Codice Oleario

Alta densità in olivicoltura

C’è una malattia diagnosticata cinquant’anni fa e che affligge tuttora l’olivicoltura tradizionale italiana. Può essere definita con queste nude parole: “bassi ricavi, alti costi”. Nei fatti, succede che la stragrande maggioranza dei nostri tradizionalisti imprenditori olivicoli rifuggono da innovazioni che ritengono essere temerarie e si accontentano di mantenere in vita l’esistente Quindici anni di esperienze raccontate in un breve e documentato saggio, con un accurato e minuzioso resoconto che ci deve far riflettere

Angelo Godini

Alta densità in olivicoltura

È risaputo da decenni che l’olivicoltura tradizionale nazionale e perciò anche pugliese non sta bene in salute perché è affetta da una malattia diagnosticata cinquanta anni fa e che può essere così definita: “bassi ricavi, alti costi”. Di tanto consapevole, l’Unione Europea pensò di correre ai ripari elargendo sussidi in favore dell’olivicoltura italiana e francese col Regolamento 136/66 dal titolo “Attuazione del mercato comune nel settore dei grassi”. Ricordo a chi legge che, all’epoca, Grecia, Portogallo e Spagna non facevano ancora parte della Comunità Economica Europea, poi Unione Europea.

Con quel regolamento, l’allora CEE integrava i redditi degli olivicoltori per calmierare il prezzo dell’olio d’oliva al dettaglio e poter reggere la concorrenza dei più economici oli di semi e di altre sostanze grasse di origine vegetale. I fatti avevano insegnato che, nel tentativo di valorizzare il prodotto, a ogni aumento dei prezzi allo scaffale degli oli d’oliva oltre un certo limite corrispondeva un calo delle vendite di questi a favore di oli di arachide, soia, mais, girasole, ecc. in prevalenza importati da Paesi extracomunitari. Aggiungo che, da allora ad oggi, le cose non sono migliorate, perché:

a) alla concorrenza degli oli di semi si è aggiunta quella degli oli extra vergini d’oliva a più basso costo prodotti nel versante meridionale del Mediterraneo, dalla Marocco a ovest alla Turchia a est, dal 2010 liberi di entrare in Europa senza dazi grazie al Free Trade Area firmato a Barcellona il 27-28/11/1995;

b) nell’ultimo quindicennio, i sussidi UE sono stati fortemente ridotti.

Ciò premesso, nella primavera del 1999 Francesco Bellomo, professore associato di Meccanica agraria, mi propose di collaborare ad un programma di ricerche che gli era stato finanziato dalla Regione Puglia, Ispettorato all’agricoltura della provincia di Foggia. Il programma mirava ad individuare innovazioni mediante interventi di tipo agronomico e meccanico per l’abbattimento dei costi di produzione per l’olivicoltura tradizionale foggiana.

Risposi al Prof. Bellomo che, sebbene avessi cominciato a scrivere di olivicoltura nel 1965, avevo anche smesso di farlo nel 1982 perché – secondo il mio personale e del tutto arbitrario (ripeto del tutto arbitrario) modo di vedere – dubitavo di ulteriori, sostanziali apporti dei mezzi già allora a disposizione (forbici pneumatiche, piattaforme elevatrici, ganasce vibratrici, pettini oscillanti, cascolanti chimici, reti, ecc.) alla riduzione dei costi di produzione dell’olivicoltura tradizionale, spesso superiori al prezzo di vendita dell’olio extra vergine. Almeno al netto degli aiuti comunitari. Si badi che il mio riferimento non andava all’olivicoltura pugliese degli alberi monumentali, di difficilissima gestione e perciò produttori in prevalenza di olio rettificato da lampante, ma a quella del basso foggiano (e, di conseguenza, dell’alto barese), cioè al regno di Coratina, costituito da almeno cinquantamila ettari di oliveti allevati a vaso, producenti eccellenti oli extra vergini e da considerare il modello di olivicoltura più razionale e moderno di Puglia (e non solo), perché con razionale densità di piantagione, chiome poco sviluppate in altezza e larghezza, potatura annua, livello nutrizionale adeguato, buona produttività, ridotta alternanza, sesti regolari, anche irrigui, elevato livello di meccanizzazione per lavorazioni, difesa e raccolta, grazie alla diffusione in ambienti a prevalente giacitura pianeggiante. Insomma, un modello di olivicoltura che il Prof. P. Spiegel Roy (Volcani Center, Bet Dagan), nel corso di una sua visita tra Andria e Barletta nel lontano ottobre 1977 in occasione della terza riunione del GREMPA da me organizzata, mi confessò che avrebbe voluto fosse conosciuto dagli olivicoltori israeliani suoi compatrioti affinché imparassero come andava coltivato, ma soprattutto potato l’olivo.

