Saperi

Abbiamo vinto alcune sfide, ma non siamo ancora al traguardo

L’Italia che verrà assomiglierà un po’, o tanto, all’Italia che è stata? Rileggendo a distanza il romanzo L’orologio, di Carlo Levi, si scopre quanto sia oggi ancora di grande attualità la sua visione. Tornare su quell’opera pubblicata nel 1950 diventa un sano esercizio di pensiero in questi giorni di vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica

Alfonso Pascale

Abbiamo vinto alcune sfide, ma non siamo ancora al traguardo

Francesco Piccolo rilegge su “Robinson” di “Repubblica” (15 gennaio 2022) il romanzo di Carlo Levi L’Orologio (Einaudi 1950) e confronta il contesto politico in cui si sviluppa il racconto con quello odierno. Anche allora spirava il “vento del Nord”.

Ma il significato di questa espressione era diverso da quello che conosciamo in Italia dagli inizi degli anni Novanta.

Nel 1945, il “vento del Nord” avrebbe dovuto determinare una profonda trasformazione dello Stato italiano per fondare una democrazia basata sugli ideali della Resistenza.

Ma Ferruccio Parri, esponente di primo piano della Resistenza e capo di un governo sostenuto da tutti i partiti, fu prima isolato e poi abbandonato.

Egli era uno dei leader del Partito d’Azione e rappresentava un “vento del Nord” tenuto a battesimo da quella borghesia intellettuale e indipendente che aveva fatto la prima guerra mondiale, che credeva negli ideali del Risorgimento e che condivideva le critiche che durante gli anni del fascismo proprio gli esponenti di “Giustizia e Libertà, i Rosselli, Ernesto Rossi, Salvemini, Bauer, Tarchiani, Lussu, avevano fatto sulla struttura dello Stato italiano, indicando le ragioni per cui i vecchi partiti non erano stati capaci né di trasformare lo Stato né di liberare il Paese dalla egemonia conservatrice.

Il Partito d’Azione sperava in questa possibilità. Quindi, ha ragione Piccolo quando afferma che L’Orologio parla “della fine di un’idea euforica e rivoluzionaria che era nata con la Liberazione”.

E mentre il racconto si svolge “già l’orologio è fermo, già i migliori sono disincantati. E già Parri e il sogno che porta con sé sono pronti alla resa. Già si capisce che l’Italia che verrà assomiglierà un po’, o tanto, all’Italia che è stata — quello che del resto aveva capito subito il principe di Salina nel ‘Gattopardo’”.

L’articolo di “Robinson” afferma che “questa è la situazione che stiamo vivendo adesso dopo lo scoppio della pandemia, come se l’Italia non si fosse mossa o come se si fosse tornati al punto di partenza”.

È indubbio che le scelte dell’oggi sono drammatiche come quelle del 1945 e che alcuni nodi (forma di governo, bicameralismo, regionalismo, pubblica amministrazione, giustizia, fisco, istruzione e ricerca) vengono da lontano.

Per questo il romanzo leviano ci potrebbe aiutare a ricostruire le origini delle resistenze che ancora oggi frenano quelle riforme strutturali che in Italia non si sono mai potute realizzare.

Carlo Levi. Copertina de “L’orologio”

Già Mario Spinella, all’indomani della morte di Carlo Levi, avvenuta nel 1975, aveva scritto su “Rinascita”: “Resta il fatto che la forza cognitiva della scrittura di Levi ci offre ancora oggi materiali di riflessione e di analisi su quegli anni: e L’Orologio, più ancora forse del Cristo, è un libro da rileggersi”. “Una proposta – chiosa Leonardo Sacco nel suo indimenticabile L’Orologio della Repubblica. Carlo Levi e il caso Italia (Argo 1996) – restata ancora a lungo inascoltata, perché le compatte avversioni iniziali hanno determinato una sorta di blocco intorno a L’Orologio, quasi paradossalmente sia per le sue qualità formali che per il suo contenuto”.

Per questo, nel 1993, Giovanni Russo, in qualità di presidente della Fondazione Carlo Levi, organizzò a Roma un seminario dal titolo: “L’Orologio e la crisi della Repubblica”.

“Con quel titolo – scrive Russo nella sua bella Lettera a Carlo Levi (Editori Riuniti 2001) – volevo suscitare un dibattito per capire le radici di degenerazioni che sono diventate argomento di polemica politica da parte di forze un po’ torbide come la Lega e a cui prestarono benevolenza anche intellettuali di sinistra”.

Al seminario parteciparono gli studiosi italiani e stranieri Claudio Pavone, Lucio Villari, David Ward, Gigliola De Donato, Francesco Barbagallo, Gianni Corbi, Aldo Natoli, Leonardo Sacco, Carlo Villani, Giorgio Parri, Vittore Fiore, Agostino Giovagnoli e uno dei protagonisti del libro, Carlo Muscetta, che portò la sua preziosa testimonianza.

Quel convegno fu un primo tentativo di revisione critica, sollecitata dalla più che evidente conclusione di un intero ciclo storico-politico del nostro Paese, per riavvicinarsi finalmente a narrazioni e testimonianza per molto tempo trascurate.

L’Orologio è, dunque, un testo letterario che descrive la nascita della Repubblica dopo la liberazione e la crisi dei valori della Resistenza provocata dalla forza del vecchio Stato, che riuscirà a garantire la continuità di un sistema che reggerà l’Italia, nel bene e nel male, fino ai giorni nostri.

Tornare a leggere L’Orologio è un buon esercizio in questi giorni di vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica.

Un buon esercizio soprattutto per la élite politica (leader di partito, parlamentari, rappresentanti delle regioni) a cui compete la responsabilità della decisione.

La pandemia è tutt’altro che superata, così come la ripresa economica è tutt’altro che consolidata.

La scelta del presidente della Repubblica deve dunque confermare la maggioranza che sta affrontando la sfida, allargandola se possibile.

Certamente, stiamo raggiungendo alcuni risultati positivi.

Il Pil italiano cresce. La campagna di vaccinazione si è dimostrata efficace. Il Pnrr ha fatto i primi cruciali passi. Gli italiani si stanno dimostrando nella (quasi) totalità cittadini consapevoli. È cresciuta la fiducia internazionale nei nostri confronti. All’interno dell’Ue, l’Italia, insieme alla Germania e alla Francia, ha la leadership nella revisione del Patto di stabilità e crescita, oltre ad essere impegnata a promuovere una capacità fiscale e militare europea.

Ma ancora resta molto da fare.

Il debito pubblico è cresciuto drammaticamente, le pressioni inflazionistiche si fanno sentire, i costi dell’energia aumentano, i finanziamenti europei sono condizionati al raggiungimento di riforme, la Banca centrale europea sta valutando se alzare i tassi.

Abbiamo vinto alcune sfide, ma non siamo ancora al traguardo.

La nostra élite politica deve garantire la continuità della sua convergenza governativa, formalmente fino al 2023 e nei fatti almeno fino al 2026.

Sa che l’interruzione di quella convergenza, il prossimo 24 gennaio, avrebbe conseguenze drammatiche.

Come ha ricordato Sergio Fabbrini, la presidenza della Repubblica assolve inoltre una funzione di garanzia, non solo interna ma anche esterna.

La scelta del presidente della Repubblica deve dunque rafforzare la nostra costituzione materiale, non solamente quella formale.

Se la costituzione formale affida al presidente della Repubblica il compito di garantire l’unità nazionale, l’equilibrio tra i poteri statali, il rispetto dei principii repubblicani, la costituzione materiale gli richiede un compito inedito, garantire l’interdipendenza del Paese.

Il presidente della Repubblica è divenuto l’interlocutore insostituibile dei leader degli altri Paesi europei.

Il 24 gennaio i Grandi Elettori dovranno, con il loro voto, garantire la continuità e la coerenza dell’azione del governo in carica e, nel contempo, garantire la continuità e la coerenza della presidenza interdipendente della Repubblica.

Dalla loro scelta dipenderà se si potrà continuare a provare e riprovare ad aggiustare l’orologio o se dovremo considerarlo ormai rotto del tutto.

In apertura, Carlo Levi in una fotografia di Paolo Monti

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