Codice Oleario

Gli olivi ad alta densità per un domani diverso

Un viaggio studio in Catalogna organizzato dal gruppo "Olivo e Olio" della Soi, ha offerto l'occasione per ragionare intorno all'ipotesi di una olivicoltura da reddito anche in Italia. Olio Officina ha partecipato con un gruppo di studiosi a un sano momento di confronto dialettico con ipotesi di soluzioni per uscire dal guado

Luigi Caricato

Gli olivi ad alta densità per un domani diverso

L’Irta è una compagnia pubblica che lavora per la modernizzazione dell’agricoltura in Spagna. E’ un solido punto di riferimento, gli spagnoli d’altra parte ci credono, basta osservare un dato tra tutti: 44,22 milioni di euro nel 2012, tanto per intenderci. Il 65% dei fondi deriva da finanziamenti provenienti dall’agroindustria, una realtà operativa che è molto forte in Spagna, anche perché si esporta molto e c’è gran movimento di merci, talenti e saperi.

Sono dieci i centri Irta, oltre ad altri sei associati. Lavorano su più fronti, anche sulle varietà tradizionali, impegnandosi nel recupero commerciale di tali risorse, tra varietà di olivi tradizionali ed esemplari di olivi monumentali, millenari. Non si scherza. C’e’ una Spagna che molti italiani non conoscono o preferiscono ignorare perche’ non reggono il confronto.

Non è solo Picual. C’è spazio anche per varietà che rispondono al nome di Palomar, Marfil, Corbella, Vera, Fulla Salze, Rojal, Menya. Occorre andare oltre l’apparenza. Giudicare la Spagna frettolosamente non e’ corretto. Quando lo sguardo si volge agli olivi, c’è stupore e curiosità, com’era prevedibile. Con i miei compagni di viaggio, nella totalità docenti universitari o ricercatori, percorriamo gli oliveti dell’Irta, quindi facciamo un salto anche in alcune aziende private, a La boella, per esempio, dove sono stati piantumati a suo tempo i primi impianti intensivi. Un solo grande obiettivo: l’abbattimento dei costi di produzione. Il risultato è stato raggiunto in parte, o meglio, è stato raggiunto, ma, a conti fatti, si guadagna poco. Il costo dell’olio al chilo è tra i 2,30 e i 2,40 euro – con il sistema intensivo, s’intende. Ma il mercato riesce a dare pochi margini di guadagno. Il consumatore non compra, non si possono alzare i prezzi. Ci si scontra con una realtà non facile. In ogni caso i conti tornano, seppure con difficoltà. Con l’olivicoltura tradizionale c’è la sovvenzione a sostegno, altrimenti non si va da nessuna parte.

Le considerazioni che i miei compagni di viaggio si appuntano sono tante, non finiscono di porre domande. C’è grande curiosità. A stupire tutti è la visita al più grande vivaio di olivi al mondo, Agrimillora. Sembra quasi di entrare in un tempio sacro. In particolare ha fatto effetto la cultivar Oliana, ovvero arbequina per arbosana, una nuova varietà, ma più di ogni altra novità ha colpito l’enorme numero di piante già pronte, ben 4 milioni. Anche l’Arabia Saudita è coinvolta in questa smania di coltivare olivi.

Le visite dei vari contesti operativi hanno offerto molti utili spunti, ed è inevitabile che siano emerse una serie di utili riflessioni riguardanti l’Italia. Il confronto con la Spagna non regge. Il nostro Paese è caratterizzato da una complessità tale da non rendere facile la possibilità di ripercorrere la strada intrapresa dalla Spagna. Il confronto non è possibile rispetto ad altri paesi che hanno scelto l’alta densità degli olivi. Non è un confronto facile in dipendenza della notevole eterogeneità territoriale con cui si caratterizza l’Italia, tanto che si parla sempre più di olivicoltura al plurale, sia per una questione legata all’ambiente specifico, sia per via dei sistemi colturali con cui si contraddistingue.

Sono i soliti vecchi problemi di sempre, che ci trasciniamo da decenni, mentre gli altri Paesi agiscono. Quando l’Irta ci comunica che l’Italia è fanalino di coda, resto di sasso. Siamo superati perfino dai nuovi Paesi produttori, ma essere proprio in coda, credetemi, e’ deprimente.

Se proprio volessimo realizzare nuovi impianti olivetati – e su questo si è tutti d’accordo – è bene puntare sul nostro patrimonio varietale. E’ quanto pensano i professori e i ricercatori miei compagni di viaggio. Secondo loro, è necessario sviluppare sperimentazioni nei differenti areali, utilizzando le nostre cultivar, onde verificare fino a che livello di intensità di impianto si possa arrivare, con produzioni da ottenere in tempi sempre più brevi, e con livelli alti di quantita’ che non trascurino tuttavia anche la stessa qualità delle cultivar da individuare.

La parte vivaistica diventa fondamentale, sostengono all’unisono i miei compagni di viaggio. Non possiamo basare – aggiungono – un lancio della nostra olivicoltura se questa non avviene a partire da un materiale genetico certificato che risponda agli standard mondiali.

Per ora resta solo un auspicio. Ci sono le Fondazioni e i privati da coinvolgere. Il consorzio dei vivaisti, per esempio, può essere importante, ma occorre anche un ente pubblico che finanzi una ricerca e che dia un messaggio forte. Occorre puntare a questo, anche se è comunque fondamentale una compartecipazione da parte dei privati Il pubblico si, non si può fare a meno, ma non per un esercizio di ricerca fine a se stesso, ma al solo scopo di arrivare a una impresa economica.