Aggiunsi al Prof. Bellomo che non mi risultava che, tra il 1982 e il 1999, fossero intervenute proposte innovative tali da fare, se non agitare, almeno increspare una superficie ormai piatta e liscia come quella di uno stagnante “lago” d’olio d’oliva. Sebbene riluttante, accolsi la proposta di collaborazione: cominciammo così a esplorare con occhio mirato il territorio per vedere se facesse capolino qualche spunto meritevole di approfondimento. Durante quella fase, fummo informati di un’innovazione appena all’avvio in Spagna, tanto innovativa da potere essere considerata rivoluzionaria. A parte l’indirizzo cui eventualmente rivolgerci, il nostro informatore non seppe dirci di più. Decidemmo dunque di conoscere tanta innovazione, senza pregiudizio di noi docenti universitari, nonostante:

1) la sede di tale processo innovativo non si trovasse in Andalusia, la più importante regione olivicola spagnola e costante meta di pellegrinaggio degli studiosi italiani di olivicoltura, ma in Catalogna;

2) l’innovazione che ci accingevamo a conoscere non venisse da un’istituzione scientifica o da un’Accademia, bensì da un vivaio commerciale privato, prima di allora a noi del tutto sconosciuto, Agromillora Catalana S.A.

La visita avvenne a novembre 1999. Arrivati a Subirats fummo accolti da Jordì Mateu, allora giovane responsabile tecnico aziendale, che ci mostrò l’intera filiera innovativa della propagazione dell’olivo mediante autoradicazione su scala industriale in serre altamente automatizzate e ci informò che il primo impianto di superintensivo, quello che avremmo visitato più tardi nell’azienda “La Boella”, tra Reus e Tarragona, era stato realizzato nel 1993 su una superficie di 30 ettari (Foto riportata in apertura: panoramica del primo oliveto superintensivo nell’azienda “La Boella”, da noi visitato la prima volta nel 1999. In primo piano, in basso a sinistra, il Prof. F. Bellomo); ci disse anche che, tra il 1994 ed il 1999, gli ettari a superintensivo in Spagna erano arrivati a circa 700, di cui 200 in Catalogna e meno di 40 in Andalusia, e che nell’imminente erano previste piantagioni in Francia, USA, Cile e Argentina. Nell’elenco non figurava l’Italia.

Nel pomeriggio, aiutati anche da una bella giornata di sole, fummo accompagnati a vedere l’oliveto, meta delle visite di tecnici, agricoltori e studiosi, come noi curiosi di prendere visione di un sistema colturale dell’olivo concettualmente nuovo perché capace di consentire il drastico abbattimento dei costi di produzione del chilo d’olio aziendale attraverso l’integrale meccanizzazione di tutte le operazioni colturali, dalla piantagione alla raccolta, potatura inclusa, come da me riportato nei miei numerosi scritti al riguardo. Modello colturale tanto nuovo che ci trattenemmo fino a oltre l’imbrunire per osservare l’operatività del cantiere di raccolta “in notturna” (Foto 2). Allora, le varietà erano due, entrambe spagnole: Arbequina e Arbosana.

