Codice Oleario

Perché in Italia sono in tanti a odiare la coltivazione super intensiva degli olivi?

Lo abbiamo chiesto a Salvatore Camposeo, tra i più stimati e autorevoli professori che in materia di coltivazioni arboree ne sa davvero molto, tant’è che insegna all’ateneo di Bari ed è sempre in prima linea sul fronte della moderna olivicoltura. Davvero questo nuovo modo di coltivare gli olivi può segnare il de profundis per l’olivicoltura tradizionale? Perché, al contrario, all’estero l’olivicoltura moderna è stata accolta senza patemi d’animo mentre da noi sono in corso tante battaglie ideologiche?

Luigi Caricato

Perché in Italia sono in tanti a odiare la coltivazione super intensiva degli olivi?

Salvatore Camposeo è docente presso il Dipartimento di Scienze Agro-Ambientali e Territoriali dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari. Con lui abbiamo avuto modo più volte di collaborare, avendo firmato diversi articoli per le diverse riviste edite da Olio Officina.

Intervista a Salvatore Camposeo

Il professor Salvatore Camposeo

Professor Camposeo, parto subito da una constatazione: l’Italia olearia non è autosufficiente. In sostanza, per andare al cuore del problema, possiamo affermare di non avere gli olivi necessari per ricavare le olive da cui trarre l’olio…

Sì, esatto: siamo fortemente deficitari.

Non siamo pertanto in grado di soddisfare il fabbisogno interno e nemmeno quella quota, sempre importante, fondamentale, destinata all’export…

Proprio così. Il paradosso è che siamo il massimo importatore di olio al mondo e attingiamo quel che ci occorre direttamente dal nostro principale competitor: la Spagna.

La soluzione c’è. Ci arriverebbero tutti, non occorre essere geni. Basterebbe piantare più olivi…

Sì, ma esiste un serio problema.

Quale?

Nel nostro Paese sono stati censiti poco più di un milione di ettari di oliveti, ma produciamo molto meno della Spagna, la quale, con il doppio degli ettari olivetati produce dieci volte di olio in più.

Ci siamo messi all’angolo da soli. Più di qualcosa non ha funzionato. Non è una olivicoltura competitiva la nostra…

Purtroppo non siamo competitivi perché non abbiamo una olivicoltura professionale.

D’altra parte le aziende professionali, se le indicazioni ufficiali sono corrette, sono meno del 5% in totale…

C’è una olivicoltura che io definisco contemplativa. È quella del fai-da-te.

Una olivicoltura disorganizzata che non guarda nemmeno al futuro.

Quando si scopre che non è remunerativa si sceglie l’abbandono degli oliveti. Non è più una pratica economicamente sostenibile.

Cosa consiglierebbe ai nuovi olivicoltori, a coloro che vogliono ancora investire perché ci credono?

Consiglio di razionalizzare la coltura e di affidarsi a persone esperte, ma non al vicino di campo. Occorre individuare i tecnici specializzati che abbiano una reale conoscenza della pratica olivicola.

Che oltre a essere esperti credano anche a una olivicoltura razionale ed efficiente…

Certo, altrimenti non serve a nulla. Occorre razionalizzare e di conseguenza rivedere tutti i sistemi di coltivazione così come sono stati concepiti finora.

Quindi, ricapitolando, l’Italia coltiva olivi su una superficie di oltre un milione e centomila ettari. La Puglia da sola ospita un terzo dell’intera superficie nazionale. L’80 e passa per cento dell’olivicoltura si concentra nel sud del paese ma i tre quarti dell’olivicoltura italiana è di tipo tradizionale. È così?

È proprio così. C’è da aggiungere che gli olivi sono coltivati in prevalenza in asciutto e con una bassa densità di impianto.

Quanto bassa?

È inferiore a 200 alberi per ettaro.

Ma non è solo questo il problema…

Non è solo questo. Vi è un limitato livello di meccanizzazione e tutto ciò comporta produzioni molto esigue, inferiori a 0,6 tonnellate per ettaro.

Otteniamo poco olio e, per giunta, a costi elevati…

Sì, i costi di produzione sono superiori ai 5, 7 euro per chilogrammo di olio extra vergine di oliva.

Tutto ciò non è soltanto legato a ragioni strutturali, al fatto che vi siano molte superfici olivetate di tipo collinare e montano…

Ci sono anche ragioni di ordine varietale, ma direi pure a motivi sociali e culturali.

E qui veniamo al punto dolente: in Italia si rifiuta, perfino ideologicamente, l’alta densità degli impianti. C’è chi li addita come mostri…

Per uscire dallo stato di sofferenza vi è una sola strada da percorrere: la competitività. Anche con le migliori intenzioni, con oliveti irrigati, una quota di almeno 600 alberi a ettaro e una raccolta meccanizzata con scuotitore di tronco, anche se le produzioni di olio per ettaro sono state duplicate o triplicate, non si riesce di fatto a scendere, con i costi di produzione, sotto i 3,5 euro per chilogrammo di olio. Confrontano tali costi con le quotazioni nazionali dell’olio all’ingrosso, si comprende bene quanto sia poco competitiva la nostra olivicoltura. In pochi riescono a spuntare prezzi di vendita alti, tali da giustificare il lavoro svolto.

Quindi la strada dell’alta densità, unitamente a una altrettanto elevata meccanizzazione delle operazioni colturali può essere una soluzione…

Occorre da un lato concepire degli interventi di valorizzazione del prodotto, lavorando molto sulla comunicazione, ma su una comunicazione efficace, dall’altro è necessario, anzi, direi fondamentale, innovare la parte agricola. Anche perché l’opera di valorizzazione non può da sola risolvere il problema della scarsa competitività. Gli alti costi di produzione si possono ridurre attraverso un rinnovamento radicale degli impianti produttivi.

Come d’altra parte è avvenuto con gli alberi da frutta…

Sì, occorre rinnovare proprio come è avvenuto per altre specie arboree da frutto.

È il de profundis per l’olivicoltura tradizionale?

Non è ristrutturabile. Vi sono leggi antiquate, che risalgono al periodo immediatamente successivo al secondo dopo guerra (1945-1951) che pietrificano di fatto l’olivicoltura italiana da reddito rallentandone l’ammodernamento in modo grave e irrimediabile. È necessaria una azione istituzionale per dare una svolta al settore.

Coloro che vogliono gli ulivi non hanno da temere nulla perché le diverse olivicoltura possono coesistere, nel senso che un conto è curare e mantenere in essere alcuni paesaggi storici, altro conto è pensare che gli alberi vetusti e improduttivi possano essere ritenuti elementi di olivicoltura da reddito…

L’olivicoltura cosiddetta paesaggistica, con gli alberi monumentali, è adeguatamente tutelata da precise e severe norme, come è giusto che sia. Occorre tuttavia considerare che gli olivi sono organismi viventi che necessitano di adeguate cure colturali per vivere. Gli alberi che si portano dietro tre, quattro o più secoli sono giunti fino a noi perché sono stati coltivati. Chi lo ha fatto traeva reddito. Se non si guadagna e non si è competitivi, se non si riesce a piazzare sul mercato l’olio a un prezzo che giustifichi l’impegno economico per produrlo, l’abbandono di conseguenza è inevitabile.

La grande scommessa è far uscire dalla marginalità economica l’olivicoltura monumentale e paesaggistica…

Ricordiamo che un oliveto abbandonato, è destinato a finire la propria vita di pianta produttiva. Al centro di un oliveto vi è l’olivicoltore, non l’olivo. L’olivo un tempo era qualcosa di diverso, tant’è vero che non si chiamava nemmeno olivo, ma oleastro. Ci deve essere però l’olivicoltore dietro, ma l’olivicoltore deve vivere a sua volta, senza un reddito garantito tutto finisce. È una legge della natura. Ciò vale per qualsiasi coltura agraria.

Si può anche sostenere che l’olivo oggi sia diventato a tutti gli effetti una coltura arborea multifunzionale…

Sì, è paesaggio, protezione del territorio, elemento ecologico e ambientale, è qualcosa di così importante da essere un marcatore culturale, ed è anche molto di più: sta alla base della nostra dieta, è l’indice della nostra stessa salute, per l’olio che si ricava dalle olive. È fondamentale per l’economia.

Tanto importante e fondamentale che l’abbandono è una perdita di tutto ciò che rappresenta…

Sì, ma occorre essere realisti e consapevoli che non si possa salvare indistintamente l’olivo, qualsiasi olivo, senza l’impegno e la preoccupazione di salvare anche il reddito dell‘olivicoltore. Senza l’olivicoltore non può esserci l’olivo.

All’estero l’olivicoltura moderna è stata accolta senza patemi d’animo, senza battaglie ideologiche…

Sì, già a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo l’agricoltura ha cambiato visione. Così come è avvenuto per altre specie arboree da frutto, anche l’olivicoltura ha cambiato passo per esssere più competitività attraverso un percorso di innovazione. Si è aperta via via la strada verso una olivicoltura da reddito a partire dai sistemi intensivi.

Quanto incidono oggi gli olivi intensivi?

Rappresentano all’incirca il 20% della superficie olivetata totale.

I vantaggi sono reali…

Senza dubbio. I sistemi olivicoli intensivi hanno portato a un miglioramento reale. C’è stato un coretto utilizzo dei fattori terra, luce e acqua. Da una densità di impianto tra i 300 e i 600 alberi per ettaro con un numero di varietà limitato e sesti regolari, senza consociazioni e non più in asciutto ma irrigati, hanno dato luogo a una riduzione delle chiome, un’anticipata entrata in produzione e una ridotta alternanza di produzione. La meccanizzazione è stata fondamentale. La remuneratività economica ben superiore ai precedenti sistemi di coltivazione.

