Codice Oleario

Il blend non è peccato

L’olio non cresce sugli alberi, è il suggestivo titolo del libro che Giovanni Zucchi ha pubblicato in questi giorni, rompendo un lungo e imbarazzato silenzio su una operazione spesso male interpretata, in realtà fondamentale per il successo commerciale degli oli da olive. Il sottotitolo è alquanto evocativo e provocatorio: L’arte del blending: come nasce un olio di grande qualità

Luigi Caricato

Il blend non è peccato

Tutti sappiamo bene quanto sia stata denigrata per anni la pratica del blend negli oli da olive. Lo è a tal punto da essere brutalmente definita “miscela”, ma nel senso più spregiativo del termine. Così, se sulla miscela dei caffè nessuno ha da ridire, su quella che vede invece il mescolarsi di più tipologie di oli si lanciano vere e proprie fatwa, quasi fosse una pratica da maledire.

Lo si dice con una nota di disprezzo: “quelli delle miscele”, indicando con ciò quasi un’azione truffaldina, quando è vero esattamente il contrario: senza blending non c’è olio di qualità. Perché un olio tal quale, può anche essere buono, ma non ha il tocco della personalizzazione, non c’è altro che liquido grasso, più o meno buono a seconda dei casi, ma solo olio tal quale e nulla più; e, invece, l’unica occasione per intervenire è proprio nell’atto stesso di realizzare il blend. Tutto ciò lo spiega molto bene Giovanni Zucchi. Coraggiosamente, direi anche. Perché coraggiosamente? Perché il mondo dell’olio finora non ha saputo raccontarsi e mettersi a nudo. Ha solo prodotto cantilene più o meno intonate, ma cantilene, non pensieri strutturati. Ora, con questo libro, si scioglie un silenzio lunghissimo di anni e decenni.

Non abbiate pregiudizi sull’autore. Ricopre due ruoli: è amminstratore delegato dell’Oleificio Zucchi SpA, società alquanto nota nel settore degli oli da seme, ma altrettanto attiva ormai da tempo anche sul fronte degli oli da olive. Ne avevamo riportato alcune utili informazioni al riguardo QUI.
L’altro ruolo di Giovanni Zucchi è di presidente Assitol, ovvero dell’Associazione Italiana dell’Industria Olearia. Due ruoli decisivi, ma anche facili a essere male interpretati in un’Italia vocata a dividersi irragionevolmente in schieramenti. Io lo consiglio caldamente questo libro edito da Fausto Lupetti: L’olio non cresce sugli alberi. L’arte del blending: come nasce un olio di grande qualità. Ne potete uscire solo arricchiti.

L’autore è anche generoso, visto che accoglie, all’interno del volume, oltre a dodici ricette inedite dello chef stellato Claudio Sadler, anche le testimonianze di alcuni tra i protagonisti della scena, tra i quali vi sono anch’io, insieme con Giorgio Cardone, Lanfranco Conte, Enzo Gambin e Roberto La Pira. Non elenco i ruoli delle persone citate perché sono ampiamente note e apprezzate per il proprio lavoro.

Perché queste testimonianze esterne sono così importanti? Lo sono in quanto aprono a un pensiero plurale, dando luogo a opinioni intorno a un tema tanto deprecato quanto poco conosciuto. E così finalmente si fa chiarezza, si toglie quel velo di ipocrisia che da sempre ha caratterizzato i blend.

Non anticipo nulla per rispetto dell’autore, perché un libro quando lo si recensisce non va svelato, ma deve solo dare indicazioni, facendone percepire il valore e soprattutto le novità. Sì, perché un libro che non apporta novità è inutile, tranne che non abbia valenza didattica; ma in questo caso spedifico, titolo e sommarietto non lasciano dubbi: è un libro programmatico; e io sono ben contento del coraggio dimostrato da Zucchi nell’esporsi su un tema chiave sul quale si sono dette e scritte imprecisioni. Anche se per essere proprio rispondenti alla verità, il tema in questione non è mai stato affrontato inora: non esiste una letteratura, nemmeno negativa, al riguardo. Solo chiacchiericcio e nulla più. Disprezzo per una pratica che invece evidenzia un sapere che non è affatto facile da acquisire e che dimostra come gli italiani (almeno, finora) sappiano essere i più bravi sulla piazza. Finora, appunto.

