Le olive da tavola protagoniste assolute
Vi raccontiamo come si è concluso il ciclo di incontri del Progetto Alive. Una iniziativa promossa dal Crea, Tuesday Alive, e dedicata alle olive da tavola, è terminata lo scorso mercoledì 7 dicembre. In quest’ ultimo incontro sono stati approfonditi molti aspetti, con la testimonianza delle diverse realtà legate alle olive Taggiasca e Peranzana. Gli eventi, fin dall’inizio del percorso, hanno riscontrato un enorme successo, registrando numeri importanti, tra ospiti, partecipanti e visualizzazioni degli incontri registrati. Alla luce di questi dati, molto positivi, il comitato organizzativo sta già lavorando ad altre iniziative
Il programma Caratterizzazione e valorizzazione delle olive da mensa e a duplice attitudine – Alive è iniziato a maggio e dopo sette mesi di dialoghi, tavole rotonde e confronti è giunto al termine. Anche l’ultimo incontro ha visto la partecipazione di un ricco pubblico, sempre più curioso e pronto a interagire con i relatori attraverso domande o fornendo il proprio punto di vista in diversi momenti.
Questo è sinonimo della grande riuscita del lavoro nella sua totalità.
Le olive protagoniste dell’ultimo webinar sono state la Taggiasca, o Taggiasche, come scoprirete leggendo gli interventi, e la Peranzana: Liguria e Puglia, regioni geograficamente distanti, e a livello paesaggistico ancora di più, ma entrambe simbolo dell’olivicoltura in Italia.
L’incontro è cominciato dalla Riviera Ligure con Claretta Siccardi, proprietaria dell’Azienda Agricola Benza e Vicepresidente Associazione per la Taggiasca del Ponente Ligure, che ci ha restituito alcuni momenti chiave della storia dell’oliva Taggisca.
«Solo alle spalle di Imperia, sono presenti trenta ettari destinati alla coltivazione della Taggiasca. Quindi, quando nel 1992 sono state istituite le Dop, la Riviera Ligure si adopera nell’immediato per ottenere il riconoscimento, e nel 1997 nasce la Dop Riviera Ligure, Riviera dei Fiori, del Ponente Savonese e del Levante. Tra queste, è la riviera dei Fiori che produce circa il 90% della Taggiasca, e da sola vale il 97% del certificato. Nel 2006 abbiamo proposto la Dop anche per la Taggisca in salamoia, ma non la ottiene perché non conforme al regolamento n.510 del 2006. Il 2016 è l’anno in cui viene costituito il Comitato per la Taggiasca del Ponente Ligure, con determinati punti chiave, come: il concetto che la varietà taggiasca è di tutto il territorio non può quindi appartenere solo alle aziende che aderiscono alla Dop; la Taggiasca è un’oliva molto ambita, quindi ci siamo posti l’obiettivo di tutelarla da possibili concorrenze; la ricerca di nuovi sistemi per la tutela che portino a una completa garanzia al consumatore. Altre date significative di questo percorso sono il 2017, anno in cui avviene un’importante collaborazione con il parco Tecnologico di Lodi Ptp, e infine il 2018, anno della nascita dell’Associazione per la Taggiasca del Ponente Ligure. Ritornando al Parco Tecnologico di Lodi, è stato il presidente dell’Associazione, Simone Rossi, ad avere i primi contatti. L’interesse verso questa realtà è nato perché il laboratorio agroalimentare del Ptp aveva lavorato sulla certificazione dei prodotti agroalimentare basato su tre concetti cardine: sicurezza, tracciabilità e qualità. Da questa base è stato messo a punto un metodo molecolare per l’identificazione della varietà commerciale della Taggiasca, e si è ottenuto il Dna controllato cultivar Taggiasca. Il nostro progetto doveva essere completo, ed era necessaria una certificazione della provenienza, delle tecniche di lavorazione inerente alla territorialità delle olive. Il 15 agosto 2020 abbiamo ottenuto il marchio registrato e un anno dopo l’Associazione ha pubblicato il Piano di controllo, stabilendo che gli accertamenti vengano eseguiti in contemporanea dal Parco Tecnologico Padano e Valoritalia, che garantisce la tracciabilità dell’intera filiera. L’intero progetto è stato totalmente finanziato dalle aziende aderenti all’associazione, senza contributi pubblici. In termini di numeri, quantità e ettari, la situazione ligure è circa così strutturata: nel 2010 gli ettari coltivati a olivicoltura erano 10.500, dove la Taggiasca occupava il 70% dei terreni. Nel 2019 sono 16.340 gli ettari adibiti a olivicoltura e 10.000 sono destinata alla Taggiasca. Quest’ultima, al contadino, viene pagata 180-200 euro al quintale e vale sul mercato dai 400 ai 500 euro al quintale e non si può tralasciare questo aspetto così importante; la Liguria deve impegnarsi costantemente per tutelare questo prodotto».
