia è distribuito lungo quattro paralleli su varie altimetrie con differenti ambienti climatici, per la selezione naturale ed in risposta alle tecniche di coltivazione, ha prodotto una vasta gamma di cultivar. A questa evoluzione è seguita la babele dei nomi che, diversi da luogo in luogo, spesso indicano la stessa varietà o, col medesimo nome, ne designano differenti tanto che, anche chi ha dimestichezza con gli olivi, spesso è in difficoltà nell’attribuire con certezza una pianta a questa o a quella cultivar.

Per cercare di venire a capo del problema, quale carta d’identità sia varietale che del luogo d’origine, era stata tentata dapprima la via della mappatura degli acidi grassi dell’olio[1] poi, al migliorare della strumentazione analitica, vennero indagati i componenti dell’insaponificabile, abbandonando infine entrambi le metodiche, risultate poco affidabili. A metà secolo, Watson e Crik hanno offerto uno strumento efficace per porre fine alla confusione nel patrimonio olivicolo così, con la mappatura del DNA, s’è cercato di dipanare la matassa per veder più chiaro su questa pianta che, famigliare da sempre, lascia tutt’ora molti aspetti da scoprire.

Tra gli ultimi tentativi di caratterizzazione, sotto l’egida dell’ASSAM e de “Il Sole24ore”, c’è il lavoro di un qualificato panel che, animato da Barbara Alfei in collaborazione con il CRA Oli di Spoleto e l’IBIMET del CNR di Bologna, ha avviato la strada della definizione organolettica di oli ottenuti in purezza da cultivar fra le oltre 500 italiane, e non solo. Man mano che l’esplorazione progrediva, i risultati erano pubblicati sui media e, in parallelo, sono state organizzate rassegne che, anno dopo anno, hanno contribuito ad aumentare il numero degli oli ottenuti da olive di una sola varietà.

Coniato il neologismo “monovarietale”, accanto alla generica massa dei tradizionali extravergini blend, è venuta a crearsi una nicchia che, in un mercato incuriosito, è stato prontamente assecondata dai produttori. A testimoniare l’interesse mosso da un’evidente domanda in crescita, ne sono fede gli ultimi due concorsi di OLEA, i più prestigiosi nel campo oleario – “L’Oro delle Marche®” e “L’Oro d’Italia®” – che vedono la partecipazione dei “monovarietali” superare quella dei blends.

Le edizioni concorsuali più recenti, infatti, hanno registrato 73 “mono” contro 44 “blends”, nel primo, e 194 contro 132 nel secondo, l’uno e l’altro in linea col trend avviato da una decina d’anni. Lo stato dell’arte e l’indagine in corso sui monovarietali hanno aperto tre scenari.

Il primo, a carattere prettamente scientifico, ha l’obiettivo di migliorare la conoscenza degli olivi e dei loro oli muovendosi in un campo di studio ancora quasi vergine nonostante l’encomiabile lavoro del gruppo Alfei- panel ASSAM – IBIMET – CRA Oli.

Il secondo, segue il filone gastronomico che, indagando i caratteri dell’olio “mono”, vuole sia apprezzato e sapientemente sfruttato quale ingrendiente per la grande potenzialità capace di esprimere nell’esaltazione di un piatto.

Alimentato dalla moda e dall’opportunità commerciale, il terzo scenario è quello che sfrutta la novità per farsi spazio nel mercato con un prodotto “nuovo” anche se, in una piazza in cui esclusi pochi cultori, la parola “monovarietale” dice ben poco a consumatori molti dei quali non hanno ancora ben chiara la differenza fra un “extravergine” e un “di oliva”.

L’uno o gli altri scenari ben vengano comunque se riusciranno a destare l’interesse in un settore che stenta a trovare lo spazio che meriterebbe in parallelo alla qualità raggiunta. Va però considerato che tranne in pochi casi, nel maremagnum delle cultivar, per via organolettica è problematico accertare la varietà generatrice attraverso chiari fingerprints. Le sensazioni rilevabili sono infatti molto influenzate anche da fattori estranei alla cultivar, come la latitudine (sud o nord d’Italia), l’altitudine (pianura o alta collina), l’annata piovosa o asciutta, la maturazione (olive appena invaiate o stramature), la raccolta (precoce o tardiva), la tecnica d’estrazione, il momento dell’assaggio, l’età dell’olio, ecc.