Bellomo ed io decidemmo che il modello da noi osservato non dovesse restare lettera morta, ma fosse meritevole d’essere preso in considerazione almeno per una verifica in Puglia. Nostro intendimento era soprattutto la valutazione della risposta delle principali varietà italiane a quella forma di allevamento. D’accordo con l’Ispettorato di Foggia, nel 2001 realizzammo un campo nell’ITAS “G. Pavoncelli” di Cerignola, secondo un collaudato schema sperimentale. Furono introdotte tutte le varietà d’olivo del patrimonio nazionale propagate per talea che ci fu possibile reperire presso vivai italiani, come segue: Cima di Melfi, Cipressino, Coratina, Frantoio, Fs-17, Leccino, Ogliarola del Gargano, Peranzana, Picholine. Esse furono affiancate da quelli che, nel gergo sperimentale, si chiamano testimoni: Arbequina e Arbosana.

Nel 2002, allestimmo una nota dal titolo “Olivicoltura superintensiva in Puglia per la raccolta meccanica con vendemmiatrice”, che presentammo a Spoleto (PG) al Convegno Internazionale di Olivicoltura del 22-23 aprile. Fu l’unica relazione sull’argomento, che destò interesse, ma suscitò anche perplessità, forse perché dal contenuto troppo innovativo. Nel corso del convegno fummo confortati dalla relazione a invito di A. Troncoso, dell’IRNA di Siviglia, ben noto agli studiosi italiani di olivicoltura, che scrisse che «Arbequina è la cultivar per eccellenza della Catalogna e quella dalla quale si ottiene probabilmente l’olio spagnolo migliore» (pag. 21 degli atti del Convegno).

Nel frattempo, la sezione barese dell’Associazione Pugliese Produttori Olio si era dichiarata interessata alla sperimentazione che avevamo avviato a Cerignola e, col concorso operativo suo e finanziario della Banca di Credito Cooperativo di Cassano delle Murge (Bari), nel territorio di quel comune, realizzammo nel 2002 un secondo campo sperimentale, nel quale introducemmo le solite Arbequina e Arbosana come testimoni insieme con Cipressino, Coratina, Fs-17,Frantoio, Leccino, Urano. Nel novembre 2005, a tre anni dalla messa a dimora, buona parte delle varietà introdotte a Cassano delle Murge era entrata in produzione e la cosa ci convinse ad organizzare una giornata dimostrativa di raccolta delle olive con intervento di una New Holland semovente.

L’Accademia Italiana dell’Olivo e dell’Olio di Spoleto organizzò il 9 giugno 2006 una Giornata seminariale su “Impianti Olivicoli Intensivi” alla quale partecipammo con una relazione dal titolo: “Olivicoltura superintensiva: gli aspetti agronomici”. Ricordo che fu una giornata vivace, alla quale prese parte come relatore, con altra relazione sullo stesso soggetto, J. Mateu. Il tema trattato colse di sorpresa ancora una volta molti dei convenuti: per soddisfazione di chi scrive, nessuna critica fu mossa alla diagnosi fatta dei mali che affliggevano (e affliggono tuttora) l’intera olivicoltura nazionale, quanto piuttosto all’olivicoltura superintensiva suggerita come terapia. La più ragionevole delle critiche riguardava la non dimostrata adattabilità delle varietà italiane al nuovo modello.

Avviene che, quando si è ospiti in casa d’altri, anche col conforto di accordi scritti, non è sempre possibile avere piena soddisfazione se si chiedono interventi puntuali e tempestivi, qualora se ne ravveda necessità oppure urgenza: per tali motivi, sebbene i risultati che cominciavamo a ottenere a Cerignola e Cassano fossero promettenti, decidemmo di chiedere un contributo alla Provincia di Bari col quale realizzammo, nel 2006, un terzo campo sperimentale nell’azienda della Facoltà di Agraria di Bari in agro di Valenzano. Volevamo essere in casa nostra, dove meriti o demeriti dell’esito della sperimentazione non potessero essere attribuiti ad altri che a noi, in quanto responsabili al 100% di quanto di buono e di meno buono avremmo fatto e di quanto altri avrebbero visto e giudicato. Nel giugno-luglio 2006 furono messe a dimora piante autoradicate delle seguenti varietà, in ordine alfabetico: Arbequina, Arbosana, Carolea, Cima di Bitonto, Coratina, Don Carlo®, Frantoio, Fs 17®, I-77® , Koroneiki, Leccino, Maurino, Peranzana, Urano®.