Luigi Caricato porta l’attenzione su un concetto molto importante: c’è il timore che la Taggiasca diventi un brand di molti e non solo dei liguri?
«L’Associazione è nata per questo, per tutelare tutti gli aspetti che la caratterizzano. Il riferimento geografico è predisposto nelle Dop, quindi la provenienza è tutelata», afferma la signora Siccardi, ma il dottor Muzzalupo sottolinea che «il Dna permette di garantire la tracciabilità varietale. Quindi, questo tipo di analisi può stabilire solo ed esclusivamente la varietà, che questa sia coltivata in Liguria o in una qualsiasi altra parte del mondo. L’Italia ha un microclima talmente diverso di zona in zona in cui è possibile individuare dei marcatori geografici, specialmente la Liguria può godere di questa situazione, perché si trova in condizioni uniche al mondo. Alla Taggiasca, in assoluto, il legame con il territorio, più di qualsiasi analisi, lo garantisce il sapore. Il microbioma che si ottiene nel territorio ligure è unico, definito da sapori e percezioni uniche. Quindi, a questo occorre solo una analisi sensoriale per legarla ancora di più al territorio».
Il webinar del 7 dicembre è stata anche occasione per risolvere il mistero del perché si parli di Taggiasche e non Taggiasca, ed è stato il dottor Muzzalupo a far luce su questo aspetto: «ci sono situazioni in cui l’ulivo si è propagato per seme, ottenendo da un’unica pianta madre tanti ceppi. Le caratteristiche vengono conferite dai genotipi e queste, se abbinate alle condizioni oleografiche della Liguria, otteniamo dei micromondi differenti. Esistono, quindi, tante Taggiasche differenti e non solo una e la varietà che offre la Liguria sulle Taggiasche è impossibile da replicare, perché può essere clonata una Taggiasca in una parte qualsiasi dell’Italia e del mondo, ma non sarà possibile averne di differenti perché non entreranno in gioco tutti gli elementi che forgiano le Taggiasche liguri».
Il dottor Giovanni Minuto, direttore generale Centro di Sperimentazione e Assistenza Agricola Albenga, ci ha mostrato il futuro dell’olivicoltura ligure.