Sfogliando in letteratura i risultati delle analisi sensoriali, ci s’imbatte spesso negli stessi attributi: colore “giallo” o “verde” con “riflessi” o no; fruttato e fluidità nei tre gradi leggero-medio-intenso; amaro e piccante con “sentori”, “note”, “sensazioni” o “nuances” più o meno avvertite fra “foglia”, “erba”, “carciofo”, “mandorla” o “pomodoro”; con retrogusto di questo o di quello, tutti variamente qualificati con aggettivi (intenso, deciso, medio, avvertibile, ecc.) o quantificati col valore numerico definito sul range di una scala.

Alla ricerca di discriminanti è frequente poi trovare attributi secondari poco specificati (cervellotici?) come le “erbe aromatiche” (quali: la salvia o il prezzemolo?, l’anice o il basilico?, la menta o la maggiorana? il dragoncello o il timo? … ), oppure i “frutti di bosco” (la fragola o il mirtillo?, il lampone o la mora?, il ribes o l’uva-spina? … ), o la “frutta esotica” ( il mango o la papaia?, la banana o l’avocado? l’alchechengi o la passiflora? … ).

Interpretando la descrizione di un’analisi, o decrittando i grafici “a ragno”, molto raramente è possibile risalire alla cultivar che ha prodotto quell’olio i cui caratteri sono influenzati, a volte nettamente, da fattori del tutto estranei all’impronta della varietà. Ad oggi, i monovarietali indagati sono circa 150-160 degli oltre 500 possibili solo in Italia, quindi c’è ancora molta strada da percorrere, purtroppo con il rischio di aumentare la confusione in un mix-up che, se lascia intravedere la difficoltà di uno studio auspicabile comunque, facilmente rischia di sfociare in una attività autoriferenziata quindi, in pratica, poco significativa.

Un deciso passo avanti per facilitare la scelta dei consumatori, e ancor più del ristoratore, sembra auspicabile un lavoro mirato a raggruppare le centinaia di varietà nelle sei tipologie attualmente proposte e codificate sia secondo le affinità organolettiche degli oli ma, soprattutto, in base ad attributi sensoriali non solo stabilmente presenti ma con intensità decisamente rilevabili.

Ecco allora che nel primo gruppo, ad esempio, compaiono le cultivar Taggiasca, Leccino, Dolce Agogia, Dritta, Gentile di Chieti, Nebbia, Raggia, Caninese,Raggiola, Ogliarola, Rosciola, eccetera, i cui prodotti sono connotati da un “fruttato” di intensità media, con “amaro” e “piccante” di livello medio-leggero mentre, quasi discriminante, sembra possa essere il profumo prevalente di “mandorla verde” accompagnato da sentori di “erba” o “foglia d’olivo” e “carciofo”.

La seconda tipologia riunisce le varietà Frantoio, Moraiolo, Coratina, Correggiolo, Raja, Pendolino, Pisciottana, Razzo, Sargano e altre i cui prodotti presentano gli stessi denominatori dalla precedente ma tutti con intensità tendenzialmente e stabilmente maggiore: il “fruttato” di livello medio come l’“amaro” e il “piccante”, con profumo prevalente di “mandorla verde” e leggeri sentori di “erba” e “carciofo”.

La terza tipologia raggruppa oli con “fruttato” ad intensità media, come quella dell’“amaro” e del “piccante”, ma connotati dal particolare sentore di “frutti di bosco” che in realtà, sopra ogni altro, ricordano il lampone o la sensazione riscontrabile in alcuni chewing-gum.

La quarta tipologia riunisce Peranzana, Orbetana, Carolea, Bosana, Maurino, Majatica, Salella, Biancolilla e altre che condividono il “fruttato” tipicamente medio con “piccante” e “amaro” medio-leggeri associati ai sentori di “erba”, “foglia”, “carciofo” e, talvolta, con sfumature di “pomodoro” e “mandorla verde”.