Nel Novembre 2007, in accoglimento di numerose sollecitazioni da parte del mondo tecnico, organizzammo una “tre giorni” dimostrativa di raccolta delle olive: Gregoire fu impegnata nei campi sperimentali da noi realizzati a Cerignola nel 2001 e a Cassano delle Murge nel 2002 nonché a Pozzo Guaceto di Fasano (BR) nell’azienda di V. Cantore, che cinque anni prima aveva realizzato in proprio circa 30 ettari di superintensivo, anche come rinfittimento di un oliveto monumentale (Foto 4), a ciò convinto da quanto osservato dopo una visita guidata in Spagna organizzata per tecnici ed agricoltori dal Prof. Bellomo.

Nel 2008, terzo anno dall’impianto, l’oliveto sperimentale realizzato nella nostra azienda di Valenzano era entrato in produzione e organizzammo una prima giornata dimostrativa di raccolta, cui ne sarebbero seguite ininterrottamente altre fino al 2013, con l’utilizzo di una Pellenc. Dopo una sospensione dovuta alla generalizzata annata di scarica nel 2014, le prove di raccolta sono riprese nel 2015, questa volta con l’ausilio di una Gregoire.

I risultati delle pluriennali osservazioni mi hanno portato a concludere che le varietà italiane testate, vecchie e nuove, brevettate e non, sono inadatte al modello di olivicoltura superintensivo, perché prive dei necessari requisiti come, di volta in volta: vigore moderato, portamento compatto, ramificazione regolare, distanza internodale ridotta, rapida entrata in produzione, auto fertilità, allegagioni elevate e costanti, resistenza dei frutti alla raccolta meccanica. Alla fine, in gioco sono rimaste solo quelle già collaudate in Spagna: Arbequina, Arbosana, e la greca Koroneiki, nel frattempo aggiuntasi alle prime due.

Una piattaforma varietale ristretta a Arbequina, Arbosana e Koroneiki viene interpretata da molti come l’ostacolo principale alla diffusione del modello in Italia, perché si vorrebbero vedere valorizzate tutte o parte delle migliori varietà costituenti la numerosa piattaforma varietale olivicola nazionale. Se penso a quello che avviene in Italia negli assetti varietali degli altri fruttiferi, dico che ci sarebbe molto da discutere sull’argomento, ma non ritengo sia questa la sede. Con la massima franchezza affermo che, siccome ci sono validi motivi per ritenere che l’utilizzazione delle migliori varietà italiane di olivo da olio non sarà possibile, non resta altro da fare se non, in alternativa:

a) rinunciare a prendere in considerazione il modello superintensivo, con buona pace di tutti;

b) scavalcare l’ostacolo adottando due diverse strategie.

La prima strategia, attuabile fin da adesso, parte dall’assunto che le tre varietà risultate finora adatte al superintensivo (in particolare Arbequina) sono accusate da molti (ma non da tutti) di produrre oli extra vergini di qualità modesta perché con basso contenuto in polifenoli (come Cima di Bitonto DOP); se le cose stanno così, i “limiti” di quegli oli extra vergini, ottenuti a costi bassissimi, potrebbero essere superati con tagli con oli “forti”, molto ricchi di polifenoli e di sentori (non sempre e dovunque graditi) di molte varietà del ricco e pregiato patrimonio di consolidata tradizione italiana, come Coratina, ma ottenuti a costi difficilmente competitivi. Del resto è ampiamente noto che in Italia tutte le DOP e le IGP meno una prevedono miscele di oli di più varietà. I tagli sono dunque pratica comune, nota e diffusa da sempre nel settore dell’industria olearia nazionale per standardizzare e tipizzare nel tempo la produzione. Il nostro Paese è il primo e più eccellente mercato mondiale per import, confezionamento ed export di olio d’oliva ed è notoriamente il crocevia di tutti quelli extra vergini di origine nazionale, comunitaria e mediterranea, con epicentro in Toscana. Ciò spiega le quotazioni settimanali, ad esempio alla Borsa Merci di Siena, di extra vergini del Lazio, della Puglia, della Sicilia, ma anche della Grecia, della Tunisia e della Spagna, quest’ultima addirittura con due menzioni, una delle quali specificatamente chiamata “Arbequino”. Ancora, in tema di tagli, C. Peri, nell’INFO Georgofili del 9.03.2016 ha scritto: «Il blending di oli extra-vergini di oliva di diversa origine è una vera arte e può dare luogo a prodotti di straordinaria qualità se attuato da produttori competenti e onesti».