«All’olivicoltura ligure attendono tante sfide, di natura politico – amministrative e tecnologiche – tecniche. Ad attendere questo settore ci sono anche delle prospettive, come valorizzazione e stimolo alla creazione di nuove imprese. Infine, opportunità, come formazione tecnica ed economica. La Taggiasca è un marchio a sé, e nonostante sia molto sensibile all’umidità del terreno, alla mosca dell’ulivo, alla rogna, al vento e al freddo, noi come liguri investiamo tanto per valorizzarla e promuoverla. Dobbiamo combattere contro parassiti e patogeni che si sono sviluppati anche in tempi più recenti, a causa dei mutamenti climatici, e i prodotti che abbiamo a disposizione non sempre risultano efficaci. A questo si aggiunge un altro fattore delicato, che per le olive da mensa è ancora più difficile da risolvere: queste devono essere prive di segni e danni, e non risulta così facile preservare queste caratteristiche. Ci affidiamo, però, a delle strategie come il monitoraggio, anche quello partecipato, che ha luogo da marzo a novembre, per contrastare la mosca dell’ulivo. Purtroppo, a seguito dell’aumento delle temperature autunnali, l’ultima generazione arriva proprio nel periodo della raccolta. A seguito del monitoraggio, è possibile trasferire l’esca proteica attrattiva e ciò che abbiamo ottenuto sono efficacia e buoni risultati in generale. Non esiste, però, solo la mosca. Andiamo verso una stagione di altre fitopatie, come la cimice asiatica che svuota il nocciolo e la drupa cade. L’euzophera è un nuovo insetto che sta arrivando dal nord Italia e causa gravi alterazioni, fino a provocare l’ingiallimento delle fronde. Questa situazione può essere confusa come la ripresa della pianta, quando invece sta accadendo tutt’altro. Inoltre, come è stato accennato, le condizioni climatiche attuali sono determinanti. I cambiamenti maggiori sono concentrati nei mesi estivi, dove le piogge sono sempre più rare. Tra aprile e maggio di quest’anno abbiamo avuto un abbassamento termico rispetto alla media degli ultimi 20 anni, e questo, combinato con il momento della fioritura e l’assenza di piogge estive, è sinonimo di fenomeni di cascola. Bisogna coinvolgere maggiormente i produttori, condividendo i dati che otteniamo costantemente per poter migliorare l’agire e arginare la cascola delle drupe. Infine, voglio sottolineare che l’olivicoltura ligure è molto differenziata anche in base al territorio a cui ci stiamo riferendo. Ad Imperia troviamo molta organizzazione che sfocia in un’agricoltura professionale ed esemplificativa, con oltre 200 ettari di terreno dove le decisioni avvengono in modo comprensoriale. Nel savonese la situazione è molto diversa, e questo ci porta a ragionare e a lavorare in modo completamente diverso».
Il direttore Caricato pone la questione se esiste o meno un legame fra chi fa ricerca e fra chi, invece, è sul campo
«Quello che ci viene richiesto dal New Green Deal è di aumentare del 25% l’agricoltura biologica. Questa sfida non si può fronteggiare da soli, solo attraverso una stretta collaborazione. C’è, esiste, un supporto di carattere amministrativo, però la Liguria è da sola di fronte a uno scenario europeo, alle problematiche di difesa fitosanitarie. Dobbiamo cercare di creare un collegamento tra tecnica e pianificazione politica, creando delle alleanze anche tra regioni e aree olivicole diverse. Dobbiamo, inoltre, essere molto attenti a registrare tutte le innovazioni del settore della difesa e portarle a conoscenza del politico che, attraverso i propri uffici, può migliorarne l’applicazione. Siamo in un momento storico che è all’alba di cambiamenti, ne dobbiamo discutere insieme e unire le risorse tecnologiche di cui disponiamo».
Il New Green Deal ha cambiato lo scenario futuro, nonostante l’accrescimento di competenze tecniche
«Quest’anno sono in arrivo olive di tutte le varietà, causa anche la cascola ci si è dovuti affidare ad altre regioni al di fuori dell’Europa. Questo è un grosso problema, perché se noi europei non possiamo usare il dimetoato, e le olive esteticamente perfette arrivano fuori dall’Europa, ci affidiamo a quelle. Bisogna capire e collaborare con l’industria agrochimica. Devono essere migliorato una serie di aspetti, tra cui la comunicazione, per far arrivare quello che facciamo. Non sempre le persone comprendono perché i nostri prodotti hanno costi più elevati: in Italia è consentito solo lo 0,4% di impiego di prodotti fitosanitari possibili all’interno di un prodotto. Molti possono non esserne a conoscenza e si affidano, quindi, a ciò che ha un costo inferiore. Dobbiamo far comprendere che se i nostri prodotti hanno un costo elevato è perché ci sono dei validi motivi».
