
Quest’oggi ho per voi un post malinconico ma non troppo. Non troppo perché apre nel contempo alla speranza. Malinconico perché ho appena avuto l’ennesima prova che una persona che conosco bene da anni e con cui ho condiviso emozioni e vissuto un percorso che annovero tra i bei ricordi ha tradito non soltanto la mia fiducia, ma gli ideali per i quali credevamo e io continuo a credere. Erano altri tempi, ma oggi quei ricordi sembrano essere d’un tratto svaniti. Tradire un’amicizia e soprattutto tradire degli ideali getta un’ombra nefasta che non può essere più risanata. Scopro così – ma non è una novità – che le persone possono far emergere una parte di sé che occultavano da anni, solo che la vera natura prima o poi esplode e si rivela per quello che è, nella nuda e più intima essenza. Non c’è nulla di cui rammaricarsi, succede. Dispiace soltanto per la persona che me lo ha segnalato, raccomandandomelo come fosse suo figlio. Ora questa persona non c’è più, è scomparsa da tempo, e non posso più dirgli “ma che razza di soggetto mi hai presentato?”
Comunque, per concludere in luce positiva questo post, ecco per voi un brano tratto da Un filo d’olio, una coinvolgente narrazione di Simonetta Agnello Hornby, edita lo scorso anno da Sellerio.
“L’olivo – scrive la signora Agnello – sembrava morto, ma non lo era: quella era la pelle rugosa di un albero che non voleva morire, come dimostrato dai getti di olivastro che spuntavano in mezzo alle radici esterne”.
Insomma, il senso di amicizia e fraternità può anche essere fortemente provato da un tradimento inatteso, ma la generosità e la dedizione di chi vi ha creduto con grande sincerità e pienezza non fanno certo morire la speranza nel continuare a credere, nonostante tutto, nel valore dell’amicizia.
In fondo, il senso dell’amicizia, se uno davvero ce l’ha, non scompare mai, anche quando si viene platealmente traditi da chi si è finto amico per trarne solo vantaggi.
Le nostre avventure si concentravano per lo più nell’oliveto, dove la trazzera si tramutava in una pista che attraversava una conca larga e suggestiva. Lì crescevano gli alberi più antichi di Mosè, maestosi olivi saraceni diversi uno dall’altro e appartenenti a tre antiche varietà: Biancolilla, Ogliare e Giarraffa. Alcuni avevano la chioma spampazzata ed enormi tronchi contorti – come sacchi ruvidi lavati, attorcigliati e lasciati ad asciugare al sole – che si curvavano sul terreno e sembravano lì lì per cadere. La corteccia era secca, e in parte sollevata: sotto le squame brulicavano larve bianche, cieche. L’olivo sembrava morto, ma non lo era: quella era la pelle rugosa di un albero che non voleva morire, come dimostrato dai getti di olivastro che spuntavano in mezzo alle radici esterne. Ci arrampicavamo su quegli alberi e ci calavamo nella cavità interna, buia come un tunnel della miniera. Altri olivi, martoriati da nodi e bubboni, erano attorcigliati su se stessi; altri ancora si dividevano alla base in tre tronchi, ciascuno in una direzione differente, come slanciate Proserpine a braccia protese verso il cielo e trasformate in albero.
Simonetta Agnello Hornby
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