La seconda strategia prevede tempi medi e consiste nel mettere a frutto i risultati di programmi di miglioramento genetico mirati a fondere in nuove varietà le caratteristiche fisiologiche, biologiche e funzionali di almeno due delle tre varietà base (Arbequina, Arbosana) con le caratteristiche tecnologiche degli oli delle migliori varietà italiane. Oggi sono già disponibili nuove varietà brevettate, che tuttavia, ancora una volta hanno sangue non indigeno; risulta però che a Bari sono in osservazione avanzata interessanti genotipi da incroci Leccino x Arbosana, come pure di Frantoio (alias Cima di Bitonto) e Coratina x Arbequina e/o Arbosana. In altri termini, il settore del miglioramento genetico si muove e nuove proposte sono attese nei prossimi anni. Sono certo che, in un prossimo futuro, il panorama delle varietà adatte al superintensivo si allargherà includendone alcune con almeno il 50% del migliore e più pregiato “sangue” nazionale: discendente da lombi umbro-toscani, come pure siculo-pugliesi. Certo, d’ora innanzi bisognerà che gli olivicoltori italiani si abituino al concetto di varietà d’olivo brevettata, così come già da tempo fanno i cerasicoltori, i peschicoltori, i melicoltori, i viticoltori d’uva da tavola, gli orticoltori, ecc. Però, affinché il futuro del modello superintensivo possa avere speranze di diffusione in Italia è necessario che il prezzo di vendita delle nuove varietà brevettate sia contenuto entro limiti ragionevoli, altrimenti, per una densità di piantagione tra 1.500 e 1.700 alberi/ha, viene da dubitare che il solo acquisto del materiale vegetale possa essere ammortizzato in tempi ragionevoli.

Nessuno dovrebbe essere così leggero da suggerire la realizzazione di oliveti superintensivi in aziende che non abbiano superficie minima corrispondente almeno a quella di una giornata di lavoro della macchine per la raccolta (da noleggiare, non da acquistare) e pari a 4-5 ettari; nessuno sarà così irresponsabile da suggerire la realizzazione di oliveti superintensivi in terreni superficiali, poveri e privi di risorse irrigue.

Ribadisco per l’ennesima volta che ciò che mi ha sempre interessato è stato il modello colturale (il fine) e non le varietà (il mezzo) con le quali realizzarlo. Altrimenti non avrei sprecato tempo e fatica per verificare la risposta nel nostro ambiente di parte del germoplasma italico. Mi sarebbe bastato valutare sic et simpliciter il modello spagnolo. Perciò torno a sottolineare che il modello d’allevamento superintensivo in quanto tale, grazie alle tecniche colturali adottate e illustrate nei miei scritti, ha consentito: a) l’entrata in produzione certa al terzo anno; b) il raggiungimento dello stadio di produzione costante (intorno a 10 t/ha) al quarto anno, cioè soltanto un anno dopo quello dell’entrata in produzione; c) la buona costanza produttiva, con scarti tra gli anni intorno al 20%; d) il forte contenimento dei tempi e dei costi almeno delle due voci più importanti (potatura e raccolta), che permettono di confermare la possibilità di abbassare il costo di produzione del chilogrammo di olio d’oliva extra vergine a livelli di economicità, al netto dei sussidi comunitari; d) la mancanza di qualsiasi indizio negli aspetti vegetativi che faccia prevedere in un futuro più o meno prossimo un cedimento oppure un collasso del sistema; e) l’assoluta inconsistenza dell’opinione di alcuni secondo i quali l’allevamento superintensivo, data la fittezza dell’impianto, avrebbe rappresentato un ottimo “pascolo” per i principali parassiti animali e vegetali dell’olivo.