Dalla Liguria ci spostiamo in Puglia, con il dottor agronomo Nazzario D’Errico, direttore tecnico Consorzio Peranzana Alta Daunia, che inizia con il delineare le caratteristiche distintive dell’olivicoltura pugliese.
«Si tratta di un sistema che possiamo definire “territorio – ulivo”, dal forte valore culturale, storico ma anche antropologico. La sua presenza si estende a una serie di funzioni, come quella ambientale, capace di tutelare e salvaguardare le risorse naturale e del paesaggio agrario. La tecnica colturale caratteristica è quella a basso impatto ambientale, si tratta quindi di produzione integrata e/o sviluppata con metodi biologici e vi è un’ampia diffusione delle cultivar a duplice attitudine, con un forte contenuti di tipicità e tradizione: Dop, Igp e Pat. Le nostre aziende olearie sono caratterizzate dalla multifunzionalità, basandosi soprattutto di marketing territoriale e turismo rurale. Si è assisto a un forte incremento delle vendite, che va ricercato soprattutto nell’innovazione e differenziazione del prodotto, dove la campagna di marketing è stata determinante per estendere l’uso dell’oliva non solo nella gastronomia tradizionale ma anche in quella edonistica. Anche i sistemi di packaging, capaci di mantenere una shelf life più duratura attraverso termoplastica o l’atmosfera controllata, hanno contribuito a migliorare i risultati all’interno dei mercati anche internazionali. La produzione meda annua della Peranzana per olio è di circa 300.000 quintali, mentre la produzione per le olive da tavola è di circa 25-30.000 quintali. L’indagine è stata curata dal Consorzio Peranzana e i dati sono stati elaborati dall’Upa Foggia, questo perché l’Istat aggrega i dati di olive da olio e da tavola, senza nessuna scorporazione. Risulta quindi opportuno un censimento regionale per definire il sistema produttivo delle olive da tavola e a duplice attitudine».
Il censimento regionale per distinguere le olive da olio e da mensa è un’urgenza? domanda Luigi Caricato
«Il censimento è importante ed è utile per dare il giusto peso e la giusta realtà alle situazioni produttive dei vari territori. Dobbiamo dare valore alla nostra storia, a quella del territorio che ci ospita, e per poter pianificare situazioni produttive, commerciali o a renderci importanti in un contesto di opinione pubblica, abbiamo bisogno di basi concrete: dati statistici ufficiali».
Tornando invece alla Peranzana, da quanto è presente nel territorio pugliese?
«La Peranzana è stata introdotta nel regno delle due Sicilie, fin dal 1700, dal principe Raimondo di Sangro. Originariamente proviene dalla Provenza, e il suo nome è la trasformazione dialettale di quello che era il suo nome. È una cultivar autosterile, resistente alla siccità, mediamente al freddo e ai parassiti, dalla quale si può ricavare l’olio extra vergine e le olive da mensa. Questo denota un cross selling, ovvero il binomio oliva – olio è sinergico e da cui è possibile generare un valore aggiunto. Abbiamo valutato se questa oliva potesse avere tutte le caratteristiche per poter aspirare a una Dop, confrontandoci con il mercato e capire se potesse essere apprezzata e riconosciuta. Abbiamo ottenuto risposte positive, e abbiamo capito che meritava il salto di qualità con la Dop, un iter molto lungo e complesso nel corso del quale l’università di Foggia ci ha fornito tutta la consulenza scientifica necessaria. Il metodo di preparazione previsto dalla Dop è quello al naturale; quindi, in salamoia e deve rispettare una serie di criteri e parametri specifici, senza i quali non si potrebbe parlare di Dop. Ad esempio, per citare qualche elemento distintivo ma anche necessario: il colore deve essere cangiante, con tonalità variabile dal marrone al viola nero, con un peso medio di tre grammi e la colorazione della polpa deve andare dal violaceo al marrone. La durezza e la croccantezza devono essere medie, il distacco del nocciolo netto e completo. Il profumo deve essere netto, di oliva ed erbaceo.
