Essere fuori dal coro. Esserne fuori per convinzione e per scelta volontaria e consapevole, anche perché, se si ha un minimo di rispetto verso se stessi, non ha alcun senso far parte di un gruppo che conta, che ha peso, esercitando potere o comunque un’influenza, e poi segretamente riconoscere il peso dei fallimenti del proprio gruppo, restando solo un meccanismo tra i tanti, senza una vera identità.
Il far parte del giro che conta sottrae, non aggiunge nulla. Forse facilita, apre le strade chiuse, ma che senso ha farne parte per poi non concludere nulla, non sentirsi nemmeno protagonisti e responsabili delle proprie scelte personali, orgogliosi dei propri successi ma anche degli errori?
Io – e scusatemi se mi metto sotto i riflettori, ma siamo in fondo tutti “io” in questo mondo – sono nato libero e ho uno spirito potentemente vocato all’indipendenza, al punto da sentire una urgente necessità – fisica, come il respirare – di assumermi le mie responsabilità, di sentirmi chiamato in causa per le mie azioni, per i miei pensieri, per il mio modo di rapportarmi con l’altro da me.
Stabilire l’urgenza di sentirmi “fuori dal coro”, ed essere un autentico outsider, significa avere anche la certezza di essere soli e di pagare le conseguenza di un solitudine che nel tempo diventa a volte vita da esiliato, pur senza rinunciare con ciò a essere parte di una comunità più estesa, migliore, anche perché far parte del “gruppo” che ti fa indossare una casacca non è mai una comunità d’anime, ma un sodalizio che sta in piedi solo per puro interesse.
Nel mondo professionale che vivo quotidianamente in una posizione all’avanguardia, da almeno vent’anni a questa parte, esercito un ruolo di primo piano, seppure da indipendente, da persona non assoggettata a gruppi di appartenenza, libero dunque dal peso avvilente delle congreghe, di lobby pronte a dettare parole, pensieri e gesti. Con i frutti del mio lavoro – di cui sono fiero dei risultati raggiunti – registro ogni giorno la volontà di essere discontinuo, nutrendo fiducia verso una comunità, seppure minuscola, di indipendenti, di persone libere, che pure ci sono.
La svolta di un Paese senza speranza è tutta nell’esercizio della propria sfera di libertà e autonomia. Quelli che oggi aspirano o fanno parte del “gruppo” che ti fa indossare una casacca sono i medesimi che hanno sottratto speranza a un Paese, succhiando l’anima a una comunità di persone depredate, senza più energie vive. Occorre partire da qui, per ripartire, credendo fortemente nel ruolo attivo della comunità dei liberi, fatta da tanti singoli “io” che, messi insieme, contano più di quelli del “gruppo” che ti fa indossare una casacca, state pur certi.
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