Passa il tempo, tutto si evolve, ma Coldiretti ancora insiste con una visione vetusta di agricoltura, antimoderna e antiprogressista. C’è, per nulla celato, un profondo odio per una professione, quella dell’agricoltore, ma, più ancora, per l’imprenditore agricolo, anche perché, per i vertici di Coldiretti, lavorare in agricoltura equivale a ristabilire solidi e indistruttibili legami con il passato, con il perpetuarsi di una tradizione che preveda un ritorno al passato così come lo era un tempo, segnando un netto rifiuto del presente e, soprattutto, esprimendo un efferato odio nei confronti di un futuro da vivere in chiave progressista ed evolutiva. Loro, i nostalgici del passato, preferiscono conservare, mantenere uno sguardo fisso su ciò che eravamo, evitando accuratamente ciò che possiamo essere.
Coldiretti, che di fatto è la padrona assoluta del settore agricolo, e di conseguenza la responsabile diretta di tutto ciò che va e non va, detta legge sia nell’ambito della comunicazione, sia soprattutto nei canali istituzionali. Per quanto si possano lamentare gli agricoltori, alla fine tutto è la conseguenza delle politiche dettate ai vari ministri e potentati. Le leggi e la burocrazia sono figlie legittime delle scelte operate nel corso dei decenni da Coldiretti.
Questa realtà che agisce da dominus assoluto interviene anche sul fronte culturale e sociale. Il fatto che i vertici della organizzazione agricola credano e si ostinino a credere così tanto nel passato, al punto da relegare chi coltiva la terra in un protettivo ma circondariale “villaggio” in cui vale solo la legge tribale e slogan imperativi come per esempio l’ultimo, sfoggiato al recente Villaggio Coldiretti di Milano – #iostoconicontadini – intenzionalmente a segnare una netta separazione tra chi sta rinchiuso in “contado” in aperta opposizione con chi vive e opera nella comunità che è di tutti, la “città”. E se anche la campagna si rende a volte “amica”, perlomeno nei mercati contadini, è solo in una chiave di lettura che reputo “primitiva” e “pre-storica”.
Il contadino entra pertanto in confidenza con la città, ma in un luogo circoscritto, sotto forma di “villaggio”, una sorta di circo Barnum in cui poter esporre beni alimentari e soprattutto fenomeni da baraccone, politici inclusi, dove si possano snocciolare slogan deprimenti che costringono i contadini a perpetuare la propria immagine negativa e in quanto tale contraria al progresso.
Una sorta di villaggio circense in cui i cittadini possano recuperare il legame con il passato, con i propri antenati che coltivavano la terra o allevavano animali, un luogo circoscritto e delimitato in cui la gente di città possa in qualche modo svagarsi e ammirare, appunto, i contadini, ovvero chi lavora la terra “per conto di un padrone”, oppure anche “per conto proprio”, certo, ma sempre inquadrato in una visione nostalgica e passatista, comunque vetusta.
Il contadino visto e percepito nel senso più spregiativo del termine, quale persona dai modi rozzi e goffi, e, per molti versi, ontologicamente condannato al ruolo di villano tra i civili cittadini, un contadino senza dubbio più evoluto, ma nonostante tutto ancora contadino.
Ora, non me ne vogliano i tanti coldirettiani che già immagino nell’atto di storcere il naso, infastiditi dalle mie osservazioni di lesa maestà nei confronti dei loro numi tutelari.
Le mie osservazioni sono tuttavia necessarie. Non se ne abbiano perciò a male, continuino pure a venerare i santi numi di Coldiretti, lo facciano liberamente, come è giusto che sia, ma a me sembra comunque che l’involuzione del linguaggio non premi affatto chi lavori in campagna ma anzi li penalizzi e li costringa come sempre a restare confinati in un mondo altro, avulso dalla realtà: in un villaggio, appunto.
Il linguaggio – credetemi, in tutta sincerità – ha costantemente bisogno di guardare avanti, non di tornare al passato. Perché allora questo insistere nel banalizzare una figura chiave com’è quella dell’agricoltore, che invece dovrebbe non solo rifiutare l’espressione di contadino ma addirittura andare oltre la stessa qualifica di agricoltore, cercando di intuirne un’altra, una nuova, più aderente ai tempi e soprattutto più vocata e aperta al futuro.
Ne faccio una questione essenziale e per nulla marginale. Perché allora rifiutare di prestare una maggiore attenzione al linguaggio, quando è proprio attraverso una riformulazione semantica che può avvenire la tanto attesa svolta? Non una svolta fatta di infelici slogan, ma una svolta concreta, reale, sostanziale e potente. È quel che occorre all’agricoltura. Insomma, continuino pure a gestire il potere in Coldiretti, ma facendolo con una mente aperta e più evoluta. Non si chiedono spazi, ma si chiede pietà per il mondo agricolo: non confiniamolo in un circo Barnum.
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