È vietata qualsiasi aggiunta di coloranti e stabilizzanti, e questa variazione del colore, per quanto tipica della Peranzana e sinonimo di non artificiosità, potrebbe avere un approccio negativo al consumatore. La variazione di colore è data dai processi di colore in salamoia e non possiamo, come produttori, creare un’armonia. Attualmente è in corso una ricerca scientifica a cura dell’Università di Foggia per ottenere determinati obiettivi, come l’ottimizzazione del processo di trasformazione in salamoia e il miglioramento qualitativo delle olive al consumo. Nel 2012 è stato istituito il Consorzio Peranzana Alta Daunia, che prevede un’aggregazione in rete degli operatori, quali aziende agricole, trasformatori, confezionatori, per promuovere un programma di valorizzazione e qualificazione delle produzioni olivicole. Il 2014 è l’anno della costituzione del Comitato Promotore rappresentativo del territorio, con il ruolo di coordinare le procedure relative alla richiesta di riconoscimento della Peranzana da tavola Dop. Il Consorzio Peranzana si trasformerà in un organismo riconosciuto che avrà il ruolo di vigilare nell’applicazione corretta delle procedure previste».
Il direttore Caricato porta l’attenzione sulle aziende confezionatrici del Consorzio della Peranzana, che sono circa 25. Quante sono le aziende del territorio che valorizzano e che riescono ad avere un successo commerciale con il loro marchio e quanto incidono le aziende produttrici di Peranzana non del territorio?
«Noi oggi stimiamo una produzione confezionata e commercializzata dalle nostre aziende di circa 5.000 quintali. I flussi di vendita verso le altre regioni sono notevoli, quasi il doppio; i nostri mercati sono, anche per la Peranzana da tavola, una serie di regioni quali: Lazio, Liguria, Veneto, Marche e Abruzzo. Il territorio del Casertano è un altro importante luogo per la nostra commercializzazione. Queste realtà stanno valorizzando la Peranzana molto di più rispetto a quello che facciamo noi, perché avere tutto e avere troppo ci porta però a non vedere che potremmo avere un valore aggiunto, e potenzialmente potremmo organizzarci differentemente e rendere questo prodotto di nicchia con l’aiuto della Dop, che sicuramente sarebbe un’alleata per la nostra struttura commerciale e la relativa comunicazione».
I bar devono promuovere la Peranzana, e molto spesso questo non avviene nel luogo in cui si produce
«Questa è una criticità storica. Noi pugliesi non comunichiamo e valorizziamo il nostro prodotto. Nel 90% dei casi, in un bar o ristorante non viene offerta la Peranzana ma altre varietà. Questi locali sono i primi che interagiscono con i consumatori, e dovrebbero essere loro a fare educazione, e noi dovremmo stare a supporto affinché questo trasferimento si abbia fino al consumatore finale. Abbiamo ancora tantissimo da lavorare, e investire sulla comunicazione».
L’ultimo webinar del progetto Alive si è concluso con l’intervento del dottor agronomo Antonio Daries, responsabile di produzione Consorzio Peranzana Alta Daunia.
«È importante salvaguardare il microbiota della drupa perché ci permette di ottenere un prodotto migliore. Si può creare una linea di olive invecchiate per via del loro ottimo sapore, e magari con il tempo questa sarà possibile. Potrebbe essere interessante valorizzare questa sua peculiarità.
Per quanto riguarda gli starter ho fatto marcia indietro: ritengo sia molto importante salvaguardare il microbiota della drupa perché ci permette di ottenere un prodotto migliore attraverso una fermentazione naturale. Ritengo anche che le olive da tavola non vadano lavate, perché altrimenti questo determina un allontanamento del microbioma naturale».