Non mi soffermo qui sui contenuti del libro perché saranno affrontati in diverse altre occasioni, tra cui anche alla quarta edizione di Olio Officina Food Festival in gennaio.

Al di là di quanto ho messo in luce, va comunque evidenziato un pregio: il libro è scritto bene, il che non è certo un elemento secondario; appare inoltre ben strutturato, anche se si sofferma su aspetti già noti, ma, va precisato a scanso di equivoci, che l’olio da olive a oggi lo conoscono in pochi, e non si può partire certo in quarta, giacché è necessario dare i rudinmenti essenziali a chi non li possiede. Si legge con piacere, ricorrendo a un linguaggio che scorre senza intoppi, anche laddove le attenzioni si concentrano più su aspetti tecnici.

Bene, al di là di queste evidenze, va subito inquadrata la novità più evdente e che merita la massima attenzione: l’introduzione di un neologismo – e si può perdonare Zucchi se ricorre all’inglese, lui dice per via di una neautralià semantica: il blendmaster, ovvero colui che realizza i blend. A me piace, questa nuova espressione, e da parte mia la approvo.

Riprendo dal libro, testualmente: “Il blendmaster attua quello che a tutti gli effetti è un processo creativo perché da’ vita a qualcosa che prima non c’era, ed è anche una sorta di artista, poiché tale lavoro richiede capacità di immaginazione oltre che di esecuzione”.
Siete convinti? Mi auguro proprio di sì.

Io ho più volte visto nell’olio presente in bottiglia qualcosa di simile a un’opera letteraria, visto che la stessa scienza e il medesimo intuito creativo vanno esercitati nell’atto del realizzare i blend – e tutti i professionisti dell’olio, siano essi piccoli, medi o grandi, realizzano blend, altrimenti sarebbero puri esecutori di una materia prima banalmente schiacciata per ricavare olio e nulla più, senza progettualità, dove può capitare in un contenitore di tutto, e poco importa se l’olio mescolato ad altro olio possa dar luogo a clamorosi pasticci.
La professionalità, dunque, implica di misurarsi con l’arte del blending. Anche chi produce oli monovarietali mette in atto un blend, prima di confezionare un olio da destinare al mercato. Zucchi, molto opportunamente, parla di una “fusione della componente naturale” con “quella culturale”. E ha pienamente ragione.

“E’ stata fatta di necessità virtù”, scrive Zucchi. E prosegue: “Anche le caratteristiche organolettiche strutturali della nostra produzione hanno spinto verso la miscelazione degli oli vergini ed extra vergini”. Resta tuttavia una fama sinistra del blend che va invece ripensata e spogliata da pregiudizi o, per lo più, da ignoranza. Basta leggere il volume di Zucchi per farsi un’idea della complessità di una materia prima che richiede di essere dapprima interpretata, perché è proprio per questo motivo, in ragione della difficoltà di leggere e interpretare tale materia prima, così complessa e variegata, dalle mille sfaccettature, che sono nati tanti falsi miti, tra cui quello di denigrare il blend. Il blend, al contrario, non è peccato, è una delle più grandi virtù che ci appartiene ancora.

E chiudo, a scanso di equivoci, con una precisazione – visto che esistono molte persone poco inclini alla buona fede: il blend non è un processo di standardizzazione dell’olio al fiue di renderlo inespressivo, piatto, insignificante. Come tutti gli standard, può mirare verso l’alto, come verso il basso.

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