Olivo Matto

Le grandi (e gravi) responsabilità del comparto oleario

Luigi Caricato

Il comparto oleario è davvero in grado di comunicare bene e con efficacia intorno allolio?

E quelli, tra loro, che in qualche modo investono in comunicazione lo sanno fare bene?

Non solo. Altra domanda: coloro che comunicano intorno all’olio riescono in qualche modo a trasmettere il valore della qualità prodotta al consumatore, o si illudono invece che basti solo l’atto del comunicare per sentirsi soddisfatti e a posto con lse stessi?

Sono interrogativi che mi pongono spesso in tanti e che io stesso mi pongo ripetutamente.

Ciò che so per certo, è che chi produce e confeziona olio non sempre si dimostra interessato alle questioni segnatamente culturali. A tutti interessa solo vendere. La cultura serve a poco, perché per molti conta di più arrivare sullo scaffale ed essere presenti ad ogni costo sul mercato, magari anche svendendo il proprio olio pur di vincere sui concorrenti, e poco importa se ci si piega alle imposizioni dei buyer e al sottocosto.

Nell’atto del comunicare conta sì lefficacia con cui si trasmette un messaggio, ma fino a un certo punto, perché se quel messaggio non ha spessore ed è oltretutto privo di contenuti forti, allora si da’ luogo solo una comunicazione fittizia, che non lascia alcun segno. O, addirittura, l’azione comunicativa che si pensava potesse dare un risultato utile può risultare a volte anche controproducente, qualora viene assegnata ad essa una connotazione inappropriata.

Per queste ragioni sono più che certo che il comparto dellolio abbia avuto, in tutti questi anni, grandi responsabilità sul fronte delle attività di comunicazione.

Per esempio, una grossa responsabilità del comparto oleario sta nel non aver mai saputo trasmettere una visione positiva dellolio. O, piuttosto, nel continuare a insistere con il trasmettere messaggi inadatti.

È il caso di un noto consorzio pugliese che in queste settimane di primavera sta regalando oli difettati ai consumatori illudendosi con ciò di poterli in tal modo educare alla cultura del buono passando attraverso una scelta di cattivo gusto.

È anche il caso, inoltre, di chi gioca su terreni scivolosi, parlando sempre (e a sproposito) di truffe, o comunque di imbrogli, di cose che non vanno, pur di attrarre su di sé lattenzione e poter in tal modo giustificare anche a se stessi la propria incapacità a comunicare i valori positivi dell’olio.

Se ci fate caso, molti fondano i propri messaggi facendo leva sulla contrapposizione, sulla denigrazione altrui, e talvolta lanciando anche accuse gravi pur di auto eleggersi a paladini del vero e autentico extra vergine, come pure del vero e autentico made in Italy.

Tutte frasi fatte, ma con poca sostanza. Sono pochi, di conseguenza, quelli che lavorano comunicando lessenziale, ovvero ciò che è giusto comunicare, assegnando il giusto valore al proprio lavoro, come pure al proprio prodotto e al proprio modo di essere.

Comunicare valori positivi, e riuscire a farlo con efficacia, senza dover ricorrere a miseri espedienti, è una scommessa che ha senso avere come obiettivo prioritario. C’è da osservare che finora in pochi sono risultati in grado di trasmettere con successo dei valori positivi .

Unaltra grande pecca del comparto oleario, oltre a quella di non saper comunicare valori positivi, è di natura politica.

Il mondo dellolio non ha saputo finora agire in modo coeso e per questo motivo la legislazione sullolio è stata gestita per decenni solo da burocrati cui non interessava valorizzare in alcun modo lolio, ma che hanno anzi contribuito solo castigarlo, rinchiudendolo in categorie comunicazionali fini a se stesse.

Per gli oli da olive andrebbe invece ripensata la legislazione. Per esempio puntando ad un testo legislativo unico ed essenziale, che vada bene per tutti i Paesi del mondo, magari rimodulando le stesse denominazioni merceologiche, aggiornandole sul piano linguistico e rendendole più moderne.

Faccio un esempio: lolio di sansa di oliva come voce in sé non attrae molto, eppure è un prodotto nutrizionalmente ragguardevole nella sua categoria di riferimento.

Anche la stessa definizione di olio extra vergine di oliva è ancora incomprensibile, seppure sia stata ormai accettata universalmente, ma per sfinimento, non per una acquisizione spontanea. Avevano pensato a un lungo treno di parole quando sarebbe stato efficacissima una espressione ben più semplice e lineare come succo di oliva.

Certo, occorre avere una buona dose di coraggio per cambiare, oggi, ma occorre pur cambiare. Non si può rimanere ancorati a definizioni commerciali espresse tanto tempo fa da burocrati senza una visione aperta al futuro, ma soprattutto senza una cultura che si nutra di marketing.

Unaltra responsabilità sul fallimento comunicazionale del comparto olio da olive è invece di natura puramente culturale: i produttori non sono in grado di raccontare il proprio olio, lo sanno forse vendere (sì, forse, chissà, non sappiamo), ma non riescono ancora a raccontarlo, a parte le solite ma rare eccezioni.

Ecco, bisognerebbe partire proprio da una rilettura e da una rimodulazione del prodotto olio da olive.

Attraverso il visual design, per esempio, ma anche avviando un processo di ordine letterario/linguistico del tutto nuovo.

Quel che occorre fare è ricostruire in qualche modo limmagine stessa dellolio, rendendola più fascinosa, meno confinata a ruoli subalterni e sicuramente più predittiva e inverante di com’è attualmente considerata.

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