Non basta dire alta densità per risolvere i problemi di casa nostra, la conoscenza attuale non è ancora sufficiente per impostare le diverse olivicolture. Secondo il professor Eddo Rugini, per esempio, dobbiamo ancora conoscere la risposta della pianta ai diversi ambienti, un aspetto, questo, che non è ancora chiaro. E’ questo il nostro compito, dice; il resto è solo una decisione politica. Secondo il professor Di Vaio, c’è spazio per l’ottimismo, non siamo per fortuna all’anno zero, anche perché le diverse esperienze sono state fatte e resta da fare ora una attività di ricognizione. Noi dovremmo fermarci a discutere, ma solo il necessario, perché dobbiamo andare avanti. Tutte le informazioni vanno valorizzate con questa nuova finalità.

Il professor Franco Famiani precisa che ci sono stati progetti sviluppati di cui essere orgogliosi. In Sicilia, per esempio, sono stati fatti già dei passi in avanti. Ora è tempo di una sperimentazione finalizzata. Vanno approfondite le conoscenze acquisite, incalza Eddo Rugini. E Famiani va al centro della questione: le sperimentazioni sono da fare in aziende lungimiranti che si prestano con convinzione. I buoni motivi ci sono, un simile impegno rappresenta per un’azienda un momento di crescita e innovazione importante.

Muleo da parte sua ammette che sul progetto alta densità di impianto la battaglia sarà grande. In Italia ci sono stati progetti che hanno prodotto in questi anni risultati, ma tali risultati non hanno una memoria storica complessiva e articolata. L’Irta, in Spagna, fa da supporto e da promemoria storico tecnica, da noi non c’è stata questa attenzione.

La realtà italiana messa a nudo non porta nel complesso a risultati soddisfacenti. Di fondi pubblici ce ne sono stati, in tutti questi anni. Resta però da chiedersi cosa abbiano prodotto i fondi investiti finora in Italia. Noi ci facciamo carico di questa arretratezza del Paese e dobbiamo reagire. Quello del futuro è un problema che dobbiamo affrontare con senso di responsabilità, evitando come in passato interventi finanziari a pioggia, ma siamo tenuti a conseguire d’ora in avanti risultati concreti.

La strada da compiere deve essere fatta a partire dalle imprese e, altro elemento non trascurabile, dobbiamo vedere cosa innovare, altra questione ancora aperta, perché non risolta nè chiarita. Senza trascurare il fatto che le scelte debbono farle gli imprenditori, non la ricerca, semmai la ricerca può solo indirizzare, informando. L’imprenditore tuttavia sceglie se correttamente informato, proprio per questo le informazioni debbono essere date, non solo accennate o promesse.

Eddo Rugini riconosce i limiti che riguardano il nostro Paese. Finora di progetti finalizzati non ce ne sono stati. Per questo la paura è di limitarsi a importare modelli esteri, ma noi dobbiamo andare invece a valorizzare la nostra storia, la nostra identità.

La realtà italiana la conosciamo tutti. Il professor Tiziano Caruso va dritto nel problema: noi ci rimettiamo con l’olivicoltura, non siamo in grado di fare reddito, ed è per questo in fondo che abbiamo voluto osservare gli spagnoli all’opera, cercando di guardare alla loro esperienza maturata sul campo per poter effettuare, sulla base del loro impegno in questi anni, degli interventi che rimettano in pista sul piano economico le nostre olivicolture, facendo in modo che l’olivicoltura non sia più giardinaggio ma ci procuri reddito, o che comunque non ci faccia perdere troppo danaro.

Alla luce delle riflessioni scaturite nel corso del viaggio studio in Catalogna, su un punto si è d’accordo. Pensare che il modello spagnolo si possa importare in Italia è sbagliato. Resta allora da chiedersi se ci siano oggi modelli in grado di non farci rimettere troppo ma che siano nel contempo modelli che ci procurino comunque un reddito certo, anche perché non possiamo più pretendere che l’agricoltura tuteli il territorio a proprie spese. Chi opera in olivicoltura deve poterci guadagnare, altrimenti è destinato ad abbandonare il campo se non si presentano altre soluzioni.

Al momento, ciò che è certo, è che preoccupa non poco il fatto che l’Italia non abbia investito in ricerca, anche quando apparentemente lo ha fatto con progetti concepiti senza una precisa finalizzazione.

In altri Paesi tutto viene monetizzato e la ricerca ha un senso logico che risponde a obiettivi definiti che ci si pone già in partenza e non strada facendo, mentre da noi, purtroppo, tutto rimane nel chiuso di una ricerca fine a se stessa, quasi un “detto fra noi” interlocutorio. Con il risultato che l’Italia è perfettamente in grado di produrre conoscenza e innovazione, ma non produce di fatto l’innovazione, proprio perché manca il substrato culturale ed etnico pronta a recepirla.

Da noi, dunque, esistono bravi ricercatori che partecipano a progetti internazionali, salvo poi non finalizzare tale bravura per raggiungere gli obiettivi. Permane un atteggiamento generale di sfiducia, mentre in Spagna – e lo abbiamo toccato con mano – l’Irta rappresenta un punto di aggregazione forte e propositivo. Alla luce di tali anomalie, solo un progetto finalizzato può ricreare in Italia un sistema di dialogo, mai collaudato, tra pubblico e privato. Altre soluzioni non si intravedono.

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia