Olivo Matto

Perché l’agricoltura non piace agli italiani

Luigi Caricato

Perché l’agricoltura non piace agli italiani? Semplicemente perché nemmeno gli agricoltori hanno veramente a cuore l’agricoltura. Ne hanno perso la radice profonda: vivono l’agricoltura restando nel proprio guscio, ma senza confrontarsi con il mondo esterno, impegnandosi soltanto nell’atto del produrre, rinunciando all’idea di farne una esperienza culturale prima ancora che colturale.

Gli italiani non credono all’agricoltura perché nemmeno il mondo della cultura, né quello alto, né in senso più popolare quello rappresentato dal giornalismo.

L’agricoltura non piace alla gente perché viene vista a distanza, perché non la si vive e non la si percepisce nella sua concretezza. C’è un racconto che non corrisponde alla realtà, e chi racconta il mondo agricolo non ha nulla a che vedere con chi fa agricoltura.

Nessuno che abbia mai cercato di far qualcosa, finora; e quelli che hanno tentato di reagire o sono soli, perché nessuno li sostiene o li ha mai sostenuti, o sono avversati, perché parlano un linguaggio che altri non intendono o che intendono come linguaggio nemico.

Tutto questo accade perché l’agricoltura viene sempre percepita secondo una limitante visione bucolica, nostalgica ed edulcorata, ammiccando sempre al passato, alla tradizione per la tradizione, e rifiutando con ostinazione una agricoltura moderna, sradicata da ideologie.

L’agricoltura è terra di nessuno. Basti pensare che al Corriere della Seranessuno se ne occupa, se non concedendo spazi alle continue e quotidiane veline delle organizzazioni di categoria, e di una in particolare (la quale domina la scena di giornali, web, radio e tivù per almeno il 98% dei casi). Anche il quotidiano la Repubblicasi affida alle veline, e quando invece agisce in proprio, riserva soltanto lo spazio per l’agricoltura a una voce unica, in modo da indirizzare il lettore verso un pensiero unico, non distante, oltretutto, da quello dell’associazione di categoria che da decenni sta dominando la scena in maniera assoluta. C’è anzi da osservare che lo stesso raccontatore di favole idilliache che risponde al nome di Carlo Petrini, personaggio di punta del quotidiano e tra i fondatori di Slow Food, è in stretto rapporto con l’associazione che impone il pensiero unico in tema di agricoltura senza che vi sia alcun contraltare. Petrini, per carità, ha pure dei meriti, tanti, ma i demeriti sono di gran lunga ben superiori, perché alla fine si è confinata l’agricoltura in una collocazione atemporale e idilliaca, totalmente slegata dal progresso tecnologico.

Di conseguenza, con questo scenario, non si è mai sviluppata, negli ultimi quarant’anni, una seria attenzione alla materia agricola. C’è stata, sì, una rappresentazione del mondo agricolo, ma del tutto sbagliata, fallace, con l’aggravante di aver negato nel frattempo spazi e voce a giornalisti e uomini di cultura con una visione dell’agricoltura nuova e moderna, per certi versi futurista, discontinua con il passato, soprattutto quello più recente, una visione che sia sganciata dalle logiche di un mondo fatato e nello stesso tempo viziato da logiche assistenzialistiche, dove si sopravvive a fatica e solo a suon di aiuti e l’unico linguaggio che si conosce e si parla è quello che non conosce altre vie di fuga se non l’evocare la tradizione la tradizione, il territorio il territorio, il prodotto tipico il prodotto tipico, il contadino il contadino, i sapori di una volta i sapori di una volta. Tanti refrain che stordiscono e sfiniscono chi di agricoltura vive ogni giorno con serietà e onestà, ma soprattutto con una visione del tutto alternativa a quella dominante, sperando sempre in una società diversa, in una Italia migliore, non ancorata a un passato e a una visione nostalgica che non ha alcun senso riproporre.

L’agricoltura ha bisogno oggi di essere liberata dalle associazioni di categoria, da ministri delle politiche agricole e da piagnistei continui. È sufficiente osservare quel che accade altrove, e i migliori in assoluto sono in particolare gli israeliani. Noi italiani siamo la vecchia guardia, quella che cade a pezzi, e i pochi che ancora hanno il coraggio di pensare a una agricoltura diversa sono considerati outsider e vengono ad ogni occasione inghiottiti da una burocrazia selvaggia creata ad arte per favorire e di fatto per finanziare solo coloro che invece stanno facendo precipitare l’agricoltura nel nulla assoluto.

L’Italia agricola paga a caro prezzo la latitanza del mondo culturale, e non può certo esserci una svolta concreta ed efficace fino a quando non ci sarà un ripensamento totale delle attuali politiche agricole, attraverso una rimodulazione radicale e profonda. E invece, per contro, per molti anni tanta gente di cultura è stata sedotta da slogan -permettetemi di dirlo – idioti: il Km 0, primo tra tutti. E così anche tanti intellettuali ignari della realtà si sono lasciati sedurre nel frattempo dalle veline di una organizzazione agricola che ha distrutto tutta una intera categoria, rendendola incapace di creare economia, cultura, socialità.

Pensatela come volete, ma, per quanto mi riguarda, sono fortemente convinto che non potrà mai esserci agricoltura nel senso pieno del termine, con un suo peso culturale, economico e sociale, finché imperverseranno le tante frottole – e permettetemi anche in questo caso di chiamarle così – del Km 0, o, in alternativa, dei presidi del pisello variopinto del comune di Orticello di casa mia.

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