Comprendo anche la diffidenza, quando non l’avversione, da parte di tecnici e imprenditori, delusi per gli insuccessi forniti dalle diverse forme d’allevamento proposte negli ultimi sessant’anni: dalla palmetta all’ipsilon, dal cespuglio al vaso cespugliato, dal policaule al monocono. La differenza tra quelle e il superintensivo sta nel fatto che le prime hanno dimostrato di non risolvere il problema dei costi colturali, dovuti all’impossibilità di abbattere il ricorso alla manodopera, per potatura e anche per raccolta, in qualche caso anzi aggravandoli.

Agromillora ci informò che, nel 1999, la superficie a superintensivo nel mondo era 700 ettari; la stessa fonte mi ha informato che la superficie mondiale a superintensivo nel 2013 aveva raggiunto 135.000 ettari, con la Spagna al primo posto con 80.000 ettari, seguita dal Portogallo con 20.000, Usa con 10.000, Cile con 9.000, Marocco con 6.000, Tunisia con 4.000, Arabia Saudita con 3.000, Italia con 1.000, Francia con 500 e Libia con 500.
Mi è bastato sfogliare internet alle voci Arbequina e Arbosana per rendermi conto dell’alto numero di vivai nel mondo (Usa, Cile, Marocco, Spagna, Italia, ecc.) che producono, oltre ad Agromillora, varietà d’olivo autoradicate per il superintensivo: tanto mi fa pensare che la superficie dedicata a questo innovativo modello colturale nel mondo sia superiore a quella indicata da Agromillora e che oggi viaggi oltre 150.000 ettari. Non c’è dubbio: un bel successo, raggiunto in soli 20 anni.

Nel corso degli ultimi quindici anni abbiamo dunque:

a) valutato il comportamento in Puglia del nuovo modello colturale chiamato olivicoltura superintensiva;

b) studiato la risposta al modello di tutto il germoplasma nazionale propagato per talea che ci è stato possibile reperire presso i vivai italiani;

c) realizzato manifestazioni annue di raccolta meccanica nel corso delle quali gli intervenuti hanno potuto costatare, anno dopo anno, il livello delle produzioni delle varietà in campo, la loro adattabilità alla forma d’allevamento e alla raccolta meccanica, l’efficienza delle macchine (Gregoire, New Holland e Pellenc) e la qualità del prodotto oliva raccolto.

Non importa sapere se Bellomo ed io siamo stati i primi ricercatori italiani a “scoprire” la novità spagnola costituita dall’allevamento superintensivo dell’olivo: se non noi, qualcuno altro sarebbe venuto dopo di noi. Siamo però certi d’essere stati i primi studiosi italiani a credere in quel modello, coglierne gli aspetti intriganti, introdurlo in Italia e avere il coraggio di metterci la faccia (come s’usa dire oggi) per studiarne possibilità e limiti di diffusione impostando campi sperimentali dove confrontare il comportamento del germoplasma olivicolo nazionale con le varietà base dell’innovazione spagnola. Ritengo dunque giunto il momento di stendere un bilancio. Se, nel mondo, gli ettari a superintensivo nel 2013 erano poco meno di 150.000, in Italia erano circa 1.000, saliti a circa 2.500 nella prima metà del 2016, il 70% dei quali in Puglia. La domanda che mi pongo è: “Come considerare 2.500 ettari raggiunti dal superintensivo in Italia, seconda nazione olivicola mondiale, ma, soprattutto, il raddoppio delle superfici soltanto negli ultimi due anni?” La risposta è che quei 2.500 ettari possono essere considerati un traguardo soddisfacente. Di positivo c’è che il trend del superintensivo in Italia nell’ultimo biennio fa pensare che il muro della diffidenza e del pregiudizio e, mi sia consentito, del nondum matura est, che ha retto fino a un paio d’anni fa stia per sgretolarsi sotto la spinta della volontà di affrontare rischi e benefici del “nuovo” per affiancarlo al “vecchio”, visti gl’incorreggibili limiti di questo.

