Confesso di aver scritto tanti articoli, dagli anni Ottanta in avanti, per esaltare il vasto e variegato patrimonio varietale olivicolo italiano. Non ho mai dichiarato il falso, anche perché effettivamente il germoplasma di cui disponiamo è davvero invidiabile. Ad oggi, conti alla mano, è di fatto ineguagliato: ben 538 cultivar. Tante, per lo meno, sono state censite in una pubblicazione della Fao del 1998. Gli altri Paesi produttori, ne dispongono di un numero nettamente inferiore.
Abbiamo perciò una biodiversità unica, anche in ragione di un territorio molto complesso e difforme. Sono i segni della natura ad averci favorito, ma è soprattutto il frutto del nostro prezioso operato nei campi, giacché non esiste cultivar di olivo che non sia la diretta espressione di un sapiente intervento dell’uomo sulla natura. Gli autori del passato ne censivano molte meno.
Non so, tuttavia, se sia stato giusto evidenziare tale vastità di differenti popolazioni di cultivar, per lo meno non se sia stato giusto farlo con toni fin troppo entusiastici, facendo chiaramente percepire una ricchezza numerativamente rappresentativa ma non si sa bene quanto effttivamente consistente. Sì, perché restando sul piano dei numeri, il quadro complessivo non è poi così esaltante. Quante sono effettivamente le cultivar che incidono sul piano commerciale?
Ciò che è certo, è che la grande quantità di olio presente in bottiglia coinvolge meno di cinquanta varietà in tutto, delle quali, tra l’altro, solo poche di esse sono realmente determinanti in termini di volumi di prodotto disponibile. Allora, resta da chiedersi se sia stata solo una pura esibizione, tutto questo continuo evidenziare il ruolo delle risorse genetiche autoctone presenti sul territorio, o se, piuttosto, l’impegno dell’Italia sul fronte di tale biodiversità sia alquanto marginale.
E’ sufficiente pensare alla sola Puglia, il più grande serbatoio d’olio d’Italia. In fondo, sono solo quattro le varietà numericamente più rappresentative della regione: le Ogliarola, la Coratina, la Cellina di Nardò e la Peranzana. Dove sono, allora, le molte altre cultivar d’Italia? C’è più di un motivo per riflettere.
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