Nei successivi due raggruppamenti, rispetto ai già visti, il “fruttato” si eleva a livelli medio-intensi che, nel quinto, è accompagnato da altrettanta percepibilità dell’“amaro” e del “piccante” sui quali si colgono soprattutto “carciofo”, “foglia” e toni minori di “pomodoro” e “mandorla verde”. Gli oli della quinta tipologia sono quelli di Bianchera, Ascolana dura, Picholine, Intosso e altre cultivar.

Nella sesta troviamo Ascolana tenera, Cerasuola, Itrana, Giarraffa, Ortice, Ravece, Tonda Iblea, le Nocellare ed altre, con oli di elevato “fruttato”, “amaro” e “piccante” d’intensità media e con nette sensazioni di “erba”, “foglia” e “pomodoro” mentre più lievi appaiono “carciofo” e “mandorla verde”.

Il mercato degli oli monovarietali in Italia, purtroppo, non ha ancora una normativa chiara e specifica capace di garantire che il contenuto della confezione sia corrispondente a quanto indicato in etichetta per cui, attualmente, ci si deve fidare dell’onestà dei produttori.

Ben venga quindi la neonata “Associazione dei Produttori di Monovarietali” – sorta a fine 2012 e che ora conta 60-70 soci – la quale potrebbe stimolare il legislatore, magari suggerire o anticipare la redazione di un documento o, a latere, creare una struttura che garantisca sia chi produce che chi consuma intimorito dalle notizie – enfatizzate in genere – circa le frodi che spesso sono più di tipo amministrativo-fiscale che “di sostanza”.

Allo stato delle cose si è ancora lontani da un riconoscimento certo, attestato sia da metodi di laboratorio che da analisi organolettica, a garanzia di quanto dichiarato in etichetta anche se si corre il rischio che le normative, qualora scritte, trovino scarsa applicazione lasciando perplesso il consumatore.

Man mano che si complica la comunicazione di nozioni dettagliate, sia illeggibili in etichetta o nella confusione di marchi e riconoscimenti, l’impresa risulta ardua mentre trasmettere nozioni semplici ma efficaci e che tutti capiscano, potrebbero orientare verso scelte più oculate. Per capirci, gli oli monovarietali caratterizzati per via organolettica potrebbero essere suddivisi in soli tre raggruppamenti differenziati sulla base dei sentori fondamentali.

Denominatore comune del primo di questi – la tipologia più comune – ad esempio potrebbe indicare gli oli col “fruttato”, l’“amaro” e il “piccante” percepiti con intensità fra medio-intenso e denotati dai sentori “erbacei” che ricordano la “foglia di olivo”, il “carciofo”, la “mandorla verde” e l’“erba”; il secondo gruppo – meno diffuso e conosciuto – dovrebbe mettere insieme gli oli connotati da “fruttato”, “amaro” e “piccante” di intensità media con sensazioni che ricordano i “frutti di bosco” (il “lampone”, in pratica), mentre il terzo raggruppamento potrebbe riunire gli oli con il “fruttato”, l’“amaro” e il “piccante” decisamente intensi associati ai prevalenti sentori che richiamano il “pomodoro”, verde o maturo e, in subordine, l’“erba”.

Semplificare la problematica consentirebbe (è la speranza !) di arrivare al consumatore con una comunicazione facilmente comprensibile e che, si spera, sia più efficace insieme alle azioni di quanti – come OLEA e i suoi soci – perseguono il bene dell’olio cercando di accrescere sia la conoscenza delle qualità salutistiche ed organolettiche che l’utilizzo culinario di questo straordinario prodotto.

OLEA auspica, inoltre, che la sua attività possa accelerare il giusto collocamento commerciale dei prodotti d’eccellenza valorizzando il lavoro dei produttori che, attraverso i loro oli, possono trainare al successo anche i territori di provenienza sdoganando il mercato dell’extravergine di qualità dall’ignoranza e dai pregiudizi.

[1] Anni ’60, i proff. Enrico Tiscornia, Pompeo Cappella e altri.

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