L. Caricato, l’11/4/2014 ne: “Il manifesto dell’Olio. Per un nuovo inizio (Olio Officina)”, afferma che: «L’Italia è l’unico Paese ad alta vocazione olearia a non piantare olivi. Non investe più in olivicoltura, si limita a mantenere e perpetuare l’esistente». Non posso non condividere il parere di L. Caricato, cui però sento di potere rispondere che io una spiegazione me la sono data. Ed è la seguente: gli olivicoltori italiani hanno smesso d’investire per realizzare nuovi oliveti tradizionali intensivi (tra 300 e 400 piante/ha), che chiedono spese d’impianto comunque non indifferenti, che cominceranno a dare frutti solo dopo 4-5 anni dall’impianto, per i quali si dovrà attendere oltre 10 anni che entrino nello stadio di produzione costante, la cui gestione per potatura e raccolta, inutile illudersi, continuerà a richiedere molto lavoro umano, dalla reperibilità calante e dal costo montante, con costi finali di produzione anche superiori al prezzo di vendita. L’aumento delle quotazioni dell’extra vergine nell’annata di “scarica” 2014 era stato visto con entusiasmo, ma non ha fatto testo, perché legato a fattori congiunturali e non strutturali. Difatti, nel 2015 le quotazioni sono ridiscese ai valori degli anni precedenti il 2014, cioè sotto 4,00 €/kg per tutti gli extra vergini italiani e lì sono rimaste, con l’eccezione del solo, solito I.G.P. Toscano. Ancora a proposito di bilanci aziendali, come la mettiamo col fatto che dal 2004 al 2014 gli aiuti comunitari al settore olivicolo italiano sono drammaticamente crollati? Personalmente dubito che un così fragoroso tonfo dei sussidi possa invogliare a tenere elevato per molto tempo ancora il livello dei costosi interventi colturali per la conduzione razionale degli oliveti tradizionali.

Non si ritiene dunque conveniente piantare olivi secondo tradizione, seppure ammodernata da schemi d’impianto e metodi di coltivazione più razionali? Non ci si fida del superintensivo? Nessuna paura, non resta altro da fare che accontentarsi delle attuali produzioni nazionali, provenienti da un milione e passa di ettari (non sono pochi), che fanno dell’Italia il secondo Paese al mondo per produzione di olive e olio d’oliva.

A ben pensare, visti non più in assoluto, ma in relazione alla stagnazione del settore in tema di nuove piantagioni, quei 2.500 ettari di superintensivo in Italia non sono da guardare con sufficienza, ma come promettente stimolo in grado di fare increspare quella da me prima definita uno stagnante “lago” d’olio d’oliva. È vero che gli olivicoltori italiani non piantano più olivi secondo tradizione, perché frenati da costi di produzione elevati e irritati da prezzi di vendita tali da non consentire di coprire le spese di gestione dell’oliveto. Nei fatti, la stragrande maggioranza dei nostri tradizionalisti imprenditori olivicoli rifuggono da innovazioni che ritengono ancora temerarie e si accontentano di mantenere in vita l’esistente, vecchio di decenni oppure di secoli e perciò con spese d’investimento ampiamente ammortizzate. Tra gli imprenditori agricoli italiani, l’olivicoltore, anche per “l’immortalità” della specie cui è legato, è quello che più di tutti è propenso alla conservazione del patrimonio trasmessogli dalle generazioni che l’hanno preceduto ed è pertanto poco o punto incline ad accettare innovazioni, specie se tali da stravolgere schemi consolidati da lunga convivenza e confidenza con gli alberi della specie. E, per questo modo di vedere le cose, hanno tutto il mio rispetto. Proprio perciò, sembrerebbe potersi concludere che quelli che si stanno azzardando nell’impresa di piantare nuovi oliveti, stiano prendendo a farlo puntando – verrebbe da dire esclusivamente – sul modello di olivicoltura superintensiva. E tanto mi basta per sperare di non avere sprecato invano il mio tempo.

Le foto presenti a corredo del testo sono state fornite dall’Autore

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