Poi c’è stata una rivoluzione copernicana…

Con l’ingresso in scena, a metà degli anni Novanta, dei primi impianti superintensivi.

Si entra in una nuova logica…

L’albero non è più un singolo, diventa una parete produttiva continua. I super intensivi s contraddistinguono per una densità superiori ai 1200 alberi/ettaro. Cambia lo scenario. La forma di allevamento è ad asse centrale. Le chiome ridotte. L’entrata in produzione precocissima entrata in produzione.

Un carico di olive dagli olivi super intensivi di Olio San Giuliano ad Alghero

La tecnologia entra in campo…

Perché è l’unico sistema di coltivazione che consente l’integrale meccanizzazione delle operazioni colturali, dalla messa a dimora delle piante alla loro potatura e raccolta.

Perché allora in Italia si è sviluppato un odio viscerale verso il super intensivo? Forse perché le cultivar impiegate non sono italiane? È una questione di nazionalismo? È l’ondata delirante del sovranismo che cancella ogni ragionamento?

L’impiego di cultivar straniere non reca alcun danno alle peculiarità e qualità degli oli extra vergini di oliva. Posso garantirlo.

Non vi è nemmeno alcun dubbio sulla legittimazione degli oli ottenuti, visto che sono da ritenersi italiani a tutti gli effetti, così come sono vini italiani quelli ottenuti da Chardonnay, Cabernet Sauvignon, Merlot e via elencando. Come d’altra parte è frutta italiana quella ottenuta da varietà non italiane…

Sì, non vi è alcun fondamento giuridico che possa sostenere il contrario. Ifattori ambientali, colturali ed estrattivi non incidono sulla qualità e peculiarità del prodotto olio extra vergine di oliva.

Il sistema superintensivo non deve nemmeno essere considerato un sistema così perfetto da risolvere i problemi dell’economia agricola italiana…

Non esistono miracoli in assenza di professionalità e di una filiera efficiente. Ciò che è certo è che si abbattono in modo significativo i costi di produzione, scendendo in modo al di sotto dei prezzi all’ingrosso.

La professionalità c’è in Italia?

Occorre avvalersi di tecnici competenti, così come per ogni attività economica. La gestione di un impianto vuole preparazione, esperienza, studio, tecnica.

L’ateneo barese, dove lei insegna, ha avuto un ruolo di primo piano al riguardo…

L’Università di Bari ha introdotto e studiato, prima in Italia, questo nuovo e rivoluzionario sistema colturale. Sono state condotte indagini scientifiche su più fronti, dagli aspetti dell’architettura all’eco fisiologia, dalla biologia riproduttiva alla messa a punto della gestione irrigua e nutrizionale di chioma e suolo. Si è lavorato tanto.

Vi siete preoccupati di rassicurare gli hater afflitti dall’ideologia lavorando anche su cutivar italiane…

Sì, i genotipi che riteniamo ad oggi adatti allo scopo sono cinque, ma stiamo studiando su altre novità varietali, che sono in corso d’opera.

Possiamo rassicurare coloro che cercano in ogni modo di ostacolare il progresso fino ad arrivare a gettare fango pur di opporsi alle novità? Possiamo dire che le diverse olivicolture possono coesistere?

Il sistema super intensivo non è contro le altre realtà produttive ma è destinato non soltanto a coesistere ma ad affiancare i sistemi tradizionali e intensivi. L’olivicoltore è al centro, se non guadagna si allontana dalla coltura ed è la fine di una storia colturale. Dobbiamo pensare all’olivo in una ottica nuova, come d’altra parte anche gli stessi esseri umani si sono evoluti. Tutto si evolve, non possiamo rinunciare al domani.

E infine, a proposito di pregiudizi, quando qualcuno (o più di qualcuno) pur di denigrare il sistema superintensivo va sostenendo che non vi possa essere qualità negli oli extra vergini di oliva, ecco un esempio concreto di un olio prodotto da olive Arbequina raccolte in un oliveto ad alta densità, ad Alghero. L’esempio concreto viene dall’azienda della famiglia Manca, di Olio San Giuliano, e riporta le analisi chimico-fisiche, che potete leggere cliccando QUI

In apertura una foto panoramica degli olivi super intensivi dell’azienda agricola di Domenico e Pasquale Manca, di Olio San Giuliano, in Sardegna, ad Alghero. Anche la foto dele olive raccolte in un oliveto super intensivo sono della più importante e grande azienda olivicola e olearia sarda. La foto del professor Salvatore Camposeo, infine, è di Gianfranco Maggio per Olio Officina

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