Quando qualcuno, tra le persone che frequento estranee al mondo dell’olio, si imbatte per caso in questo rissoso, lagnoso, schizofrenico e apocalittico comparto oleario italiano, mi guarda perplesso e interrogativo, chiedendomi conto, frastornato, del perché di simili atteggiamenti, io rispondo, ormai rassegnato, che non è un comparto per persone normali. Forse un tempo lo erano, normali, ma poi nel corso degli ultimi anni tutto è cambiato. È un mondo in chiave negativa.
Non tutti, per la verità, sono da considerare in luce negativa, di ottimisti e resistenti ve ne sono ancora, seppure il quadro generale in cui si opera non sia poi così favorevole. Non tutti dunque rientrano nella fattispecie negativa e umbratile. Non tutti, perché altrimenti sarebbe la fine.
Quelli, tuttavia, che sono realmente esempi positivi, anziché essere seguiti e presi a modello, vengono al contrario dileggiati, quando va bene ostacolati, ma quando i cavalieri del negativo si rendono conto che sono davvero bravi e possono avere sempre più successo, in chiave commerciale, allora come minimo vengono accusati di essere potenziali e presunti frodatori, o tutt’al più condannati alla gogna come “industriali”.
Insomma, per essere tranquilli e non subire alcuna accusa, occorre come minimo dichiararsi “artigianali”, odiare l’olivicoltura superintensiva, non ricorrere a impianti di estrazione che interessino grossi volumi di prodotto, dotarsi di un impianto di confezionamento il più minimal che si possa avere, perché tutto deve essere il più easy possibile ed evitare accuratamente di diventare grandi, altrimenti la qualità non è più tale. Solo ciò che è piccolo è bello, presentabile e buono. Se si finisce l’olio a disposizione, non ci si preoccupa di garantire la fornitura ai propri clienti, ma si attende pazientemente la nuova olivagione. Insomma, guai a diventare grandi, perché ciò che è grande non è mai buono né sano né autentico, e c’è sempre l’imbroglio di mezzo.
Ecco, il fatto è che il mondo dell’olio, quello che sta all’inizio della filiera, quindi la parte più strettamente agricola, ha grande paura di crescere, e crede che fare impresa consista solo nell’attendere che ci sia qualche benefico e salutare contributo pubblico che piova dall’alto, mai che ci si assuma nemmeno lontanamente il rischio di impresa e si punti a obiettivi ambiziosi.
Questa è l’Italia olivicola di oggi, l’equivalente della nazionale di calcio, che non aspira a nulla e piange quando scopre di non essere più competitiva e di restare esclusa dal grande consesso mondiale dell’olio. Non si ha più fame di successo, non si osa più e tutto viene visto e vissuto in chiave negativa.
Chi alza la testa e dimostra di agire bene, da imprenditore audace e capace, diventa subito il nemico da abbattere, perché è la mediocrità la nuova legge che impera in Italia.
Se c’è qualcuno che emerge, bisogna prontamente azzopparlo, o comunque frenarlo: non deve diventare grande impresa, deve ripiegare sui piccoli numeri. E così, a farsi avanti in questa campagna in sola chiave negativa, vi sono anche le stesse istituzioni, che anziché favorire le imprese migliori e potenzialmente efficienti, premiandole e sostenendole, preferiscono bloccarle per punirle della loro bravura e spirito di intraprendenza.
Quel che resta, è solo un abusato slogan, che risuona come un mantra: made in Italy, made in Italy, made in Italy, pronunciato ossessivamente, senza interruzione, solo per mettere a tacere la propria coscienza e mediocrità.
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