Il dottor Muzzalupo precisa una questione «esistono però molti batteri presenti sull’oliva, e non tutti sono positivi. Si deve lavare accuratamente e opportunatamente, utilizzando degli starter autoctoni attraverso il riconoscimento del microbioma presente, isolandolo e, infine, moltiplicandolo. A questo punto, isolato quello della Peranzana, le olive si possono lavare in modo da eliminare i microorganismi patogeni o che possono andare incontro a fermentazioni non desiderate, dopodiché si aggiungono gli starter autoctoni nella fase successiva. In questo modo si garantisce la presenza di sapori tipici che vengono dati solo dal microbioma autoctono e riduce i tempi del processo. Questi dati ancora sperimentali, fatto solo su alcune cultivar. Si possono però ottenere dei miglioramenti di qualità, anche in termini di igiene e sicurezza».
Il ciclo di webinar ha dato modo di confrontarsi e dialogare su molti aspetti, chiarendo anche alcune questioni specifiche che non sempre risultano chiare.
Luigi Caricato ci riporta al sapore della Peranzana, perché c’è forte curiosità di sapere com’è il suo gusto invecchiato
«Ho scoperto questa peculiarità quasi per caso, quando mi sono avvicinato a un fusto di olive di qualche anno. La salamoia acquisisce il colore del vino invecchiato e l’oliva mantiene un sapore buono e particolare, grazie alla polpa consistente che può durare molti anni senza incorrere in problemi. Questa non si sfalda e si presta benissimo alla denocciolatura: se con la Taggiasca otteniamo un 50% di utile, con la Peranzana arriviamo al 70%».
In merito all’aspetto del packaging, si è pensato a nuove confezioni per agevolare il consumo e favorire l’acquisto?
«Abbiamo visto che la Peranzana è commercializzata da grandi marchi. Queste aziende hanno cominciato a commercializzarla quasi dall’oggi al domani, perché hanno colto il fatto che è un’eccellenza nel campo delle olive al naturale, e per aziende di questo tipo è più facile immettersi nel mercato anche con formati differenti. Inoltre, non possiamo parlare solo di competizione con le grandi aziende, ma anche rispetto al nord abbiamo maggiori difficoltà. C’è molto lavoro da fare, l’impegno e la voglia per migliorare non mancano».
In merito al ciclo di webinar è intervenuto anche il Conaf, Consiglio Ordine Nazionale Dottori Agronomi e Dottori Forestali
«Il 7 dicembre, con l’ultimo webinar si è completato Tuesday Alive, ossia il ciclo di approfondimenti coprogettato da Crea-Ofa, Conaf e Onb sulla filiera delle olive da tavola. Una proposta di formazione, attraverso un modello nuovo focalizzato su una tematica importante dell’agricoltura italiana quale è l’olivicoltura da mensa. Carmela Pecora, Consigliere Conaf – “Ritengo interessante l’aver sostenuto un approccio partecipativo dal basso, che ha “osato” riqualificare una filiera troppo silenziata ma fortemente presente ed attuale. La prossima sfida sarà quella di implementare ulteriori contenuti, senza tralasciare quelli già progettati, partendo dalle esperienze dei dottori agronomi e dottori forestali quali sentinelle delle esigenze meno percettibili degli imprenditori”».
Già rivolti al domani
«Oltre 100 relatori tra autorità ricercatori, professionisti, atenei e imprenditori del settore si sono alternati lungo l’intero ciclo, con oltre 3000 presenze in piattaforma e oltre 15.000 in diretta streaming sulla pagina dedicata Facebook.E una proposta su cui lavorare è già sul tavolo: istituire un osservatorio permanente sull’olivicoltura da mensa, coordinata dal Conaf quale ente super partes che sulle tematiche di trasferimento dell’innovazione, consulenza aziendale e cooperazione di filiera multiattore possiede diverse esperienze di coordinamento e di best practice nei territori».
La foto in apertura è un’illustrazione di Giulia Serafin per Olio Officina©
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