A sostenerlo, nei giorni scorsi, non sono stato io, ma il professor Franco Famiani dell’Università di Perugia, in occasione di un convegno di cui ero anch’io relatore, a Castelmuzio, nella Toscana senese.
Ovviamente non mi limito a sottoscrivere tale implacabile, severo e funesto giudizio, ma colgo l’occasione per ribadire come questa denuncia di immobilismo assoluto io l’abbia fatta almeno vent’anni fa, non solo a parole pronunciate in privato e in pubblico, ma anche con articoli su carta stampata e sul web, ovunque e in qualsiasi contesto ho espresso la mia visione, allora dapprima inascoltata, poi avversata e contrastata, ora tutto è diverso. Si avvicina la fine dell’olivicoltura italiana per inedia e tutti se ne rendono ora conto, anche se non tutti ne comprendono ancora la via d’uscita. Credono che basti sperare e evocare la parola “cambiamento” perché tutto avvenga, ma nulla potrà avvenire, perché gli italiani sono malati di immobilismo, e più che alla decrescita felice puntano ostinatamente alla decrescita infelice. Ce la mettono tutta per osteggiare chi cerca ogni possibile soluzione per voltare pagina.
Franco Famiani è stato impietoso: “abbiamo piante vecchie, sesti irregolari, densità basse, difficoltà nell’ubicazione degli oliveti, piante vetuste che non si prestano alla meccanizzazione, oggettive problematicità di gestione, pochi impianti intensivi e moderni, collocazione degli ulivi su terreni non ottimali, con bassa redditività”. Insomma, non c’è speranza di risalire la china. Non piantiamo nemmeno olivi, quelli che lo fanno vengono contrastati e intralciati, anche derisi in alcuni casi. Forse dobbiamo interrogarci su cosa vogliamo fare. Siamo un popolo vecchio, senza energie, che si sta spegnendo, eppure la strada per voltare la pagina c’è. L’ho detto anni fa, senza essere ascoltato, poi finanche in seguito denigrato e calunniato, per le cose dette e scritte, anche perché sostenere che le responsabilità siano state tutte di coloro che hanno gestito il sistema agricolo non piace, perché è una verità amara, ma presto, vedrete, tra altri trent’anni, ci sarà chi riconoscerà che effettivamente quel che andavo dicendo e scrivendo era giusto, le responsabilità sono di chi ha governato le organizzazioni agricole, ma ieri come ora sarà troppo tardi ormai, e si potrà solo constatare la causa del decesso dell’olivicoltura italiana. Saremo testimoni di una civiltà passata e i pochi imprenditori illuminati che hanno in tutti questi anni compiuto i propri passi in solitudine, investendo, credendoci, resteranno i nuovi paladini della olivicoltura della rinascita, perché poi alla fine la storia è ciclica, conosce avanzamenti e arretramenti. Peccato che oggi stiamo vivendo la fase di inesorabile declino, una crisi tanto più amara quanto più si rivela figlia della stoltezza di chi ancora insiste nell’ostacolare il progresso e la civiltà a suon di logori slogan made in Italy – made in Italy: per giungere dove?
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